ROBERTO ZANETTI

L’OPERA DI G. F. MALIPIERO DURANTE
IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE


LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO
pp. 1035 ss.
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La produzione musicale italiana degli anni di guerra può dirsi rappresentata, ai livelli più elevati, da quanto uscì dalla mente e dalla penna di un gruppo di sei-sette compositori appartenenti alle tre diverse generazioni allora attive. Anzitutto alcuni della «generazione dell'Ottanta», tutti autori ormai sopra i sessant'anni, ma ancora molto attivi in quei lunghi, tragici anni di guerra.
Grazie all'inchiesta di «Musica» [1] sappiamo anche in quali condizioni operarono, risentendo chi più chi meno l'influenza dello spaventoso cataclisma. Con motivazioni diverse e in settori differenziati, almeno tre dei maggiori esponenti superstiti della «generazione dell'Ottanta» [2] sfornarono in quegli anni lavori di indubbio signíficato, i quali oggi, naturalmente con valori anche molto diversi, debbono collocarsi tra le cose migliori nate allora nel contesto della produzione italiana. Dalla quale poi emergono ancora taluni lavori di Ghedini, massimo esponente della cosiddetta «generazione di mezzo», e taluni lavori di Petrassi e Dallapiccola, appunto esponenti della generazione più giovane ma già pienamente affermati.
Gian Francesco Malipiero, dopo gli sbandamenti degli anni Trenta, esplicita il rinvenimento di una via teatrale assolutamente autonoma, che si riaggancia alla sua migliore produzione degli anni Venti, per meglio precisare alle Sette canzoni e al Torneo notturno. Frutti immediati di questa nuova stagione malipieriana sono I capricci di Callot (1942) e L'allegra brigata (1943). Ma occorre aggiungervi anche un altro lavoro, seppur non completamente riuscito, ma molto significativo per svariate ragioni, cioè la sinfonia eroica Vergilii Aeneis (1944) - appartenente a un genere fino ad allora insolito per Malipiero, quello della cantata per soli, coro e orchestra. E, infine, qualche altra pagina come la Sinfonia (delle campane) (1943-45) o altre espressioni più ridotte e più intime. [...]
[...] la produzione globale di Pizzetti, Casella e Malipiero si presenta con un rilievo assoluto nel panorama musicale italiano 1940-45. [...]
Vediamo ora i singoli autori e i loro lavori, uno ad uno. Cominciamo col sorprendente riaccostamento di Malipiero al suo prediletto teatro di fantasia, dopo le grandi tragedie scespiriane Giulio Cesare e Antonio e Cleopatra, dopo l'euripidea Ecuba e il dramma calderoniano La vita è sogno. È una zona, quella rappresentata dai lavori appena citati, che sappiamo a sé stante nella produzione teatrale del musicista veneziano, delimitata nel tempo (1935-41) e distinta per stile (Malipiero stesso la definiva «parentesi lirica»). Una zona, è bene aggiungere, nella quale si deve far rientrare anche la precedente e pirandelliana Favola del figlio cambiato (1933), così da estendere a quasi tutti gli anni Trenta il distacco di Malipiero dalle sue più autentiche polle d'ispirazione.
Le quali, dopo quegli anni di crisi, tornano a zampillare per dar vita alla straordinaria fantasmagoria dei Capricci di Callot, lavoro ispirato ai Balli di Sfessania dell'incisore seicentesco francese Callot e a un racconto di E.T.A. Hoffmann, elaborato molto liberamente [3]. Di nuovo nella commedia in tre atti, con un prologo e cinque quadri, portata a compimento entro il 29 gennaio 1942, balza prepotentemente alla ribalta il mondo delle maschere, come sospeso tra realtà e fantasia o, per meglio dire, ripensato nel trasmutare incessante dal reale al fantastico, sulla scansione di agili e irrompenti ritmi di danza, come appunto assimilati dalle strampalate incisioni e dalle abbacinanti frenesie hoffmanniane [4] e magistralmente ricreati con vivezza e eleganza. Si rilancia così il regno suzperiore della fantasia e con esso il gusto per la féerie iperbolica, cosi tipica del Malipiero, che l'esprime con un travolgente gioco ballettistico e meccanico, sventagliando incessantemente le più disparate invenzioni sceniche e sonore. Ma dietro l'apparente taglio da divertissement scenico intrecciato da maschere e, secondo l'espressione illuminante malipieriana, «da vestiti gonfi d'aria... che ballano» [5] sta in realtà un rigoroso processo intellettuale, dove consapevolezza e vigore controllano la galoppante fantasia e la dirigono, suscitando una sottile e translucida ironia commista a una trepida emozione. Presentando i Capricci di Callot, il Ballo [6] scriveva:
La trama di questi Capricci di Callot non esiste, le avventure dei due protagonisti non hanno alcun senso logico e nei personaggi non è possibile identificare quel valore simbolico che ha sempre caratterizzato il teatro di Malipiero. Il musicista ha voluto offrirsi un sontuoso spettacolo di carattere decorativo, una féerie fantasiosa, una specie di grande balletto cantato in cui Malipiero ironizza se stesso con un tono tra il divertito e il commosso e cosiì commenta, negli ultimi versi, la sua invenzione: «tutti han creduto la verità di cui l'istoria con tanto credito parlando va».[7]
Sullo svuotamento dei valori simbolici che a far data proprio dai Capricci sarà costante del teatro malipieriano successivo alla grande crisi prima richiamata, è intervenuto con lucida intelligenza il Santi, uno dei più sensibili studiosi malipieriani. SAcrive il Santi: [8]
i Capricci, nel teatro di Malipiero sono il risultato di un processo iniziato col dissolversi dei simboli e delle illusioni giovanili e, al medesimo tempo, costituiscono l'atto inaugurale di una nuova stagione teatrale... La volontà di dominare gli eventi, sapendo perfettamente che è impossibile e che la sconfitta è certa, l'attaccamento cocciuto e disperato al proprio patrimonio morale, alle proprie virtù come ai propri vizi, quanto più si è indotti a dubitare di essi, affidano il significato dell'esistenza ad un rapporto non più illusorio, né elusivo, ma provocatorio, vibrante nella sfida suprema, eroica e vana ad un tempo.
Tale è la decisa affermazione di La vita è sogno, che già nell'originale spagnolo, al pari degli altri drammi di Calderon, suona «un inno all'eroismo umano, intendi alla spiritualità vittoriosa», secondo scrive Pavolini.[9] Ciò tenacemente ribadisce il protagonista di quest'opera; quel Sigismondo calderoniano che Malipiero preferisce lasciare nell'anonimo col suo solo titolo di Principe, traducendo tutta quanta nella musica... la sua «tesa angoscia di volontà», la sua prometeica ambizione... I personaggi dei Capricci di Callot vanno però oltre quello del Principe di La vita è sogno... la sfida al destino dei personaggi dei Capricci è più sottile e insidiosa, e sembra, al momento, preludere a una vittoria invece che a una sconfitta, perché essi del destino se ne infischiano e lo disprezzano, e col dimostrare di saperla più lunga di lui in fatto di 'vanitas vanitatum', lo prevengono e lo disarmano in partenza, sbaragliandolo sul suo stesso terreno...
Così i Capricci sono di nuovo una mascherata, ma una mascherata di vere maschere, non di creature finte tali per nascondere l'angoscia che le agita o per rappresentare allegoricamente qualcosa che le trascende, secondo ci aveva abituato il primo teatro di Malipiero, a cominciare da Pantea.
È quindi naturale che il musicista, col riaccostarsi al suo teatro più originale, per quanto perfezionato e aggiornato, modificato persino dall'esperienza compiuta nel frattempo, riprenda certe maniere compositive e produca anche in questo senso uno sforzo per portarle avanti e per rinnovarle interiormente, così che nuovo risulti il linguaggio, nuove le forme compositive e nuovi i significati, evidentemente, del discorrere musicale nel suo complesso. La declamazione esplora il diatonismo come riscoprendone le mille sopite vitalità; il declamato è ricco di movenze e di aria, possiede un puro timbro italiano; l'armonistica punta su emblematiche situazioni di indeterminatezza, anche utilizzando con frequenza gli accordi di quarte e di quinte vuote; la ritmica accentua i procedimenti meccanicistici e la timbrica vive di scaglie coloristiche fantasticamente irraggiate o di situazioni sorprendentemente bizzarre e capricciose. Rileva ancora il Santi [10]:
La musica da parte sua si abbandona ad un estro inventivo e a un colorismo timbrico cui Malipiero era parso da tempo aver rinunciato: basti ascoltare, al riguardo, il Prologo e il finale delle maschere, con quell'impagabile pianoforte solista [11] il quadro del carnevale romano nel secondo atto, tutta la prima scena del terzo atto. Eppure, tutto ciò, non più per evocare una qualche visione sentimentale, come nelle Tre commedie goldoniane o nel trittico del Mistero di Venezia: nei Capricci invenzione musicale e colore strumentale si sfogano senza secondi fini, presi nel vortice di una frenesia fantastica che non conosce limiti. Sicché il ritmo generale della «commedia» è quello del balletto astratto, o per lo meno esso vi tende, in quanto dramma, musica e scena si affidano completamente, come indica lo stesso titolo dell'opera, ai capricci di un'immaginazione straordinariamente fervida e di uno spirito bizzarro, senza sentirsi affatto tenuti a render conto del loro comportamento all'intelligenza del contenuto e, tanto meno, alla verosimiglianza.
Può facilmente ingenerarsi qui un equivoco e cioè valutare i Capricci esclusivamente come un saggio di inaudita fecondità e facilità inventiva, di spensieratezza espressiva, cose che mal s'attaglierebbero al nostro musicista e al momento specifico che allora stava vivendo. Certo non sfugge a nessuno che ascolti con attenzione i Capricci che la materia musicale è di pasta ben diversa e non così superficialmente definibile. Non sfuggì neppure ai primi critici. Non certo al Della Corte [12], che alludendo alla vicenda nel suo complesso la definiva come insieme di eventi e discorsi irreali... che celano o velano l'animo umano, e le sue aspirazioni, incertezza, delusioni e gioie... Si ripensa all'Hoffmann, considerando il Ciarlatano, il Poeta, il Principe, le cui entità si sdoppiano e ricongiungono, Nel fondo, nostalgia, inquietudine».
E così la musica di Malipiero svolgeva in maniera esemplare la funzione di aver nuovamente rappresentato e improntato anche d'una lieve malinconia quello stesso mondo. E un altro critico, il Colacicchi [13], metteva in luce una stretta parentela dei Capricci con un altro precedente lavoro malipieriano, anch'esso tra le cose migliori del musicista, col dire:
Qui (nei Capricci) riviviamo, in virtù d'una musica pressoché costantemente intrisa di languida pena, di un sotterraneo dolore, di una compressa amarezza, l'atteggiamento malipieriano del Finto Arlecchino... in tal modo Malipiero è riuscito a inserire nel fitto degli eventi fantastici la particolare nota patetica che più è propria alla sua personalità, e non è a dire con quanta commozione si assiste a queste «svolte» umane nei favolosi Capricci, che dell'intero lavoro ci son sembrate contenere il meglio dell'arte malipieriana.
In quanto alla condotta musicale tuttora valida può dirsi l'illustrazione fattane dal Della Corte [14], che riportiamo nei suoi punti fondamentali:
quest'opera è composizione, cioè coerenza di temi, ritmi, colori, sentimenti e forme, secondo la fantasia, l'espressione, la parlata d'oggi e di lui (del Malipiero, cioè, coerenza cioè, non deduzione razionalistica, né svolgimento patetico, ma aggiunta di frase a frase, non casuale bensì antitetica o affine, e sovente organizzata come ripresa o ripetizione o variazione di cantilena o disegno. Modo di pensare e di scrivere, questo, già illustrato, per esemplificare facilmente, da Frescobaldi, da Debussy...
È una musica che ha, almeno per la massima parte, una consistenza
melodica, raramente in una sola linea, spesso in periodi armonicistici; il corso degli intervalli e il giro delle modulazioni recano con l'attrazione, la vicenda, la cadenza, il 'quid' specifico del 'melos', il quale in astratto non è vocale né strumentale.
Perspicua la definizione di vocalità e di strumentale e del loro rapporto:
sul libero, ma non complesso né urtante, contrappunto strumentale e sulle armonie s'appoggia la parte della voce umana, che solamente in poche battute è duplice. S'appoggia, perché quasi non s'integra; monodia non proprio flessuosa o recitante, ma partecipe dei due modi, in una estensione discretissima, in un'accentuazione conciliante la dizione naturale e la ritmica musicale...
Anche qui un elemento di modernità che va a sposarsi con la nitidezza dei disegni, con l'asciuttezza e la semplicità dell'eloquio musicale, che restano tutti elementi sorprendentemente fissati nella scoppiettante partitura malipieriana, certo - come allora la considerarono in molti - una delle migliori del musicista. Una volta riaccostatosi con i Capricci al «suo teatro», Malipiero s'impegna subito a rinsaldare quel legame con un nuovo lavoro, al quale si applica nel 1943, ponendovi termine l'8 settembre di quell'anno.
Tale lavoro è L'allegra brigata, definita come «sei novelle in un dramma (tre atti)», su libretto proprio, nel quale rifluivano antichi testi poetici e novelle sceneggiate di Bandello, Sacchetti, Sabatino degli Arienti, Masuccio Salernitano, nonché taluni indovinelli di Giovanni Francesco Straparola. Anche qui fantasia e realtà s'inseguono, si sovrappongono, s'intersecano, in una sorta di moderno Decamerone drammatizzato secondo una tecnica rappresentativa che è, evidentemente, quella tipica malipieriana, quella «a pannelli» [15]. Dunque un netto, inequivocabile ritorno alla concezione teatrale delle Sette canzoni, del Torneo notturno. Anche se tale ritorno è più esattamente definibile come riallineamento di massima alle posizioni manifeste dei suo precedente e più importante teatro musicale, certo vi interviene anche una ben diversa esperienza: quella appunto che il musicista-uomo di teatro era andato accumulando col passare degli anni da quell'ormai lontano 1920, e assimilando svariate influenze del teatro contemporaneo, da Pirandello a Shaw ai surrealisti.
Lo riferisce il modo di disporsi scenico dei due diversi piani drammatici costituiti rispettivamente dall'azione del dramma, con protagonisti uomini e donne della cosiddetta «allegra brigata», e dall'evasione da quella come possibile attraverso la narrazione e la visualizzazione delle sei novelle [16]: sfumano così i confini tra reale e irreale, e grazie a tale tecnica di montaggio e d'intersecazione lo spettatore finisce per restare disorientato, quando i due piani riconvergono su un unico, tragico scioglimento, nettamente pirandelliano [17]. Si assiste, insomma, al combinarsi dell'espediente del teatro nel teatro, con un taglio fantasioso e surrealistico, e della segmentazione del divenire scenico, tra commenti, interpolazioni e intermezzi, in modo da originare una fitta serie di episodi o più semplicemente di zone svariatissime per caratteri, ora sereni o giocosi, ora comici o ironici, ora di gaia animazione «popolaresca» (con intervento di spigliate canzoni e di spunti spagnoleggianti), ora di garbata sentimentalità: fino a che non prende il sopravvento il binomio amore-morte, avvinghiati in un ennesimo cimento della loro lotta eterna [18].
Concordemente la critica, dopo la prima scaligera del 4 maggio 1950 [19], risoltasi in un mezzo «fiasco» che sembrava rispolverare i dissensi andati cinque anni avanti ad un altro lavoro del veneziano [20], la critica, si diceva, parlò concordemente di ritorno alle origini, senza troppo preoccuparsi di quanto di nuovo vi si esprimeva. Scriveva, ad esempio, il Barblan [21] che l'opera era
ancora uno dei rischiosi e intelligenti assaggi malipieriani tendenti a svellere dal teatro in musica i principi tradizionali di un logico divenire e quindi di un altrettanto logico sviluppo concettuale musicale e sinfonico che dir si voglia, per sostituirvi una gustosa giustapposizione di quadri e d'immagini, quasi seguendo il criterio di un montaggio cinematografico. Quello stesso principio che in musica da camera ci dette le preziosità di Rispetti e Strambotti, e Stornelli e Ballate, fu portato in sede teatrale, fra l'altro, con Orfeo, ovvero l'ottava canzone e con le Sette canzoni; lavori dai quali sembra sorgere la impostazione che vorrebbe essere definitiva de L'allegra brigata.
Il nuovo, il perfezionamento appunto di molti aspetti dei precedenti lavori concepiti secondo la tecnica «a pannelli», verrà puntualmente precisato solo più tardi. Sarà ancora il Santi a notare che nell'Allegra brigata [22]
sono del tutto assenti sia le intenzioni evocative, sia i simboli che avevano caratterizzato il teatro del primo Malipiero, da un lato, per esempio le Sette canzoni, le Tre commedie goldoniane, il Mistero di Venezia, dall'altro Pantea, Filomela, Merlino. Lo «spirito quasi boccaccesco nell'insieme della rappresentazione scenica» prescritto dal libretto dell'Allegra brigata, non rispecchia oramai più il vagheggiare di un mondo remoto, la memoria di un'ideale armonia, come nelle Tre commedie goldoniane, nel San Francesco, nel Mistero di Venezia, o anche in Rispetti e strambotti, Stornelli e Ballate, Cantari alla madrigalesca, giacché esso deve invece destarsi da un'indefinita epoca di fantasia. Analogamente certi contrasti tipici della drammatica malipieriana, fra amore e morte, amore e beffa, amore e pazzia, spiritualità e materialità, sacro e profano, che fecondati in clima dannunziano valevano a provocare nel teatro primitivo lo smarrimento dell'istante vissuto e subito trascorso (Sette canzoni, Torneo notturno), tornano a prodursi nell'Allegra brigata per la loro forza autonoma, quali elementi di un gioco astratto, non diversamente da quanto si era già verificato nei Capricci di Callot. Era infatti accaduto che quegli ideali e quei riecheggiamenti, quelle primitive illusioni, ancorché espressioni consapevoli dell'irrecuperabile, si disperdessero ad un tratto per dar luogo al sentimento del vuoto che essi lasciavano...
... Sopra questo terreno sottratto a qualsiasi miraggio, reso immune da ogni tentazione sentimentale, tornano a germogliare le immagini di un tempo, ma il loro senso è mutato: esse non sono più l'espressione, l'eco di qualcosa d'irredimibile o d'inafferrabile (l'ideale classico, le memorie culturali, l'attimo fuggitivo, l'impressione dal vero) - o più genericamente il messaggio del trascendentale -, ma sono divenuti i lineamenti astratti di un gioco esposto a tutti i rischi del gratuito elevato attorno ad esso dal sentimento cieco e diuturno dell'esistere. Codesto rischio della fantasia, la quale oppone la propria energia alla fatalità prevaricante e indifferente dell'essere, ben risponde ad un carattere psicologico della personalità di Malipiero, definito da un impulso ribelle, da un rifiuto caparbio ad arrendersi alla evidenza della sconfitta, da una sfida alla vanità della vita; carattere nutrito di insofferenza e di orgoglio, che si leva spesso, per morale intransigenza, ad una sua nobile tragica altezza. Personaggi come quelli dell'Infatuato in Filomela, del Disperato e dello Spensierato nel Torneo notturno ne sono dominati; ma rifugiato non più in un personaggio, bensì nell'astratta facoltà dell'invenzione fantastica che si dispiega frenetica e vertiginosa a coprire col suo delirio la propria precarietà, questo carattere si ritrova nei Capricci di Callot. Immagini e figure dell'Allegra brigata partecipano, appunto d'un gioco simile a quello dei Capricci.
I critici più aperti e attenti che scrivevano nel 1950 dell'Allegra brigata e quindi altri in anni successivi, hanno saputo mettere in rilievo l'omogeneità fantastica dello spettacolo che poggia appunto sulla continuità di stili e procedimenti, ripresi dai Capricci e sviluppati. In particolare una valutazione positiva è sempre andata alla vocalità, al suo conformarsi nel modo di un declamato arioso dagli evidenti fermenti monteverdiani, che sono, per così dire, garanzia di plasticità e incisività di dizione, di attenta espressione (nel contempo scongiurando quelle ridondanze estenuanti di tanta vocalità novecentesca). La vocalità malipieriana si svolge con pressoché costante, uniforme diatonismo, ma non cade nell'arcaismo proprio per la sua nitidezza, per la spigliatezza ritmico-intervallare e per l'efficace segmentazione discorsiva. Ancora una volta si può rilevare il coesistere delle linee vocali con l'apparato strumentale, ma nel modo di due entità che procedono parallelamente e indipendenti, non intimamente necessarie, in quanto a strutturazione, l'una all'altra.
Spesso l'orchestra dà luogo a gemmazioni di timbri puri e acquista pertanto una dimensione cameristica che è cifra peculiare malipieriana e massimamente conveniente a questo lavoro. Sono questi caratteri che determinano la stretta parentela della partitura dell'Allegra brigata con quella dei Capricci e stabiliscono così la loro evidente derivazione dalla fase compositiva malipieriana degli anni tra le due guerre. Così lo stile melodico è quello semplificato e fortemente diatonico, nitidamente tonale, tipico appunto dei lavori nati negli anni Trenta-Quaranta. E dunque il ritorno a un tipo di teatro quale quello dell'Orfeide e del Torneo notturno,ma s'è detto in progressione rispetto a quello, non ha come corrispettivo il rilancio di un linguaggio altrettanto critico e inquieto, «espressionista», cioè «malipierianamente espressionista» come appunto si dicevano le Sette canzoni e Torneo notturno. Ma a dire il vero qualche residuo espressionistico, qualche scatto di espressionistica violenza fonica, si avverte talora: e sono allora dissonanze aspre, grida brevi e stridenti, gemiti delle trombe con sordina, crescendi incandescenti che svettano nei taglienti squilli di corni e tromboni.
Di colpo mutiamo ambiente e genere con la sinfonia eroica Vergilii Aeneis, che segue, anche se non immediatamente, la composizione dell'Allegra brigata [23], con cui ha elementi in comune pur risultandone nettamente differenziata [24], e che rimane espressione di momenti particolarmente difficili della vita dell'artista durante il tempo di guerra [25]. Inoltre Vergilii Aeneis è, come Capricci e Allegra brigata, testimonianza ulteriore del ricongiungimento dell'artista con la sua migliore produzione di un tempo; ma per altro verso, cioè dal punto di vista tematico, addirittura pone a frutto interessi che s'erano svelati proprio nei lavori della «parentesi lirica». Intendiamo cioè il tema mitico, ora Enea, dunque una delle espressioni più alte del mito, un mito latino di virgiliana pacatezza e pienezza, che Malipiero intende alla maniera moderna, cioè come «schema storico della verità, formula rituale di un'operazione cosmica che sempre si rinnova e alla quale partecipiamo di persona» [26]. L'incontro col mito di Malipiero è da collocarsi a fianco di tanti altri incontri analoghi dell'arte e del pensiero contemporanei, così da riconfermare una volta di più l'opinione nettissima di Malipiero artista davvero europeo, profondamente partecipe al dibattito esistenziale sviluppato nel nostro secolo, con prontezza e sensibilità attento a cogliere persino un bagliore tematico che coscienza e cultura abbiano lanciato.
Concordemente i critici hanno segnalato l'elemento di maggior rilievo della partitura di Vergilii Aeneis nella sgorgante inventiva melodica che s'estende in grandi campate, secondo un flusso discorsivo che rifiuta ogni senso di sviluppo tradizionale per un germinare incessante e rorido, godibile proprio perché tutto spontaneità e libertà. Il declamato dello Storico si pone come l'evento certo più rilevante per la sua natura di arioso nobile e davvero epico: come spesso accade nel miglior Malipiero - e l'abbiamo segnalato nei lavori teatrali dell'epoca di guerra -, lo snodarsi di quel plastico recitativo resta estraneo allo strutturarsi dell'elaborato sinfonico, il quale appunto procede secondo proprie ragioni espressive e costruttive, e per contro riflette, dal canto suo, le ragioni dell'essenzialità e della nettezza espressiva, senza inutili ridondanze e dispersioni.
Certo anche in questo caso, e soprattutto lo possiamo verificare lungo tutta la prima parte della partitura, ch'è poi la migliore, l'insegnamento monteverdiano è sempre attivo e fecondo, così da far avvicinare al massimo, la scrittura di Malipiero a quel suo ideale, da sempre perseguito, di drammatica vocalità monteverdiana. Non sorprende quindi apprendere che Malipiero ha posto «la sinfonia eroica Vergilii Aeneis al centro di tutte le mie predilezioni, forse perché fu una delle mie reazioni eroiche contro le umiliazioni che dovemmo subire nel lontano e infausto quinto anno di guerra...» [27]
Evidentemente tale predilezione muoveva anche dai risultati ottenuti, da certe qualità particolarmente spiccate che il lavoro aveva realizzato, e che sono poi qualità che lo fanno ancora valutare come una delle espressioni più alte della personalità di Malipiero. Come appunto rilevato all'unanimità dai critici che si sono occupati della sua produzione. Così, ad esempio, il Mila [28] che ha rilevato come «Malipiero si è ricongiunto in quest'opera al Malipiero migliore dei Torneo notturno, dei Rispetti e Strambotti, dei Cantari alla madrigalesca, al Malipiero che amiamo, insomma, dei liberi soggetti fantastici» [29].
Vergilii Aeneis è, per finire, anche un momento importante dell'evoluzione del linguaggio del compositore, come se il mito d'Enea avesse saputo esercitare una spinta progressista in tal senso, congiuntamente a quella avuta sulla qualità e sulla natura dell'invenzione [30]. Certo notiamo, a partire da questo lavoro, una più forte inclinazione del musicista a risolvere la sua ricerca al di fuori delle correnti tonali, pluritonali o modaleggianti, insomma del diatonismo in genere - foss'esso tonale o modale - ed esplorare gli spazi cromatici o addirittura puntare nella direzione dell'utilizzo non sistematico del totale cromatico. Si inaugura qui, insomma, quella terza stagione malipieriana che correntemente s'è voluta specificare come influenzata dalla dodecafonia e che, giustamente, il Santi definisce sotto «il presunto influsso della dodecafonia», poi dimostrando, esempi alla mano, che «anche lo spazio cromatico che Malipiero a un certo momento verrà colmando con le sue note avrà dunque origine ben diversa da quella della tecnica dodecafonica» [31].
Anche la Terza sinfonia, come si apprende da uno scritto del Malipiero [32], è opera del periodo di guerra, unitamente a qualche pagina minore [33]. Detta «delle campane» e completata nel febbraio 1945, la Terza sinfonia, rievoca il Malipiero [34], «è legata a una data terribile, all'8 settembre 1943. Al tramonto di quel giorno indimenticabile, le campane di San Marco suonarono, ma non poterono ingannare chi conosceva la loro voce. Non squillavano per la pace, ma per annunziare nuovi tormenti, nuove angosce».
Analogamente ad altre sinfonie, il sottotitolo «delle campane» non rappresenta un programma e così «lo scampanio non è onomatopeico, ma nostalgia di campane a festa e di pace» [35], ovvero un'indicazione che veicola uno stato d'animo.

NOTE

[1] In Appendice abbiamo riportato le risposte all'inchiesta del giornale romano fornite dai musicisti più rappresentativi.

[2] E cioè, come vedremo Malipiero, Casella e Pizzetti. Non di particolare rilievo l'attività del
quarto musicista ancora vivente, l'Alfano.

[3] Nel 1942 Malipiero scriveva: «I balli di Sfessania, ventiquattro strane incisioni di Jacques Callot, sono una raccolta di ritmi musicali; difficile è saperli cogliere, sebbene si offrano quasi spontaneamente. Questo pensavo parecchi anni fa, ma non ho saputo né voluto tradurre in un balletto l'opera di Callot. Ero convinto che fosse più di un semplice balletto e sono lieto di aver indugiato, perché fu così possibile il mio incontro con E.T.A. Hoffmann...». La frase si trova riportata nel Catalogo annotato, in L'opera di G.F. Malipiero, op. cit., pag. 202.
Con una nota in apertura dell'edizione dello spartito (Edizioni Suvini Zerboni, 1942), l'autore precisava di aver «costruito questa commedia musicale, allontanandomi però dal Capriccio hoffmanniano. Se alcuni spunti sono stati conservati quasi intatti, molto inventai o sviluppai con grande libertà...». E conclude col precisare che «sotto le vesti del Ciarlatano ho nascosto un 'Signore' che si burla del candido 'Giglio'».
[4] Lo stesso Malipiero descrive i Capricci nel Catalogo annotato più volte citato, pagg. 203-204. Eccone i passi salienti: «nel prologo, otto delle maschere si presentano uscendo da un istrumento musicale che è per sé stesso una sorgente di ritmo, e danzano. Il primo atto si svolge fra montagne di vestiti e Giacinta non è una semplice sarta, ma una fata: le sue mani non lavorano d'ago ma creano vestiti meravigliosi, come d'incanto. Giglio, l'innamorato (un attore piuttosto straccione), è colpito dal ricco vestito di velluto che Giacinta ha indossato... È per il vestito che Giglio farnetica; egli non vede Giacinta ma 'la principessa' dei suoi sogni. Il secondo atto è il carnevale di Roma, una ridda di maschere e di vestiti d'ogni foggia. Il Ciarlatano è un cavaliere travestito e la folla cerca, con gli occhiali meravigliosi dell'indiano Ruffiamonte (e che il ciarlatano vende 'per pochi paoli') un principe assiro, cioè un uomo vestito da principe assiro che s'è confuso nella folla del carnevale. Passa un fantastico corteo, vestiti che camminano, ed è una finzione teatrale (dunque di vestiti) la tragedia che il Poeta canta ampollosamente. La prima scena del terzo atto è la burla. Rivediamo i personaggi del corteo carnevalesco: le donne lavorano ai merletti... ed è finzione il sacrificio delle dodici fanciulle. Il vecchio che legge nel grande libro è il poeta travestito. Giglio assiste esterrefatto a questo dramma grottesco e quando gli sembra che si voglia uccidere pure Giacinta, che appare tra le maschere di Callot, reagisce, ma viene preso, rinchiuso in una gabbia ed esposto, fra la ilarità generale, sul balcone che dà sul Corso. La seconda scena del terzo atto si inizia (la stessa scena del primo atto) con la follia di Giacinta che ormai crede di appartenere al principe, ed essa vede la stanza trasformata in reggia. Giglio essa lo ritrova entro la gabbia. lo libera ed in lui si risveglia il commediante. Giacinta, con enfasi melodrammatica, lo segue. Il vecchio e il ciarlatano di nascosto assistono a questa metamorfosi e si liberano delle loro palandrane apparendo quelli che sono: il poeta e il cavaliere che ha beffato Giglio. Tra i vestiti, e le maschere di Callot che danzano come nel prologo, si imbandisce la tavola e allegramente si celebrano le nozze dei due nuovi eroi della finzione».
[5] I personaggi e i ruoli vocali sono: Giacinta, soprano; Giglio, tenore; la vecchia Beatrice, mezzosoprano; il Principe travestito da Ciarlatano, baritono; il Poeta (travestito anche da vecchio), tenore; una Maschera, baritono. Vengono poi personaggi muti, le otto maschere di Callot (Capitano Spessa Monti e Bagattino; Capitano Ceremonia e Lavinia; Ricciulina e Mezzettino; Capitano Malagamba e Capitano Bellavita). Inoltre nel corteo carnevalesco sono presenti dodici suonatori di flauto, due uomini-struzzo, dodici mori, donne al tombolo, uomini delle portantine, otto schiavi, varie maschere, dodici giovani donne, due garzoni.

[6] F. BALLO, «I Capricci di Callot» di G.F. Malipiero, Milano, 1942, pag. 22.

[7] Queste parole le pronunzia il Poeta e vengono poi riprese dal coretto di personaggi in ricorda i finali dell'opera comica settecentesca.

[8] P. SANTi, Il teatro di Malipiero, in «L'approdo musicale», n. 9, gennaio-marzo 1960, pagg. 76-77.

[9] La citazione, come poi quella poco più avanti, viene dalla prefazione scritta da C. PAVOLINI, all'edizione di La vita è sogno di Calderon de la Barca, Torino, 1943, pag. 7.

[10] P. SANTI, Op. cit,, pag. 78.

[11] Un brano che fu apprezzato anche da quanti non erano perfettamente d'accordo col Malipiero, tra cui il D'Amico, che in una sua corrispondenza, in «La rassegna musicale», n. 12, 1942, pagg. 335-336, diceva la pagina «del lungo balletto iniziale delle maschere, concepita quasi in forma di liberissimo concerto per pianoforte e archi, e sapidissima di italiana estrosità concertistica... un brano più che mai gratuito nell'economia narrativa del lavoro visto che queste maschere non hanno parte alcuna nell'azione: e proprio per questo ricco di libertà, di ritmo, di festa: e Malipiero al cento per cento».

[12] A. DELLA CORTE, I Capricci di Callot, in « La Stampa » di Torino, 25 ottobre 1942. Lo si può leggere nell'Opera di G. F. Malipiero, op. cit., pagg. 147-150.
[13] L. COLACICCHI, La stagione di opere contemporanee al Teatro Reale dell'Opera, in «Musica», vol. II, Firenze, 1943, pag. 216.

[14] A. DELLA CORTE, op. cit., pagg. 148-149.

[15] Nonostante l'evidente riferimento alla rinascenza toscana, l'autore prescrive nel libretto: «in un'epoca di fantasia nei costumi, ma con uno spirito quasi boccaccesco nell'nsieme della rappresentazione scenica».

[16] Si chiedeva, nel 1952, Malipiero, nel citato Catalogo annotato, pag. 205: «ci può essere una continuazione pur non ripetendosi? Ecco il problema. La duplice rappresentazione, cioè quella delle novelle che, svariatissime, appaiono in un secondo piano, mentre in primo piano si svolge la semplice azione del dramma, non trova riscontro negli altri drammi musicali...».

[17] L'azione verte sulla numerosa e «allegra brigata» di dame e gentiluomini che giocano, danzano, recitano, amoreggiano e a turno «novellano». Le varie storie appena introdotte assumono forme concrete su un palco posto anch'esso sulla scena. Si succedono così sei novelle, alternate con l'azione reale, mentre gradatamente prende rilievo la cupa gelosia di Beltramo. Questi, alla fine, come prolungando l'ultima novella e identificandosi col suo protagonista, accecato a sua volta dalla gelosia, assale e uccide il rivale Dioneo, nel contempo affermando: «così doveva finire e così finisce l'allegra brigata». Un finale appunto pirandelliano, col suo mascherare sotto un velo di serenità, rancori e sofferenze che improvvisamente esplodono in gesti tremendi e disperati.
[18] I personaggi e i ruoli vocali dell'Allegra brigata (in quanto compagnia) sono: Dioneo, tenore; Beltramo e Semplicio, entrambi baritoni; Violante e Lauretta, entrambi soprani; Oretta, mezzosoprano. Fanno parte della brigata anche i danzatori Filenio e Tibaldo e le danzatrici Saturnina e Pampinea. Nelle varie novelle oltre a svariati personaggi muti che omettiamo, si hanno i seguenti personaggi cantati: I novella: Panfilia, soprano, e il giovane Cavaliere, tenore; II: il giovane pittore, tenore; III: messer Alfonso da Toledo, tenore, e il Cavaliere, baritono; IV: Ferrantino degli Argenti, baritono, Caterina, mezzosoprano, e messer Francesco, baritono; V: la Gentildonna, soprano, e il giovane innamorato, tenore; VI: Eleonora, soprano, Pompeo, tenore, il Marito, baritono, e Madonna Barbara rnezzosoprano.

[19] Diretta da Nino Sanzogno, con la regia di Giorgio Strehler, le scene di Gianni Ratto e i costumi di Ebe Colciaghi, l'opera contava su un cast vocale di circa 20 interpreti. Tra questi spiccavano Renato Capecchi (Beltramo), Fernando Corena (Semplicio), Gino Penno (Dioneo), nonché nella prima novella Mario Carlin, nella seconda e nella quinta Umberto Savio, nella quarta Piero Guelfi, nella sesta e ultima Angelo Mercuriali. La realizzazione musicale, comunque, e stando a quanto riferiscono le cronache, lasciò molto a desiderare, specie per la parte vocale; cosa che fu evidentemente determinante per l'esito del lavoro.

[20] Durante gli ultimi mesi di guerra, quando la Scala era ospite del teatro Lirico, fu proposta per la prima volta nei cartelloni dell'Ente milanese un'opera del Malipiero. Le Tre commedie goldoniane, andate in scena il 19 marzo 1945, con direttore l'Erede, piacquero poco e furono occasione di conflitti verbali tra i sostenitori di Malipiero, in galleria, e i suoi detrattori, in platea. Ancora una conferma, insomma, del tradizionalismo del pubblico scaligero.
[21] G. BARBLAN, Lettera da Milano, in «La rassegna musicale», n. 4, 1950, pagg. 320-322.

[22] P. SANTI, G.F. Malipiero, in «Musica d'oggi», n. 1, 1961, pagg. 4-10.

[23] Finita di comporre il 14 settembre 1944 a Venezia, la sinfonia eroica s'intreccia, in quanto a lavorazione, con la composizione della Terza sinfonia (delle campane), compiuta nel corso del 1945. Il testo di Vergilii Aeneis è derivato dalla versione della poesia virgiliana fattane dal letterato cinquecentesco Annibale Caro. Consta di due episodi, La morte di Didone e Le nozze di Lavinia, pensati in forma d'oratorio, cioè con l'azione descritta da uno Storico, ora una voce di baritono e ora il coro. La forma oratoriale però non escludeva la rappresentazione «sulla scena se il coro è attore e se, diviso in due, si dispone in semicerchio (anfiteatro) e in modo che nel fondo si vedano la spiaggia e il mare». Malipiero, che si esprimeva in questi termini nel 1946 - si veda il Catalogo annotato, pag. 216 - potè vedere realizzato scenicamente il lavoro alla Fenice di Venezia, nel 1957, in un'edizione che, si disse, lasciava integro il valore epico della partitura. La « prima» esecuzione oratoriale fu invece data dalla RAI di Torino, il 21 giugno 1946, con direttore Mario Rossi.

[24] Scrive il SANTI, Il teatro di Malipiero, in «L'approdo musicale», op. cit., pag. 85: «la differenza fra l'Allegra brigata e Vergilii Aeneis è però questa: che la prima è tutta immaginata visivamente, teatralmente, al modo delle Sette canzoni e del Torneo, e non soltanto per la questione dei «pannelli» ma per lo stesso artificio scenico su cui è impostata, sicché le parti di racconto declamato possono sentirsi talvolta inessenziali, mentre in Vergilii Aeneis la visione è interiorizzata, e la narrazione dello Storico, nonché sostituire la scena quando l'opera viene eseguita in forma oratoriale, si rivela l'essenza stessa della grande epopea e l'espressione immediata del suo mitico perpetuarsi».
[25] Lo stesso Malipiero, nel suo volumetto autobiografico Cossì va lo mondo, Venezia, 1946, pagg. 62-65, ci ragguaglia su quel tragico momento (1943-44) in cui avvenne il suo incontro col mito d'Enea: «pur vivendo preoccupati per le sorti della nostra civiltà, si tentava di reagire immaginando grandi imprese. Navigammo coi nostri eroi verso spiagge che esistevano solo nella nostra fantasia e ci incontrammo con Enea, con Didone... Le ore, i giorni, i mesi passati col poeta che cantò Enea non sono segnati da cifre, ma dal ricordo delle sofferenze sopportate durante il nostro tempestoso viaggio sul mare che più non ci apparteneva.».

[26] P. SANTI, op. cit., pag. 86.

[27] In una lettera, datata 26 agosto 1952, indirizzata a Gino Scarpa, editore del volume L'opera di G.F. Malipiero, e appunto pubblicata in poscritto al Catalogo annotato, pag. 351.

[28] M. MILA, in «Il mondo», Firenze, 17 agosto 1946. Lo scritto è citato integralmente nel Catalogo annotato, pagg. 217-219.

[29] Ma il Mila stesso, nell'articolo citato alla nota precedente (pag. 217), notava che nella seconda parte del lavoro, Le nozze di Lavinia, «il linguaggio musicale si accosta di più a quello delle opere "storiche", cioè un declamato più realisticamente fedele alla parola, mentre l'invenzione musicale si condensa piuttosto nei nodi tematici del sottoposto discorso sinfonico e nella voce emergono soltanto in determinate situazioni cadenze più familiari e più melodicamente formate».
[30] Sarà utile approfondire questo aspetto ricorrendo ancora al saggio del Santi sull'«Approdo musicale», più volte citato, pag. 87 e segg.

[31] P. SANTI, Op. cit., pag. 92 e segg.

[32] Ci si riferisce alla risposta all'inchiesta di «Musica», riportata in Appendice.

[33] E cioè Le sette allegrezze d'amore per una voce e quattordici strumenti, su testi di Lorenzo de' Medici, concepite come omaggio alla Firenze dei canti carnascialeschi, delle mascherate, e terminate il 20 febbraio 1945. Alle quali possiamo collegare Li sette peccati mortali per coro e orchestra, su sonetti di Fazio degli Uberti, compiuti nel maggio 1946. Le sette allegrezze d'amore (si ponga attenzione a quel numero sette così ricorrente nella produzione di Malipiero) sono concepite come stanze carnascialesche che consentono la struttura «a pannelli», così generando una sorta di polittico di consigli ai «giovani e donzelle» svolto come in crescendo, sino al settimo episodio, e reso unitario dal ricorrere di vivaci spunti connettivi. La vocalità sviluppa il tipico stile declamatorio che si è definito monteverdiano, a cui soltanto di rado rinunzia per un procedere melodicamente più spiccato (ad esempio proprio nella settima allegrezza). La conclusione, sotto il segno della melanconica immagine di «questo povero cieco... [che]... vorrebbe qualche carità in affetto», è un doloroso commiato, dove serpeggiano procedimenti cromatici (di petto alla chiara diatonicità precedente) e si succedono passi armonici più aspri.

[34] Citiamo ancora dal Catalogo, nell'Opera di G.F. Malipiero, op. cit., pag. 233.

[35] Pure dal citato Catalogo, pag. 230.