ROBERTO ZANETTI

LE OPERE GIOVANILI
DI G. F. MALIPIERO

1900-1915

LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

pp. 107-112
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Anche per Malipiero [come per Respighi], il teatro non è un settore esclusivo e, neppure, preponderante, bensì uno dei possibili campi d'attività creativa, pur dotato di un suo irresistibile fascino che neanche il convenzionalismo melodrammatico ha saputo annullare. È una valutazione che poi potrà estendersi anche al Pizzetti, mentre invece, da un lato, Alfano s'immerge nell'esperienza teatrale ponendola al vertice dei propri interessi giovanili e, dall'altro, Casella vi oppone un netto rifiuto, fedelmente mantenuto a lungo. Con l'eccezione di Alfano, dunque, tutto ciò costituisce un segno preciso da applicare alla «generazione dell'Ottanta», così specificando un mutamento di mentalità che, fino a quel momento, aveva avuto pochi precursori (tra cui il Sinigaglia, il Busoni). In Malipiero l'atteggiamento critico nei confronti del teatro assume forme più radicali che in Respighi e Pizzetti, manifestandosi come rifiuto globale dell'operismo post-verdiano.
Intanto composizioni per orchestra, tra cui molte poi distrutte o ripudiate, [1] musiche pianistiche e cameristiche e vocali che subiranno analoga sorte, [2] affollano i primi anni del Malipiero: è un'attività che già possiede diversi caratteri della sua personalità e del suo linguaggio futuri, non ultima quella straordinaria fecondità che manifesta nel comporre e che, si badi bene, non è mai disgiunta da una severa consapevolezza autocritica. Secondariamente vanno poi considerate le due principali influenze attive sul giovane Malipiero, come rilevate da uno dei primi biografi, il Prunières: [3]

Due avvenimenti esercitarono una influenza sensibile sulla formazione artistica dell'adolescente. Il primo fu la rappresentazione dei Maestri cantori, che gli rivelò un mondo che neppure supponeva esistere, essendo stato nutrito dalla musica di Verdi e dei suoi successori. Il secondo fu la scoperta che fece, nell'estate del 1902, di partiture del XVII e XVIII secolo alla Biblioteca Marciana. Legge, trascrive, copia le opere di Monteverdi, di Cavalli, di Scarlatti, le sonate di Tartini e s'entusiasma per questi autori. [4]
Anche in Malipiero - come già in Respighi, seppur con angolazioni affatto diverse - il teatro si fa largo prepotentemente. Lo riferisce, dapprima, un lavoro dal titolo Schiavona, di cui si sa ben poco, e quindi il successivo e a lungo coltivato impegno per Elen e Fuldano (1907-09), il cui destino ultimo fu il simbolico fuoco purificatore. Di questo lavoro ricordiamo che il libretto in due atti era dovuto al Benco, il prediletto collaboratore di Smareglia, e che senz'altro fu composto sotto l'influenza che l'istriano esercitò sul giovane compositore. [5] Il recente ritrovamento della partitura ad Asolo e le indicazioni fornite dal ritrovatore fanno ritenere l'opera come un coacervo di influenze e indirizzi, un lavoro insomma eclettico come non potrebbe essere altrimenti.[6]
I successivi lavori teatrali, intrecciati strettamente con impegni di ben diversa natura, [7] non vanno invece trascurati: e ciò non solo perché il nostro compito è quello di ricostruire il periodo musicale 1900-1915, e dunque c'impone di riferire ogni cosa di rilievo che vi sia comparsa, ma soprattutto perché tali lavori ebbero un ruolo preciso nello sviluppo della personalità artistica di Malipiero, quasi una funzione di lenta messa a fuoco del suo ideale di teatro, come si manifesterà intorno al 1920. I lavori da considerare sono due: Canossa, scene musicali in un atto, su libretto ancora del Benco, composta nel 1911, rappresentata il 24 gennaio 1914 al Costanzi di Roma tra fischi e contrasti d'ogni genere - conseguenze dello scandalo dell'anno precedente -, ma tali da non consentire certo la valutazione dell'opera; e Sogno di un tramonto d'autunno, poema tragico in un atto di D'Annunzio, composto nel 1913-14, mai portato sulle scene, ma, a differenza dell'altro, non ripudiato.
Sia l'uno che l'altro lavoro esemplificano la ripulsa - di cui si diceva sopra - per le forme del teatro italiano dell'epoca, che nell'Elen e Fuldano erano invece ancora presenti. Semmai, nella concezione complessiva, risentono - e specie il primo - dell'influenza wagneriana, anche se linguisticamente si avvertono in entrambi motivi precisi di originalità. Si hanno così in Canossa, al fianco di scene che diremmo convenzionali, episodi animati da un'invenzione che centra esattamente il sentire popolare e che culminano nel quadro finale, nella cornice sonora sgargiante e luminosissima che porge le acclamazioni della massa corale per il trionfo ottenuto. Vi sono, inoltre, preannunzi linguistici precisi quali il gusto per la melodia ampia, d'impianto diatonico e modale, e per le successioni di triadi parallele o per gli scontri dissonanti diatonici (le seconde maggiori). Alti e bassi immancabili, mescolanze stilistiche evidenti, disuguaglianze di necessità sceniche e di procedimenti musicali, insomma i difetti impliciti in un'opera la cui ambizione era di battere vie nuove, indussero poi l'autore a ripudiarla. E, di conseguenza, a far iniziare il proprio catalogo produttivo teatrale dal più maturo Sogno di un tramonto d'autunno. Il significato di questo ristà proprio nell'aver saputo dare conseguenza ai tratti personali più o meno sicuramente enucleati nella precedente opera, così da spingere innanzi la ricerca di un nuovo modo di intendere il teatro musicale.
Anche il Prunières, scrivendone più tardi, quando ormai il teatro malipieriano era una realtà, poteva così illuminare i requisiti fondamentali come espressi nel Sogno:

L'opera consiste in una declamazione che si svolge secondo una linea melodica assai pura, apparentata allo stile recitativo dei vecchi maestri italiani, Monteverdi o Cavalli, [8] mentre l'orchestra evoca l'azione che si svolge fuori dalla vista degli spettatori. [9] L'opera è originale senza essere rivoluzionaria; è una musica tutta veneziana e che sembra riflettere, come l'acqua della laguna, i passati fasti della Serenissima. È l'anima della Venezia scomparsa, della Regina dell'Adriatico... che si materializza ai nostri sensi con la magia e gli incanti concertati del poeta e del musicista. Se talvolta l'abbagliante ricchezza verbale di D'Annunzio si presta male alla condotta melodica del compositore, si può dire in generale che, nell'insieme, la musica sottolinea felicemente le intenzioni dei poema.[10]
Ma già il Gatti aveva diffuso in Italia la positiva valutazione del lavoro, scrivendo, tra l'altro:

più interessante il Sogno.... dove c'è già più di Malipiero, specialmente nella parte vocale: ma l'opera è soprattutto un pretesto ad una magnifica orgia di colori e di ritmi, là dove l'orchestra rievoca in primo piano l'abbagliante sfondo del paesaggio veneziano sulle rive del Brenta, rievocatore di una vita fastosa di cui gli echi permangono ancor oggi nella solennità silenziosa dei parchi e delle ville principesche. Ma nella figura della protagonista, la dogaressa Gradeniga, Malipiero ha creato il suo primo tipo di attore drammatico-musicale; essa recita la sua parte intonando le parole a seconda che lo richiede la concitazione del dramma: il cantante a poco a poco scompare e subentra l'attore, come poi sarà pienamente nelle Sette canzoni. [11]
Più che la vocalità, il cui andamento arioso è come imposto dalla verbosità dei versi dannunziani - ma la lavorazione è così meticolosa da garantire efficaci risultati espressivi -, nel Sogno si fa apprezzare la condotta orchestrale, per il nerbo e l'incisività che reca all'azione drammatica. Pur muovendo da più o meno esplicite situazioni sonore di tipo wagneriano e franco-russo, il musicista via via prende slancio e, nella parte conclusiva (dove un personaggio evoca il «Bucentoro... tutto in fiamme, coperto di cadaveri ardenti» e l'infuriare della battaglia, il tutto «malipierianamente» fuori dalla vista degli spettatori), perviene a manifestazioni davvero personali. Qui, semmai, affiora qualche suggestione del Sacre stravinskiano, ma la violenza fonica che vi si attua e il senso di sconvolgimento sono già tipici del Malipiero, come poi confermeranno, nel teatro, Pantea e, nella musica orchestrale, il Ditirambo tragico e la prima serie di Pause del silenzio, cioè le opere del periodo di guerra.
Solo recentemente l'ispezione compiuta dal Waterhouse a Asolo ha riportato alla luce un'opera di questo periodo che si riteneva distrutta: quel Lancelotto del lago, dramma lirico in tre atti composto nel 1914-15, da cui - come dimostrato dallo studioso inglese - Malipiero derivò le illustrazioni sinfoniche Per una favola cavalleresca, pubblicate da Ricordi nel 1921 ed eseguite sempre in quell'anno all'Augusteo romano. Sulla vicenda dell'opera c'informa un appunto sulla partitura autografa: «scoperto che l'autore del libretto (che per noi resta uno sconosciuto, n.d.r.) era un volgare malfattore, questo lavoro venne da me tolto, nel 1916, dalla circolazione non per ragioni artistiche ma per l'orrore che mi faceva la mia musica con le parole di un bruto». Per riferire del libretto e della musica (sulla quale potremo ritornare a proposito degli estratti sinfonici) citiamo integralmente il giudizio del Waterhouse:
Ciò che purtroppo guasta il libretto è principalmente la goffa dicotomia fra l'eccentrica, favoleggiante fantasia del Prologo (posto in una casa di vetro nel fondo di un lago) e la rappresentazione assai più convenzionale di leggende di Re Artù la quale occupa i tre atti principali. Lo squilibrio dell'opera può essere, in parte, attribuito a questo fatto, Malipiero essendo per natura più sensibile al mondo fantastico del Prologo che al resto dell'azione. Né i particolari verbali del testo, come tali, risultano sempre bastanti a stimolare la sua immaginazione: la linfa vocale finisce alle volte per cadere in una declamazione piuttosto uniforme. Riesce, peraltro, a raggiungere ogni tanto trasporti emotivi di notevole intensità, sostenuti da un accompagnamento orchestrale le cui abbondanti sottigliezze dimostrano, forse più che in qualsiasi lavoro precedente, quante significative lezioni il compositore avesse tratto da Debussy ed anche - in questo caso - da Ravel.

(Nello studio del Waterhouse è poi inserito un passaggio desunto «dall'appassionato monologo di Lancelotto che è il culmine del primo quadro del Prologo» e «rappresentativo di quanto di meglio le parti vocali soppresse di quest'opera possano offrire».)
Per concludere, diremo che con il Sogno, dunque con un lavoro già molto malipieriano, si chiude il periodo 1900-1915 del musicista, quegli anni difficili e anche eroici per lui e per quanti, come lui, perseguivano davvero il rinnovamento e il progresso del teatro e della musica in generale, e così ricercavano una nuova identità italiana che sapesse tenere il passo con la musica europea portandovi un contributo artisticamente stimolante, per contenuti, forme e linguaggio moderni. Quando riparleremo del Malipiero lo vedremo autore di notevolissima musica strumentale e, più oltre, artefice di fatti tra i più eclatanti, proprio in materia di teatro, del Novecento storico italiano.

NOTE

[1] Tra i lavori ripudiati figurano il poema sinfonico Dai «Sepolcri» (1904), le Sinfonie del silenzio e della morte (1908), la Sinfonia degli eroi (1905). Tra i lavori non ripudiati ma indicati come «inclassificabili» troviamo La sinfonia del mare (1906) .

[2] Tra queste ricordiamo i Sei pezzi per pianoforte (1905), editi da Carisch nel 1907, e la Sonata in re minore per violoncello e pianoforte (1907-08), edita da Schmidl nel 1909.

[3] H. PRUNIÈRES, G. F. Malipiero, in «La revue musicale», gennaio 1927. Lo scritto è poi entrato a far parte del volume L'opera di G.F. Malipiero, contenente «saggi di scrittori italiani e stranieri, con un'introduzione di G.M. Gatti, seguiti dal catalogo delle opere con annotazioni dell'autore e da ricordi e pensieri dello stesso», Treviso, 1952.

[4] Commenta il Gatti, citando il Prunières (in «Il pianoforte», 1925): «L'influenza wagneriana è rimasta sempre alla superficie... quella invece della musica italiana antica fu meno sensibile in un tempo immediato, ma in seguito segnò decisamente l'orientazione del musicista e contribuì alla formazione della sua personalità. A guardar bene, la melodia di Malipiero, sin dai suoi primi lavori, presenta una sensibile affinità con quella dei compositori del Settecento; la stessa plasticità e la stessa fermezza che non ammette abbandoni di eccessiva dolcezza».

[5] Malipiero ebbe diretti contatti con Smareglia, dopo il 1905, aiutandolo nella stesura di alcune partiture, essendo il musicista istriano ormai cieco. In cambio delle sue prestazioni, il giovane riportò senz'altro un bagaglio di conoscenze della tecnica dell'orchestrazione che non poteva certo aver assunto a scuola.

[6] Notizie in merito a Elen e Fuldano, la cui partitura non fu realmente bruciata (la si conserva ad Asolo), si possono leggere nel saggio di J.C.G. WATERHOUSE, I lavori «distrutti» di G.F. Malipiero, in «Nuova rivista musicale italiana», n. 3, 1979, pagg. 564-602. Anche per i due successivi lavori, che citeremo nel testo, si potrà utilmente leggere lo scritto citato.

[7] Tra questi ricordiamo i Poemetti lunari per pianoforte e la prima serie di Impressioni dal vero, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo. Inoltre appartengono a questo periodo lavori ripudiati quali Il canto notturno di un pastore errante su testo di Leopardi (1910), Danze e canzoni per orchestra (1911), un Quartetto per archi (1907-10). A proposito delle composizioni di questo periodo, il Gatti (nel citato scritto sul «Pianoforte», 1925) nota: «C'è già sin da allora l'amore per l'irreale, per il lunare, per il misterioso con qualche tocco di macabro, per forti contrasti di luci e di ombre e di passioni antagoniste».

[8] Ecco, dunque, già messo a frutto l'insegnamento delle musiche sei-settecentesche studiate dal Malipiero e destinato ad accentuarsi nel tempo.

[9] Si noti l'analogia con quanto predicato dal Busoni nella sua Estetica. Malipiero soleva dire: «Per me drammatico vuol dire che si vede mentre la musica ci presenta quello che non si vede».

[10] H. PRUNIÈRES, op. cit.

[11] G.M. GATTI, G.F. MALIPIERO, in «L'Esame», Milano, 1923. Anche in Cat. Op.