ROBERTO ZANETTI

LE OPERE DI G.F. MALIPIERO
DAL 1925 AL 1930


LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

pp. 709-719
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Passiamo ora a un'altra serie di composizioni malipieriane, le quali occupano gli anni tra il 1925 e il 1930 e che si possono appunto raggruppare insieme per svariate ragioni, come vedremo [1]. Nelle opere di questi anni, anzitutto, possiamo individuare il ritorno al simbolismo di Pantea: lo riferiscono i drammi musicali Filomela e l'Infatuato e Merlino mastro d'organi, che sappiamo già essere strettamente connessi l'uno all'altro [2]. Di petto a tale riaggancio con uno dei suoi lavori di maggiore importanza (ma ricordiamo all'epoca ancora praticamente sconosciuto nella sua viva realtà sonora), figurano altri che invece si apparentano con le Sette canzoni: cioè Il mistero di Venezia (ovvero le sue due parti esterne, Le aquile di Aquileia e I corvi di San Marco, ché Il finto Arlecchino, discende in certo senso dalle Commedie goldoniane, come pure il successivo Festino). Invece compenetrazione dei due atteggiamenti tra loro, ma risultando specialmente continuazione e perfezionamento delle Sette canzoni, viene poi il Torneo notturno, massimo capolavoro del Malipiero teatrale anteriormente alla seconda guerra mondiale, ma anche ultima manifestazione delle prospettive e delle visioni ideali che avevano animato il suo primo periodo creativo, e, insieme, nitida dimostrazione del suo sapersi rinnovare. Tutti i lavori che siamo andati citando, dal punto di vista musicale, sono però organicamente legati tra loro.
Così in Filomela vediamo tornare elementi delle Sette canzoni, ma anche notiamo elementi e caratteri espressivi nuovi che ritorneranno in Merlino e quindi nel Torneo notturno, o anche altrove. Caratteri espressivi che addirittura trapasseranno in opere successive, come la Favola del figlio cambiato, e anche molto più tarde, poiché riaffioreranno - dopo la parentesi dei «lavori storici»(1935-41) - nell'Allegra brigata, nei Capricci, addirittura perfezionandosi nelle più notevoli esperienze sceniche del secondo dopoguerra, quali Donna Urraca e Venere prigioniera. Dunque il valore e il significato di talune, almeno, delle opere teatrali fiorite nella seconda metà degli anni Venti possono dirsi elevatissimi, pari nella storia della musica e della produzione malipieriana a quelli che hanno le Sette canzoni. E specialmente grande significato va assegnato a Filomela, con la sua funzione di momento indispensabile al perfezionamento del teatro malipieriano, dunque tramite necessario tra le Sette canzoni e Torneo notturno. Come punto d'osservazione possiamo fare riferimento alla forma che, in entrambi i casi, è incentrata sulla canzone: e anche Filomela è quasi una antologia di testi presi dall'antica poesia italiana e di rilancio dei ritmi della musica italiana antica. Mentre nelle Sette canzoni la forma era tutta determinata dal succedersi stretto delle canzoni, in Filomela queste sono rapportate drammaticamente l'una all'altra, procedono così in modo molto libero e distribuendosi irregolarmente, con accattivanti insorgenze improvvise. In più esse offrono spunti precisi al tessuto sinfonico, come avvenuto (derivando persino dal recitativo) nelle Tre commedie goldoniane [3]. Anche in Filomela i recitativi, delegati a tenere insieme la struttura drammatica, risultano scarni, essenziali, lavorati con meticolosa precisione, diremmo addirittura ineccepibili. La loro presenza fa sì che la struttura «a pannelli », se non superata, venga posta in discussione o si tramuti in qualche cosa di più complesso e di meno facilmente coglibile [4].
Così anche la sazietà per gli sviluppi tematici del tessuto sinfonico non risulta più radicale come un tempo: Malipiero, anche qui (come nel coetaneo Finto Arlecchino), si concede talora di lavorare con continuità uno spunto, un ritmo, manifestando pertanto il riaffiorare dell'interesse per l'elaborazione, che comunque sottrae ai condizionamenti e ai retaggi ottocenteschi. S'accentua qui, inoltre, la cura stilistica e, specialmente, si fa largo con frequenza «una tensione timbrica eccezionale, paragonabile alle più fulgide violenze bartokiane».[5]
Questi i non scarsi elementi che determinano l'importanza del dramma musicale Filomela, da tenersi presenti nell'affrontare il prosieguo della produzione teatrale malipieriana.
Purtroppo i limiti del lavoro non consentono di soffermarci su Merlino mastro d'organi, se non per dirlo continuazione del precedente, sia come soggetto [6] che per caratteri e procedimenti drammatici e musicali [7]. Così pure dobbiamo trascurare il trittico Il mistero di Venezia [88], nonostante l'indubbio interesse delle due parti esterne e nonostante l'evidente riproporsi del mito della città lagunare [9]. A proposito di Merlino, dobbiamo poi aggiungere che la sua realizzazione fu molto ritardata nel tempo, mentre quella del Mistero di Venezia prolungò la «tradizione» delle «prime» malipieriane all'estero, specie in Germania [10].
Giungiamo così, sempre percorrendo la via teatrale, al capolavoro assoluto, a quel Torneo notturno che Malipiero compose nel corso del 1929, ponendovi la parola fine, esattamente, il 10 dicembre [11], e che poi considererà sempre tra le sue creature più care [12]. Anche perché, ebbe a motivare, in esso seguì «se non le teorie, ché le teorie non esistono, lo stesso ordine di idee delle Sette canzoni». Come riferiscono, puntualmente svariati elementi: l'articolazione in sette brevi, rapidi quadri, che Malipiero chiama «notturni», nei quali praticamente ridotto a nulla risulta il recitativo, mentre importante ruolo hanno le canzoni (soprattutto una, come vedremo, autentica protagonista), pur alternandosi con la stesura sinfonica (gli intermezzi che collegano quadro con quadro). Ecco dunque specificato il senso, dal punto di vista formale, della derivazione e così il senso della sintesi compiuta dal musicista in questo lavoro di elementi, caratteri e forme precedentemente esperite, non solo nelle Sette canzoni ma anche nelle più recenti produzioni teatrali. Una sintesi d'innegabile validità e sicurezza, dove le varie componenti, anche le più diverse, s'armonizzano in un tutto artistico assolutamente unico, compiuto e inimitabile.
A garantire l'unità, la coerenza, la consequenzialità dell'azione [13], è la stessa musica che lega in maniera salda i sette notturni - come avveniva per le sette espressioni drammatiche. I sette quadri del Torneo si succedono nel modo sottoindicato (tra parentesi i personaggi che non siano il Disperato e lo Spensierato, i quali sono presenti in ciascun notturno):

1. Le serenate (tre innamorati [tenore, baritono, basso], Madonna Aurora)

2. La tormenta (la vecchia madre [mezzosoprano, la figlia [soprano], due giovani donne)

3. La foresta (una donna)

4. La taverna del Buon Tempo (l'oste [baritono], una cortigiana [soprano], un'altra cortigiana, alcuni avventori)

5. Il focolare spento (la sorella del Disperato, tre uomini)

6. Il castello della noia (il buffone [baritono], il castellano e la castellana, un trombettiere e altri musici, un giocoliere, guardie e servi)

7. La prigione (la castellana, un guardiano, il buttafuori [recitante]).
La musica, s'è detto, determina completamente il divenire e le situazioni drammatiche. Ovvero sono la ricomparsa frequente, anzi addirittura regolare, della Canzone del tempo (che riportiamo)
e quella, più libera però, del tema strumentale del Disperato, e la loro dialettica opposizione, cioè il loro porsi come elementi sonori della lotta, a costruire la trama del tessuto drammatico [14]. È sufficiente questa indicazione a far capire come il rapporto tra la canzone (cioè la musica) e il dramma risulti nel Torneo notturno diametralmente opposto a quello che tra essi si ha nelle Sette canzoni, nelle quali - ricordiamo - è l'attimo vissuto a enucleare la canzone e non viceversa, come avviene qui. Lo riferisce inoltre il fatto che nel Torneo notturno v'è una vicenda che si svolge consequenzialmente, per quanto tenue e difficile da sunteggiare. Ma non è forse già sufficiente a diversificare le due opere proprio l'enucleazione e l'utilizzo di due veri e propri Leitmotive, pensati rispettivamente per i due antagonisti? Due temi che seguono passo dietro passo i loro rispettivi «soggetti», che li rievocano quando sono fuori della vista, e che di continuo riferiscono attraverso le loro contrapposizioni della lotta che quelli stanno vivendo, a volte addirittura suggerendola fisicamente con l'innestarsi dell'uno nell'altro [15]. Temi a cui si applica la tecnica della elaborazione, dello sviluppo, della variazione, della fine modificazione metrica, ma soprattutto - come ad esempio per la canzone - ben differenziandone i ritorni armonicamente o timbricamente, anche con l'aggregazione di figurazioni enormemente significative perché legate al preciso momento vissuto (si pensi all'allitterazione del suono la che, da pedale tenuto, all'ultima ricomparsa della canzone diviene elemento di moto ripercuotendosi su varie ottave, così sottolineando la didascalia riferita allo Spensierato che «selvaggiamente canta »). [16]
Ma, si chiederà il lettore, da quanto detto non esce forse un'immagine del Malipiero contraddittoria, addirittura facendo del Torneo una sorta di palinodia delle Sette canzoni? Immagine erronea come ha ben spiegato ancora una volta il Santi [17]:
il musicista torna ad accogliere, almeno in parte, quei procedimenti compositivi che aveva all'inizio energicamente respinto. Ci troviamo evidentemente di fronte a un nuovo svolgimento stilistico della sua arte; le sinfonie urgono alle porte [18]. Ma si constati ora... quanto poco contraddittorio con le premesse originali del teatro malipieriano sia tale ritorno a certi stilemi tradizionali. Per quanto paradossale ciò sembri simili espedienti della componistica romantica servono ora a delineare proprio quel piano esistenziale in nome del quale un tempo erano stati esclusi. S'era cominciato col bandirli perché la loro formula convenzionale impediva l'apertura all'eventualità dell'esistenza, ora si scopre che codesta apertura non è lo spalancarsi di nuovi mondi, l'offrirsi di misteriosi eventi, ma l'immanente condizione dell'umano. Lo Spensierato con la sua cinica canzone provoca il Disperato non solo in ordine alla vicenda, ma ne è dialetticamente la causa, ne acuisce intenzionalmente la necessità e ne aspira l'anelito. E per significare tutto ciò Malipiero richiama quelle nozioni musicali che si reputavano ormai inutilizzabili, e che lo sono tuttora effettivamente se le si considera altrimenti, nel Torneo, che termini di puro comodo, fermo restando che l'interesse risiede nell'intuizione poetica che le subordina e le trasfigura. La nuova presa di coscienza costituita dal Torneo notturno avviene dunque entro tali termini, e ancora una volta è il contenuto a condizionare la forma: l'atto di riconoscimento si compie coi mezzi più idonei.

In diverse occasioni a proposito del Torneo notturno si è richiamato l'espressionismo. Un richiamo senza dubbio pertinente per molti aspetti del lavoro, ma che non deve generalizzarsi e comunque non può prescindere da taluni dati tipici del lavoro e così poco espressionisti, o comunque poco o nulla assimilabili agli stili musicali sorti dall'espressionismo. Si pensi alla melodia, all'armonia. La melodia, proviene come per incanto dalla moderna riconcezione del gregoriano e del canto arioso dei musicisti veneziani seicenteschi. È essenzialmente diatonica e non conosce le dure torsioni dell'espressionismo. Nel melodizzare, qui nel Torneo notturno, giunge a maturazione quell'arabesco di un tempo, si fa melodia articolata, ma non perde nulla della sua fragranza, nulla del suo significato. Ma proprio dal suo fluire perpetuo, dal suo rinnovarsi, dal suo girare e rigirare su certi poli che sembrano come catturarne lo svolgimento e, nel medesimo tempo, rilanciarla con la sua tensione nuovamente integra, proprio da tutto ciò, insomma, viene quel clima spesso allucinato, ossessivo, che può motivare parentele e legami linguisticamente non documentabili. Più che altrove l'invenzione melodica si presenta nuda, spoglia, diretta e sintetica, senza nulla concedere alla decorazione, ma vivendo tutta d'intenso e sobrio lirismo.

A proposito della condotta armonica, va rilevato che, nel Torneo, ci si muove sempre su un terreno tonale, anche se amplificato dalle modalità gregoriane, dalle armonie di quarta e di quinta, dalle combinazioni tonali e modali [19]. Ma vi si trovano anche recuperi di procedimenti modulanti e di trasformazioni tonali molto significative. Una per tutte di tali trasformazioni va almeno indicata. La si trova nel finale strumentale, proprio all'avvio del Lento, triste assai, dove ricompare, ora in fa minore, un'idea già precedentemente apparsa, in fa maggiore, come intermezzo tra il quinto e il sesto notturno [20]. Evidentemente il significato è molto più complesso che non quello semplice di ripetizioni in minore, dunque sorta di ripiegamento espressivo. A rendere più complesso il significato del passo viene la strumentazione, più pesante, più scura, più lugubre. Davvero una marcia funebre per un corteo che transita fuori dalla vista, ma di cui si può certo dire che non si tratta più di una mascherata, ma della «vita che passa agitando il gonfalone della morte», come appunto esplica il Buttafuori.
Dopo il Torneo notturno ancora un lavoro su cui si può scivolare via senza scrupoli, Il festino, a proposito del quale va solo rilevato - ed è un dato importante - l'utilizzo di un testo altrui, primo di una serie che poi vedremo [21]. Quindi troviamo quella Favola del figlio cambiato, su libretto del Pirandello, in cui tutti concordemente individuano i primi sintomi della crisi dell'uomo di teatro Malipiero, crisi destinata a ingrandire negli anni successivi attraverso le opere teatrali derivate da Shakespeare, Euripide, Calderon de la Barca. Ma intanto, in coincidenza con i lavori teatrali che siamo andati esaminando, incontriamo qualche altra composizione su cui ci si deve soffermare [22]. Intendiamo taluni lavori strumentali quali i Ricercari e i Ritrovari per undici strumenti che, per varie ragioni, fanno gruppo a sé, e la Sonata a tre: tutti insieme però esplicativi, con i primi quartetti (quelli dalle intitolazioni, per così dire, «bizzarre») e poi con gli Inni e le sinfonie, dell'ideale classico che Malipiero allora coltivava.
I Ricercari (finiti il 23 ottobre 1925) hanno un organico affatto desueto: flauto, oboe, clarinetto, fagotto. corno, quattro viole, un violoncello, un contrabbasso. La loro caratteristica saliente è di essere tanto opera da camera che sinfonica, come appunto precisava in testa all'edizione Universal l'autore stesso e come poi ha dimostrato il loro insediarsi nei repertori sinfonici. A spiegazione di tale duplicità l'autore adduceva motivi di scelta e trattamento strumentale, ovvero un'ideale sonorità d'insieme che pareva trascendere le consuete separazioni di genere. I Ritrovari (finiti l'1 dicembre 1926) sono per il medesimo organico e la loro genesi si deve a un'esplicita richiesta di D'Annunzio che «dopo aver ascoltato i Ricercari (al Vittoriale) - ha riferito Malipiero - volle che scrivessi un'opera che avesse gli stessi istrumenti.... ma a carattere eroico, e mi inviava... [uno] schema, ch'io seguii fedelmente; mutai poi soltanto il titolo» [23]. Singolare, infine, la Sonata a tre (finita di comporre il 14 luglio 1927), per il suo rispondere solo in parte a quello che normalmente s'intende con tale intitolazione. Difatti questo lavoro - anch'esso come i primi quartetti dedicato a «Mrs. Elizabeth S. Coolidge» - si presenta con una successione di tempi nei quali dapprima sono affrontati due strumenti per volta, poi riuniti insieme soltanto in quello conclusivo. Cioè: I tempo per violoncello e pianoforte; II tempo per violino e pianoforte; III tempo per violoncello, violino e pianoforte. Della Sonata a tre va soprattutto rilevato lo studio posto dal Malipiero a sviluppare le possibilità «concertanti» degli strumenti, sia nel trattare il duo nei primi due movimenti e sia nella realizzazione della scrittura a tre dell'ultimo.

NOTE

[1] Coincidono con la composizione malipieriana altri lavori che facevano ricorso alle melopee e alle modalità gregoriane. Cioè i 3 Preludi su melodie gregoriane per pianoforte e il Concerto gregoriano per violino e orchestra di Respighi, il Poema gregoriano per pianoforte e orchestra di Francesco Ticciati, come pure Debora e Jaele e la Messa da Requiem di Pizzetti - le cui attenzioni al gregoriano risalivano al tempo delle musiche per La nave (1908), come pure quelle del Respighi per il modalismo, almeno, trasparivano già nelle Fontane (1915).

[2] In mezzo a far quasi da cerniera tra primo e secondo gruppo di composizioni, sta la cantata La principessa Ulalia, su una favola inventata dal Malipiero stesso allo scopo di «far conoscere alcune vecchie canzoni popolari italiane» scoperte in un manoscritto del tardo Seicento. La cantata, dopo l'esecuzione newyorkese del 1927 finì dimenticata. Allo stesso periodo - e certo più significativo come saldatura tra i due momenti creativi - appartiene Il finto Arlecchino, composto appunto nel 1925, tre anni avanti le altre due parti con cui costituirà Il mistero di Venezia. Vi si possono rilevare interessanti spunti componistici, e cioè il riavvicinarsi del musicista all'elaborazione tematica, alla costruzione fatta di sviluppi tematici, che appunto si farà largo in seguito.

[3] Ancora il SANTI, op. cit., ha individuato tre motivi fondamentali del simbolismo espresso in Filomela e che ne fanno uno degli esemplari più ricchi in tal senso del teatro malipieriano. Il primo motivo - già presente in Pantea - è costituito dall'aspirazione all'assoluto dell'anima musicale di Filomela (ed è adombrato, secondo lo studioso milanese, dalla maschera fantastica del Principe d'Argento, dal canto dell'usignolo, dal lamento dello schiavo incatenato, figure nell'ordine presenti nelle singole parti del dramma). Questo motivo fa qui la sua ultima comparsa nell'opera malipieriana. Il secondo motivo è quello della mascherata, inteso come «spettacolo meschino, grottesco»: lo si trova nella scena della prima parte dov'è presente la Compagnia del Liuto e in un'altra scena di folla nella parte successiva. È questo un elemento destinato ad avere futuro nel teatro malipieriano (nei Capricci di Callot, nel Capitan Spavento). Infine il terzo motivo, che compare qui per la prima volta, per poi radicarsi e divenire essenziale nelle opere successive, anche nel secondo dopoguerra. Un motivo di ostinata, caparbia opposizione al mondo, ovvero - secondo il Santi un motivo che «discende da un rifiuto caparbio ad arrendersi all'evidenza bruta della realtà, da una fiera e sprezzante opposizione al mondo degli umani negozi, da un volontario rinchiudersi non più nell'illusione (caratteristico del primo Malipiero, n.d.r.), bensì nel proprio rancore, nella testarda repulsa di quella realtà e di quel mondo; esso nasce da un sentimento di sfida contro la prevaricante mediocrità della vita e degli uomini, e nutrito com'è d'orgoglio, di superbia, di acre irrisione, si leva, tuttavia, per morale intransigenza a una sua nobile, tragica altezza. Più che un motivo si tratta di un complesso psicologico che prende vita in figure di fosca e sanguigna consistenza, in caratteri forti ed indomabili, che tengono fronte all'avverso destino con disperata ostinazione, quali appunto, in Filomela, il violento personaggio dell'Infatuato, che non può vivere se non del canto e della danza di Filomela, e vorrebbe tenerseli avaramente quanto assurdamente tutti per sé.»
[4] Segnalati dal Santi alcuni esempi. Quali la canzonetta delle «donne che givan fior cogliendo», riesposta dall'orchestra all'inizio della seconda parte, e la canzone dello schiavo preparata sinfonicamente nel preludio della terza.

[5] Ricordiamo che Filomela - la cui composizione fu completata il 22 giugno 1925 - consta di tre rapide parti, rispettivamente intitolate I fantocci, L'Usignolo, La Fenice. In seguito, nell'autunno 1959, Malipiero ha tolto tali intitolazioni e ha proceduto a un rifacimento considerevole del libretto, sfoltendone gli elementi simbolici e mutando persino gli ambienti, al punto da situare l'azione «ai nostri giorni in un luogo di fantasia».

[6] F. D'Amico, Le ragioni umane del primo Malipiero, art. cit. (pag. 122 nel volume L'opera di G.F. Malipiero).

[7] Come riferito più sopra, Malipiero li pensava come spettacolo unico. Che ci sia tra i due lavori continuità lo chiarisce lo stesso autore (Catalogo, pagg. 196-197): «L'Infatuato non è morto. Il mare non l'ha inghiottito. Egli s'è trasformato in Merlino mastro d'organi e se l'anima musicale di Filomela lo domina ancora, è per vendicarsi degli uomini che dalla musica sentono nascere l'amore. Egli li attira e li uccide con le «orge sonore» che si scatenano dal suo organo prodigioso. Un viandante sordo e muto uccide Merlino, ma l'incanto di Filomela non muore e le fiamme fanno nascere un nuovo cantore: la musica rivive dopo che il fuoco l'ha nuovamente purificato». L'opera è divisa in due parti, L'incantesimo e La resurrezione.

[8] Troviamo ancora le canzoni e per contro nessun recitativo. Varie canzoni si dispongono l'una dopo l'altra, alla maniera delle Sette canzoni, dunque. Dal punto di vista dei simboli contenuti troviamo qui quelli della mascherata allegorica e del personaggio violento (com'era l'Infatuato nel lavoro precedente).
[9] Bisogna precisare che si tratta di un trittico non omogeneo, formato da due drammi musicali, quelli esterni (Le aquile di Aquileia e I corvi di San Marco), e da una commedia musicale (Il finto Arlecchino). Trittico, inoltre, composto in tempi diversi, essendo appunto i due quadri esterni del 1927-281 mentre l'Arlecchino data 1925. In quest'opera, s'è detto, si rilanciano procedimenti compositivi fino ad allora negati, così da attuare «un tipo di discorso sinfonico il cui andamento, più che dettato da una libera invenzione, parrà assolvere impegni poematici e strutturali» (P. SANTI, art. cit., pag. 50).
[10] Più che nel Finto Arlecchino tale mito è rilevante nelle altre due parti. Così possiamo vedere nella prima la rappresentazione spettacolare e sfarzosa di «quello che fu Venezia» e nell'ultima come essa «si veda avvilita dalla spogliazione lenta e continua delle sue glorie e dei cimeli» oggi (così il Malipiero nel Catalogo, pag. 198). In mezzo la Venezia settecentesca delle maschere, quella che Malipiero - e non solo lui - ritiene l'età aurea di Venezia e della musica, come puntualmente svela la magnifica partitura.

[11] Merlino fu presentato alla Radio romana nell'agosto 1934, sotto la direzione di Casella, cioè qualche mese più tardi della «prima italiana» della Favola del figlio cambiato. Il trittico fu presentato integralmente a Coburgo, il 15 dicembre 1932. Anni prima però era già stato realizzato il solo Finto Arlecchino, esattamente a Magonza, l'8 marzo 1928.

[12] A differenza della maggior parte degli altri lavori precedenti, il Torneo notturno fu portato in scena con una certa tempestività, esplicativa dell'interesse che circondava il musicista all'estero. La «prima» avvenne al Nationaltheater di Monaco, il 15 maggio 1931, sotto la direzione di Karl Elmendorf. Tra i protagonisti non figuravano cantanti di particolare spicco. Ricordiamo comunque Joseph Bölzer e Hans Rehkemper. In Italia fu ripreso dieci anni più tardi, al Teatro delle Arti di Roma, il 19 novembre 1941. Lo diresse Alberto Erede, mentre tra gli interpreti figuravano Antonio Melandri (il Disperato), Saturno Meletti (lo Spensierato) e Bianca Ferrandi (la Figlia).

[13] «È difficile parlare delle proprie creature con serenità, specialmente di quelle che vi son più care. Così potrei dire per il Torneo notturno, il quale secondo me... è la quintessenza di tutto ciò che ho sempre sperato di poter attuare, dalle Sette canzoni in poi, col "mio" teatro». Così l'autore nel Catalogo, pagg. 198-199.
[14] Nei sette brevi quadri si svolge la lotta tra la vita e la morte, tra gioia e dolore, tra piacere e tormento. Lo Spensierato (baritono) e il Disperato (tenore) sono appunto i due antagonisti di quella lotta eterna, destinata a non avere né vincitore né vinto, anche se soluzioni momentanee non mancano. Vediamo per la prima volta i due protagonisti sotto le finestre di Madama Aurora. Il Disperato canta l'addio ad ogni speranza, lo Spensierato lancia il suo invito a rubare attimi di gioia al tempo. Madama Aurora è conquistata, ma poi cerca di sottrarsi al seduttore. Inutilmente, ché è trattenuta a forza, fino a morirne. Il Disperato, che non ha potuto recarle aiuto, si getta sul suo cadavere. Aurora è la prima delle molte vittime dello Spensierato, che ci vengono mostrate in successione. Il loro destino acuisce l'angoscia del Disperato, che da ultimo apprende che anche la sorella si è perduta dietro l'ingannevole canzone. I due avversari si trovano di fronte, nel sesto notturno, nel Castello della noia, dove l'eterno tentatore sta conquistando la vecchia castellana. Il Disperato si getta su di lui per ucciderlo, ma è trattenuto e quindi condotto in carcere. Qui potrà finalmente attuare la sua vendetta. Ma ecco, subito dopo aver ucciso il rivale, avvenire in lui la metamorfosi: s'impadronisce della canzone spensierata e con essa ottiene la libertà e una nuova identità. Esce allora il Buttafuori a urlare il suo «Non è finito!». Quindi commenta, parlando: «Voi avete veduto morire lo Spensierato e Madonna Aurora. Forse crederete che la vendetta e la riacquistata libertà abbiano ridato la pace al Disperato, ma egli invece ha ripreso il suo cammino senza mèta. Voi avete veduto morire, vivere, agitarsi alcuni uomini che le più discordanti passioni tormentavano. Non è finito!». E prosegue, con un declamato ritmato, su rulli del tamburo militare e colpi di grancassa: «Udite? Udite il ritmo di un funebre corteo? È la vita che passa agitando il gonfalone della morte. Ascoltate!». Nel Disperato e nello Spensierato dobbiamo quindi vedere due simboli, due individui opposti, contrastanti, ma anche aspetti di un unico essere ch'è il risultato di principi diversi. Il Disperato non esiste senza lo Spensierato, e viceversa: lo precisa proprio l'impadronimento della canzone da parte di quello, dopo che ha soppresso la parte diversa di se stesso.
[15] Impossibile seguire nei suoi ritorni il tema del Disperato, mentre invece la Canzone del tempo ritma puntualmente coi suoi ritorni la successione dei sette notturni - ma riecheggia anche negli intermezzi strumentali. Testualmente è costituita da tre strofe di 8 versi, ed è invito a cogliere l'attimo fuggente, a godere ciò che è dato una volta sola:

Chi ha tempo e tempo aspetta il tempo perde.
Il tempo fugge come d'arco strale:
dunque per fin che sei nel tempo verde
accogli il tempo che pentir non vale.
Il tempo fugge e mai non si rinverde
e mena al fin le tue bellezze frale:
adunque cogli del tuo tempo il fiore
prima che manchi il giovanil valore.

Pensa,Madonna, ben ch'el tempo fugge
né mai ritorna a noi poi ch'è passato;
vecchiezza presto ogni beltà distrugge,
né sempre mai si sta fermo in un stato.
Ogni cosa divora il tempo e sugge
il bel color d'ogni viso rosato.
Fin che tu puoi raccogli il vago fiore
de li dolci anni tuoi ché volan l'ore.

Se 'l tempo dona molto, il tempo toglie,
se 'l tempo dà piacer, il tempo attrista,
se 'l tempo lega stretto, il tempo scioglie,
se 'l tempo molto perde, il tempo acquista,
se 'l tempo dà allegrezza, il tempo doglie,
se 'l tempo inforza, il tempo sangue pista,
se 'l tempo t'alza, il tempo ti sommerge,
il tempo insomma ogni opera converge.

Le varie riprese della canzone sono tutte affidate allo Spensierato. Fa eccezione quella nel secondo notturno, intonata dalla figlia, nonché nell'ultimo notturno il canto della seconda strofa da parte del Disperato. Interessante è comunque rilevare i modi del ritorno, come suggerito nel seguente prospetto:

l. le tre strofe (Spensierato)
2. solo la prima strofa (la Figlia)
3. solo la prima strofa (Spensierato)
4. le tre strofe (Spensierato)
5. la prima strofa (Spensierato)
6. la sola seconda strofa (Spensierato)
7. la prima strofa (Spensierato) e la seconda strofa (Disperato)

Musicalmente la melodia, che abbiamo riportato nel testo, poco sopra, si svolge in un ambito ristretto, articolata intorno a pochi suoni che ritornano in modo ossessivo.
In orchestra troviamo un suono pedale (trasportato nelle riprese su diverse altezze) e, al grave sempre, un disegno di cinque/sei o più semiminime discendenti e che di volta in volta inizia a distanza di un tono sopra il precedente: un moto circolare, inarrestabile, sempre lo stesso ma sempre diverso. E non è difficile scoprirne il valore simbolico.
A proposito del valore e del significato della Canzone dei tempo riportiamo alcuni giudizi particolarmente centrati. E Mila la dice «di grande efficacia, per un certo senso di vertigine, d'ineluttabile e perpetuo moto, un trasformarsi e divenire continuo in un'immutabile ed eterna diversità, come l'acqua, come il tempo che va, fugge, ritorna e sempre fugge di nuovo». Il D'Amico l'ha definita «indimenticabile»: essa «riappare misteriosa e sinistra: tanto più fascinatrice, carica di richiami accorati e irresistibili, quanto più lividarnente sinistra». Infine per il Santi la canzone «è destinata a restare una delle più profonde e memorabili intuizioni del teatro musicale contemporaneo».
[16] Ma - ha rilevato il D'Amico (art. cit., pagg. 125-126) - non sono temi, wagnerianamente, ad personam. Non richiamano cose o sentimenti precisi, una "storia". Nel funebre finale questi temi tornano piuttosto a rievocare i moti misteriosi, i salienti del dramma, intendendo tutti questi moti come variazione, sdoppiamenti di un'unica ansia, destinata a non esaurirsi in eterno, e quindi capace di concretar solo forme d'allucinati arabeschi, come quelli prodotti da un delirio febbrile: vuoti di storia e di figure umane, pieni solo del fiato della propria disperazione, della temperatura della propria febbre».

[17] Precisiamo, sempre a proposito dei ritorni della Canzone del tempo, che ogni volta essa ricompare nell'ambito tonale che l'ha caratterizzata all'inizio. Fanno eccezione le riprese, nel secondo quadro, da parte della figlia e, nell'ultimo, da parte del Disperato. In quanto alla veste ritmica si segnala la sola modificazione nel quarto notturno, quando la melodia s'avvia sul ritmo di una danza ternaria per poi riacquistare poco oltre la struttura originaria.

[18] P. SANTI, art. cit., pagg. 56-57.

[19] Come risulta chiaro dal prospetto che abbiamo fornito, le sinfonie cominciano a fiorire nel 1934, ma hanno un preciso anticipo negli Inni per orchestra. Per capire la frase del Santi è comunque importante conoscere il significato che Malipiero darà agli inni e alle sinfonie, e cioè apprendere che per il musicista rappresentavano «l'inizio di quello stile lineare e antirettorico che nelle sinfonie si è poi manifestato in piena libertà».

[20] Casella, nel suo studio sul Linguaggio di Malipiero (art. cit., pag. 131), ha indicato nel finale strumentale (Lento, triste assai) la «combinazione di la ipodotico e misolidio attraverso lo scambio fra mi naturale e mi bemolle (lo si può rilevare a pag. 110, batt. 1141 e segg., dello spartito della Bote & Bock).
[21] Si veda nello spartito della Bote & Bock, rispettivamente, il Largamente, ma non troppo lento, pag. 71, batt. 926, e il Lento, triste assai, pag. 110, batt. 1430.

[22] Per Il festino Malipiero utilizzò la commedia in un atto, di imitazione goldoniana, dovuta al commediografo romano della seconda metà del Settecento, Giovanni Gherardo De Rossi. Il lavoro - a cui pose termine il 6 luglio 1930 - doveva figurare in testa a un nuovo trittico (il cui secondo atto, La bella e il mostro, fu poi ripudiato e il terzo mai concepito). Il festino ebbe un'unica realizzazione alla Radio di Torino, il 6 novembre 1937, diretta dal Sonzogno.

[23] Non ci occuperemo qui della seconda serie delle Pause del silenzio per orchestra, di cui s'è già detto altrove. Né tratteremo per ora La cena, rimandando a più avanti, alla Passione, con cui nel 1935 venne sostanzialmente unita, anche perché La cena, pur essendo datata 1927, anticipa elementi del successivo periodo malipieriano.

[24] Ecco lo schema dannunziano, dal titolo La nave della promessa, endecatode:
Primo movimento guerresco, con l'apparizione del tema.
Secondo movimento di violenza discorde, di lacerante odio, d'improvviso schianto.
Pausa.
Terzo movimento di marcia funebre sul tema primitivo, sviluppato con una solennità eroica e religiosa.
Il Quarto movimento comprenda l'espressione della solitudine, della tristezza, della premeditazione chiusa, dell'intiera dedizione al compito necessario.
Il Quinto ed ultimo s'illumini della immortale volontà di vendetta e di liberazione e di glorificazione, ed esalti possentemente la Promessa della Vittoria.
Lo schema reca la data 2 luglio 1926. Come indicato nel testo Malipiero si pose immediatamente al lavoro, che appunto completava prima della fine dell'anno. L'esecuzione, invece, attendeva parecchio tempo. Infatti i Ritrovari risuonarono per la prima e per quel che ne sappiamo unica volta al Vittoriale, il 26 ottobre 1929, sotto la direzione di Hans Kindler.