MARCELLO SORCE KELLER

MUSICA POPOLARE, SCALE 'ESOTICHE'
ED EVOLUZIONE DELLE CULTURE MUSICALI
NEGLI STUDI DI OSCAR CHILESOTTI


TRATTO DA

IVANO CAVALLINI (ed.)

OSCAR CHILESOTTI, LA MUSICA ANTICA
E LA MUSICOLOGIA STORICA


FONDAZIONE LEVI
VENEZIA 2000


I. PREMESSA

Leggere scritti musicologici a distanza di circa cento anni dalla loro stesura è sempre cosa estremamente stimolante. Infatti, quando ascoltiamo musica antica la percepiamo con un orecchio che la aggiorna e la tradisce inevitabilmente: il nostro modo di ascoltare la colloca in un contesto di suoni che erano estranei all'esperienza di chi produceva quella musica. Quando invece leggiamo letteratura antica sulla musica, allora entriamo in un mondo di curiosità, problematiche e interpretazioni che ben mostrano come allora la musica fosse sentita e apprezzata in modo assai differente dal nostro - che suscitava quesiti che per noi non hanno eguale peso e significato. Questo tipo di excursus nel passato è particolarmente avvincente nel caso di Oscar Chilesotti, perché Chilesotti non fu un musicologo che si occupava solo, come lui stesso diceva un po' ironicamente, «delle sottili ricerche biografiche, bibliografiche e cronologiche ora in onore». Era invece all'epoca uno dei pochissimi studiosi in area italiana interessato a porsi quesiti teorici di portata insolitamente ampia. Tenterò in queste pagine di evidenziare quali fossero tali quesiti per formulare su di essi qualche riflessione.
In primo luogo mi sembra che esaminare gli interessi musicologici di Chilesotti e verificare alla luce di quali idee, nell'ambito di quale visione dei mondo e della storia essi traessero spunto, voglia dire rendersi conto di quanto nel corso di un secolo possa cambiare il nostro modo di considerare l'esperienza musicale. Ma oltre a valerne la pena è bello fare ciò in omaggio allo studioso che ci ha offerto i termini per questo confronto, perché poco ci si è occupati finora di lui. Ed è una dimenticanza colpevole, spiegabile in parte col fatto che la musicologia italiana è ancora forse troppo giovane per essere interessata alla propria storia e a quella dei propri precursori, specie di quelli che non si iscrivevano nel filone principale e seguivano percorsi che tuttora in Italia sono percorsi di minoranza.
È pur vero, comunque, che Giuseppe Vecchi pubblicò negli anni Sessanta un saggio commemorativo su Chilesotti, a cinquant'anni dalla sua morte, e fece poi ristampare dall'editrice Forni una scelta di scritti del nostro autore, e che, in tempi assai più recenti, è apparsa una raccolta di saggi a lui dedicata. Ma tutto questo non è molto per uno studioso che nel suo tempo fu tra i più attivi in Italia. Roberto Leydi ha avuto l'indubbio merito di rilevare che Chilesotti fu «il principale punto di riferimento degli interessi etnici della musicologia italiana di questo periodo». L'affermazione appare in un libro dedicato agli sviluppi dell'etnomusicologia in Europa e alle relazioni con la «Rivista musicale italiana», fondata nel 1894 da Giuseppe Bocca, a cui Chilesotti collaborò. Più avanti Leydi aggiunge anche che «i riflessi della Musikwissenschaft trovano scarsa risposta nel positivismo italiano e le figure di Luigi Torchi e soprattutto Oscar Chilesotti rimangono importanti ma pionieristiche, pressoché solitarie e anche volutamente trascurate». [1] È gratificante poter rimediare oggi, almeno in parte, a questa negligenza.

2. L'AMBIENTE CULTURALE E MUSICALE
DI OSCAR CHILESOTTI: MUSICA ITALIANA
ANTICA E SENTIMENTO RISORGIMENTALE


Occorre ricordare in primo luogo che Oscar Chilesotti nacque in un'epoca in cui l'idea di musicologia (studio sistematico, condotto alla luce di criteri verificabili e, in questo senso, scientifico, del fatto musicale inteso sia come fenomeno fisico, sia come stimolo psico-percettivo e come evento socio-culturale) era ancora tutta da formulare. Lui stesso quindi non si disse mai musicologo, dato che il neologismo non era ancora corrente. Esisteva però già da tempo, naturalmente, e proprio nell'Ottocento era diventata un aspetto importante della cultura mitteleuropea, la storia musicale. [2] Solo quando Chilesotti si avviava verso la mezza età, attorno agli anni Ottanta, in Germania si cominciò a parlare di Musikwissenschaft (musicologia) e di vergleichende Musikwissenschaft (musicologia comparata: la progenitrice dell'odierna etnomusicologia). Dovettero trascorrere tuttavia alcuni decenni prima che questi termini (e le concettualizzazioni a cui corrispondevano) potessero arrivare nell'Europa meridionale e, quindi, anche in Italia. [3] Esisteva infatti nel nostro paese, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, una sedimentata resistenza a considerare la musica come fatto culturale a pari rango della letteratura o della filosofia. Fu una resistenza che si espresse poi radicalmente durante il fascismo, con la Riforma Gentile del 1923, che escluse la musica da tutti gli ordini di scuole, con la sola eccezione degli istituti magistrali nei quali rimase, pur in modo marginale, sotto la denominazione di «musica e canto» e, naturalmente, dei conservatori (scuole di mestiere, di artigianato, ma non luoghi di studio e di ricerca).
In questa assenza totale di punti di riferimento istituzionali per la 'scienza della musica', sorprende non poco vedere come vi fossero in Italia, ciononostante, alcuni studiosi che conducevano ricerche di interesse musicale che andavano oltre l'orizzonte storiografico e che avanzavano in quel settore della musicologia che allora in Germania, seguendo una celebre pianificazione del lavoro da farsi formulata da Guido Adler, si cominciò a chiamare «musicologia sistematica» e che comprendeva ogni approccio e direzione di ricerca che non fosse direttamente collegata al metodo storico (teoria e analisi musicale, musicologia comparata, ecc.). Tra gli studiosi che percorrevano queste strade, solitarie in Italia e nei paesi dell'Europa meridionale, ha particolare rilievo Oscar Chilesotti. Vien quasi da pensare che questi suoi interessi 'sistematici' derivassero da una sintonia interiore segnata dalle stelle: Chilesotti infatti, coincidenza singolare, era coetaneo di Carl Stumpf, uno dei fondatori della vergleichende Musikwissenschaft (nato anche lui nel fatidico anno delle rivoluzioni: il 1848), nonché di un anno più giovane del più onnicomprensivo dei musicologi tedeschi di allora, in effetti il primo grande musicologo: Hugo Riemann.
I contributi di Chilesotti sono davvero singolari nel panorama italiano, perché riguardano, in primo luogo, la riscoperta dell'antica musica strumentale della penisola (Chilesotti era tra l'altro di dieci anni più giovane di colui che, a livello europeo, è a tutt'oggi considerato uno dei grandi pionieri di questa riscoperta della musica antica, Arnold Dolmetsch). Questo è l'aspetto più conosciuto del lavoro di Chilesotti e in fondo, senz'altro, anche il più sostanziale. È già di per sé, anche, un tratto originale dei suoi interessi se consideriamo che all'epoca in Italia si viveva in una atmosfera dominata dal melodramma. Al tempo stesso però, la riscoperta della musica italiana antica è un interesse di Chilesotti che trova appoggio e alimento nei sentimenti patriottici e risorgimentali, assai diffusi all'epoca nell'ambiente colto e nel desiderio quindi di dimostrare l'importanza se non addirittura il 'primato' della tradizione italiana. Chilesotti ci teneva ad affermarlo non solo nel presente, ma anche per il passato (un atteggiamento che animerà poi altrettanto fortemente il lavoro di Fausto Torrefranca). Che ci fosse una pregiudiziale nazionalista in Chilesotti lo dimostra del resto il contrasto tra la sua fine sensibilità per la musica italiana del rinascimento (strumentale e non), una musica che era tra i pochi a saper apprezzare, e la sua totale chiusura nei confronti dell'arte dei polifonisti fiamminghi del Quattrocento, che invece giudicava fredda e intellettualistica.
Ci si rivela così un atteggiamento estetico che mi pare significativo dal punto di vista della storia del gusto musicale. Chilesotti non viveva ancora, come viviamo noi, in un'atmosfera culturale che consente di conciliare quasi tutto: da Machaut a Ravi Shankar, da Stravinskij a Duke Ellington, da Michael Jackson a John Cage. Chilesotti ci testimonia molto bene, e ciò conta perché la sua è la testimonianza di un uomo di cultura, che ai suoi tempi se si amava Verdi non era possibile accettare Wagner (e viceversa) e, similmente, se si era in sintonia con Palestrina la musica di Josquin non era assimilabile all'interno dello stesso orizzonte di fruizione estetica. Chilesotti viveva ancora, per dirla altrimenti, in un'epoca di gusto selettivo e non conglobativo come il nostro. Noi siamo in grado di ricontestualizzare tutto e di dare a tutto un significato. Anzi, quando non vi riusciamo, quando non sappiamo apprezzare l'arte di questo o quel paese, di questa o quella epoca, ci sentiamo quasi colpevoli. Le grandi personalità del passato, invece (l'Artusi che polemizza con Monteverdi, Scheibe che critica Bach, Chilesotti che obietta ai fiamminghi e a Wagner), ci fanno comprendere che al loro tempo ciò non era possibile, perché i punti di riferimento estetico di cui disponevano erano estremamente chiari, definiti e univoci. Per quanto si possa benissimo non essere d'accordo col loro 'gusto', e con i loro criteri di selezione, dobbiamo ammettere che il loro era davvero un 'gusto', perché era capace di discriminare, di discernere e quindi di ordinare le cose dell'arte in una visione globale di valori a noi estranei. Di fronte alla loro estetica da 'gourmets' c'è forse da domandarsi se noi non siamo invece affetti da una qualche forma di bulimia. Ma non è questo il luogo per addentrarsi in un siffatto confronto. Sono invece gli altri interessi di Chilesotti che intendo evidenziare.
Oltre a dedicare molte delle proprie energie alla riscoperta della musica italiana antica, Chilesotti amava riflettere sulla storia, l'utilizzabilità e la valenza estetica di scale e modi europei ed extraeuropei (arabo-persiani, cinesi, ecc.). Lo studio delle scale lo aiutava poi a formulare un'interpretazione dello sviluppo storico dell'arte musicale, delle sue forme e dei suoi stili, costruita alla luce delle teorie evoluzioniste di Herbert Spencer. Qui siamo di fronte ad un desiderio di interpretazione estensiva, globale della storia della musica, che oggi abbiamo perso e che tuttavia corrisponde in pieno alla stagione vissuta da Chilesotti. Lo stesso Spencer, a cui lo studioso intellettualmente così tanto si appoggia, fu uno degli ultimi sociologi a tentare interpretazioni globali della storia e della società.
Si può quindi affermare, a questo punto, che nel caso di Chilesotti siamo di fronte ad un orizzonte di interessi insolitamente vasto che mette in luce molto bene i punti di riferimento culturali del tempo. Ciò che è davvero singolare nel caso di Chilesotti, è che questi punti di riferimento egli li traeva dalla cultura europea nel suo complesso, superando così in diverse direzioni alcuni dei tratti di provincialità della cultura italiana di allora.

3. CHILESOTTI, LA MUSICOLOGIA
COMPARATA E IL FOLKLORE MUSICALE


Quando in Germania si cominciava a parlare di vergleichende Musikwissenschaft, in Italia, per contro, circolava il termine folklore musicale. All'inizio del nuovo secolo con Giulio Mario Fara (1880-1949) e Francesco Balilla Pratella (1880-1955) entrò poi nell'uso il termine etnofonia. Con le espressioni folklore musicale ed etnofonia siamo tuttavia ancora legati a metodi e a prospettive di ricerca che hanno le loro radici nel pensiero ottocentesco e che si riferivano principalmente allo studio delle musiche europee di tradizione orale (quella che correntemente si dice, con locuzione che sta perdendo di popolarità nell'ambiente degli specialisti, 'musica popolare'). Comunque, anche lo studio della 'musica popolare' in Italia aveva ricevuto ben poca attenzione. Questo è in fondo comprensibile perché in altri paesi europei, nel corso dell'Ottocento, la 'musica popolare' era diventata un simbolo forte per le rivendicazioni nazionalistiche nei confronti dei grandi imperi. In Italia ciò non poté avvenire. La frammentazione e la enorme diversità dei repertori della penisola (alcuni con evidenti collegamenti nord-africani e altri mitteleuropei, più quelli delle isole alloglotte: provenzali, ladine, slave, greche, albanesi) mostrava bene che l'Italia dal punto di vista etnografico-musicale non era affatto un paese unitario, al contrario: era un mosaico di tradizioni sostanzialmente estranee le une alle altre. [4] Quanto alle altre musiche del mondo, in Italia il disinteresse era completo e rimase tale, salvo appunto qualche rara eccezione, fino a circa la metà del Novecento. Nemmeno la breve esperienza coloniale italiana in Africa servì ad attivare un qualche interesse per le tradizioni musicali di quel continente. Inoltre, all'epoca di Chilesotti l'avventura coloniale italiana era solo agli inizi (il 1911, l'anno della guerra di Libia, è l'anno di pubblicazione del suo libro su Spencer e Chilesotti morirà poi nel 1916, prima delle imprese coloniali del regime fascista) e sulle musiche dell'Africa allora, in Italia, non si sapeva letteralmente nulla.
L'idea generale che musicisti e storici della musica italiani del tempo avevano sulle musiche di quel continente è ben espressa dalla sensazionale affermazione che Amintore Galli pronunciò in un suo libro defficato all'estetica musicale: «I selvaggi dell'Africa hanno anch'essi i loro concerti! Numerosi filarmonici color d'ebano imitano sui corni, flauti, tamburi e sulle conchiglie sonore le grida degli animali della foresta, i rombi vulcanici, i fenomeni metereologici, quali la pioggia, gli uragani. Musica spaventevole, invero, ma non diversa dalla spaventevole barbarie di quei popoli». [5] È un giudizio sensazionale che è utile rileggere a distanza di così tanti anni, per comprendere l'atmosfera culturale di fine secolo e per valutare quanta originalità di pensiero sia stata necessaria a Chilesotti per prenderne le distanze e riflettere sui sistemi tonali di popoli extraeuropei senza considerarti 'primitivi'. In fondo Amintore Galli non era un uomo qualunque, fu compositore, insegnante di contrappunto al Conservatorio di Milano (ebbe Puccini tra i suoi studenti), fu critico musicale de «Il secolo di Milano», fu anche direttore artistico della casa editrice Sonzogno. Fu perfino autore di un libretto che porta il titolo di Etnografia musicale (1898), precedendo di due anni Julien Tiersot (Notes d'ethnographie musicale 1900), che etnografo musicale lo fu davvero. Quanto Galli dice sulle musiche dell'Africa, oltre a mostrare un pregiudizio eurocentrico, che non era affatto raro all'epoca, mostra la totale invenzione di supposte caratteristiche delle musiche d'Africa sulle quali non era possibile avere informazioni affidabili.
Nell'Italia di allora dunque lo studio reale delle musiche di tradizione orale, europee e non, era non solo assente ma nemmeno auspicato a livello di desiderio conoscitivo. Ciononostante, pur se l'idea di 'musica popolare' non aveva in ambito nazionale alcuna speridibilità politico-ideologica, essa esercitava pur sempre un qualche fascino. Era quel fascino romantico, che si faceva sentire anche in un paese in cui il romanticismo fu un fenomeno in parte tardo e in parte periferico, nei confronti di un patrimonio musicale intuito come il sedimento antropologico di una musicalità primigenia e in qualche misura identificativa di un modo di essere radicato nel territorio e nella storia locale. E Chilesotti amava vedere in questa entità sconosciuta, ossia la 'musica popolare' italiana antica (una realtà sconosciuta, ma su cui le informazioni storiche consentivano di dare per sicura l'esistenza), la fonte di ispirazione, l'humus nutritivo di quella tradizione polifonica italiana cinquecentesca, che secondo lui era stata la risposta artistica del genio italiano ai ghiribizzi e alle 'vuote astruserie polifoniche' dei compositori fiamminghi. Alla luce di questa visione Chilesotti cercò dunque di saperne di più sulla 'musica popolare' e cercò di farlo, in piena sintonia con il modo di pensare dei suo tempo, attraverso le fonti scritte, attraverso ciò che nella musica colta (vocale, strumentale e soprattutto per liuto) era possibile individuare di musica non-colta: citazioni melodiche principalmente.
Non passò a lui per la mente di cercarla nella prassi orale corrente, questa musica popolare. E in questo, naturalmente, non era il solo (al tempo anche grandi antropologi come James George Frazer lavoravano su fonti scritte...). Peccato, perché avrebbe trovato molto. Ma non si può pretendere che un pensatore, per quanto indipendente e divergente come Chilesotti, potesse collocarsi totalmente al di fuori dei paradigmi culturali dei proprio tempo. In fondo, molti anni dopo la morte di Chilesotti, già in pieno Novecento, uno studioso di orientamento tradizionale come Alfredo Bonaccorsi fece più o meno ancora la stessa cosa e, a quel punto, veramente si trattava di lavoro di retroguardia. Bonaccorsi scrisse una voce per il Grove dictionary of music and inusicians (1954) che parla esclusivamente di musica popolare italiana vista attraverso le tracce presenti nel repertorio colto (compresa la citazione di alcune di queste tracce individuate dal nostro Chilesotti). I curatori del dizionario devono esserne rimasti alquanto delusi tanto che, non molto tempo dopo, per il volume di supplemento all'opera, chiesero a Diego Carpitella di compilare una voce nella quale si parlasse delle tradizioni orali della penisola come egli le aveva conosciute ascoltandole dalla viva voce di coloro che ne erano portatori.
Se quello della 'musica popolare' era un interesse di Chilesotti che, visto con gli occhi di oggi, rientra nell'ambito dell'etnomusicologia, egli aveva pure altri interessi che rientrano comunque in questo campo. Chilesotti era animato da una curiosità per la natura e le potenzialità estetiche delle scale musicali che lo indusse a dedicare a questo argomenio approfondite e sistematiche riflessioni. Esse sono tanto dettagliate e sistematiche da fare apparire Chilesotti quasi come un equivalente italiano di Alexander J. Ellis (1814-1890), il fisico-filologo che è considerato uno dei padri fondatori dell'etnomusicologia perché, studiando le scale musicali di epoche e tradizioni diverse, giunse infine alla conclusione che in esse c'è ben poco di naturale e moltissimo invece di «scelta culturale arbitraria». Pur non arrivando a queste conclusioni cultural-relativistiche, che in Ellis nascevano dal contatto con una cultura antropologica (quella inglese) che in Italia era ben poco accessibile, Chilesotti ebbe la curiosità di ri-studiare come nessuno aveva fatto da molto tempo i modi greci antichi, per poi passare al patrimonio scalare (tonale) della Cina, della Turchia, della Persia, della Siria, ecc. Di queste scale egli tentava, come nel caso dei modi greci, di dare una interpretazione culturale domandandosi quale effetto i suoni di una cultura lontana possono avere per l'orecchio moderno socializzato in Occidente. E poi, naturalmente, il bersaglio finale di tutte queste riflessioni era quello di studiare il passato della musica (europea e non) al fine di scoprire linee di sviluppo, linee evolutive. E con ciò arriviamo all'argomento che forse più di ogni altro ci consente di comprendere l'anima di Chilesotti e la matrice dei suo originale, per l'Italia, atteggiamento positivista: la sua ammirazione per la sintesi filosofico-sociologica proposta da Herbert Spencer (1820 -1903), il teorizzatore del positivismo inglese e il più sistematico e pragmatico dei positivisti che si collegava alla tradizione utilitaristica di Bentham.

4. CHILESOTTI E L'EVOLUZIONISMO DI SPENCER

Come ha ben mostrato Warren Dwight Allen in un suo famoso libro, il paradigma evoluzionistico era saldamente radicato nella ideologia musicologica, sia che i musicologi affrontassero sulla scala di massimo respiro le musiche di culture separate tra loro nello spazio e nel tempo, sia che su scala ridotta si occupassero di una singola cultura in prossimità cronologica e geografica al loro punto di osservazione. Solo molto tardi e molto gradualmente questo paradigma fu abbandonato. Bisogna in realtà arrivare agli anni Cinquanta del nostro secolo per trovare delle chiare asserzioni anti-evoluzionistiche in musicologia e nella storiografia musicale. Una tra le prime di queste prese di posizione che marcava una inversione di tendenza è quella di Sir Jack Westrup nel suo An introduction to musical history che ebbe la sua prima edizione nel 1955. Non c'è quindi da sorprendersi assolutamente che Chilesotti avesse sposato una visione evoluzionistica della storia musicale. All'epoca in cui egli visse non esistevano quasi alternative e nella scelta di questa chiave interpretativa della storia Chilesotti era dunque in assai buona compagnia. Aveva per esempio la compagnia, tra i suoi contemporanei, di personaggi come Charles Hubert Parry (pure, per altra singolare coincidenza, suo esatto coetaneo). Ma dopo di lui si potrebbero citare gli 'evoluzionisti' Glen Haydon e Alfredo Casella con i loro ben noti studi sulla dissonanza e sulla cadenza. E tra gli etnomusicologi Chilesotti aveva, nell'evoluzionismo, pure altri buoni compagni. Basterà citare tra questi (per tirare in ballo studiosi che vissero stagioni culturali successive a quella vissuta da Chilesotti) Robert Lach, Curt Sachs e Marius Schneider. Ma, naturalmente, c'è evoluzionismo ed evoluzionismo. È quindi interessante che Chilesotti, più di altri, si sia sintonizzato sulla visione storico-evolutiva di Herbert Spencer, il quale aveva parlato anche di musica nel tracciare il suo quadro sociologico globale. Di musica Spencer sapeva però abbastanza poco, ed ecco allora che Chilesotti si assunse il compito, prima in un articolo e poi in uno scritto che ha le dimensioni di una piccola monografia, di completare e chiarire il disegno storico che Spencer, per quanto riguarda la musica, aveva semplicemente delineato ma non dettagliatamente spiegato.
Il coinvolgimento intellettuale di Chilesotti con l'evoluzionismo di Spencer merita un breve commento e uno sforzo di inquadratura storica, perché furono in tanti nel corso dell'Ottocento ad applicare la teoria dell'evoluzione biologica anche ai fenomeni antropologici e culturali (Tylor, Morgan, Spencer, Engels, J. J. Bachofen). D'altronde Darwin stesso aveva aperto questo spiraglio di possibilità perché fu il primo a correlare la biologia con le trasformazioni strutturali delle lingue, viste come entità progressivamente più complesse per esprimere man mano la cultura di società sempre più specializzate (Descent of man 1871). Oggi però quest'ipotesi è caduta. I linguisti sanno ora che le lingue antiche non erano meno complesse e sofisticate di quelle moderne (anzi, forse, in qualche caso si può sostenere il contrario: il sanscrito ha più flessioni del greco e del latino che, a loro volta, ne hanno più dei moderno francese o dell'inglese). Se evoluzione c'è in ambito linguistico essa non riguarda perlomeno la complessità grammaticale delle medesime. Certo è comunque che la pubblicazione di Origin of species (1859) avviò una rivoluzione non solo nelle scienze biologiche, ma anche nella concezione che l'uomo occidentale aveva di sé. La società vittoriana di allora ne fu sconvolta. La comunità scientifica fu divisa.
Invano Darwin sottolineò che la sua era una teoria della «trasmutazione» di una forma vivente in un'altra (per naturale selezione della prole) e non di una teoria della «evoluzione»: termine quest'ultimo che non gli piaceva, dato che sembrava prefigurare un piano prestabilito, un progetto superiore di un illustre Architetto, una visione oggettivamente antropocentrica, che vede il 'progredire' delle forme biologiche verso la Forma Umana, la forma superiore, angelica. Egli usava infatti, preferenzialmente, le espressioni «natural selection» e «descent with modifications». Era invece di Spencer l'espressione «survival of the fittest» che esprime una concezione evolutiva atta a sottolineare un processo di miglioramento. Herbert Spencer estese con decisione la dottrina dell'evoluzione dal campo biologico alla sfera psichica e ai processi sociali. E del resto l'idea di 'evoluzione' era stata da lui già enunciata nella Statistica sociale del 1850, in anticipo dunque di nove anni su Darwin. E questa di Spencer è una forma di evoluzionismo più lineare e meno problematicista di quella di Darwin, ed è quella che maggiormente attrasse Chilesotti. Nella storia della musica questi vedeva dei processi linearmente orientati, vettoriali che, come Spencer aveva sostenuto, procedevano per progressive differenziazioni: la poesia si separa dalla musica, la musica si differenzia in vocale e strumentale, ecc. ecc. La mancanza di conoscenze musicali riferibili al inondo extraeuropeo in Chilesotti, come in tanti altri studiosi europei del tempo, la conoscenza quindi di una realtà parziale, lo aiutò a vedere una linearità di processi che più tardi, acquisite altre conoscenze, diverrà improponibile.

5.
CONCLUSIONI

In definitiva occorre certamente dire che le idee e le interpretazioni di Chilesotti sono segnate dal tempo. Questo è non solo normale ma, al tempo stesso, giusto e rassicurante. La ricerca procede, il sapere aumenta e le interpretazioni vengono modificate di conseguenza. Nel caso di quegli ambiti della musicologia che toccano le questioni fondamentali (la natura del fenomeno musica, le modalità e il senso delle trasformazioni che manifesta), forse non possiamo nemmeno dire, a distanza di un secolo, di avere molte risposte in più rispetto a quelle che Chilesotti tentava di dare. Sappiamo però che numerose sue domande non erano ben poste e comprendiamo ora che alcune di esse puntano a problemi la cui complessità cominciamo solo adesso a comprendere. In altri casi a certe domande non è possibile dare una risposta generale, valevole per ogni tempo e per tutte le epoche, poiché domande e risposte vanno spesso relativizzate. Così, per esempio, l'ipotesi evoluzionista. All'interno di una data cultura, o durante un segmento limitato della sua storia, è certamente possibile riconoscere processi evolutivi, anche di tipo spenseriano (dal semplice al complesso, dall'indistinto al progressivamente più distinto e specializzato). Non è possibile fare invece dell'evoluzionismo una chiave di volta per la comprensione universale della storia e delle singole storie musicali di culture tra loro diversissime che si basano su presupposti estetici differenti e che, quindi, in fatto di arte hanno esigenze a volte antitetiche (pensiamo per esempio all'estetica dell'espressione individuale nell'arte del romanticismo e, per contro, all'estetica dell'anonimità del prodotto che vige in molte culture orali, in cui non è nemmeno concepibile parlare di 'autori'). Sappiamo oggi, e non poteva saperlo Chilesotti, che nelle scienze, che come la musicologia hanno a che fare non solo con la realtà fisica e biologica ma anche con quella culturale, è spesso possibile raggiungere conoscenze che, come indica il titolo stesso di un famoso libro dell'antropologo Clifford Geertz, hanno solo valore e validità localizzata, sia in termini spaziali sia temporali.
C'è poi da osservare che curiosamente, dal nostro punto di vista attuale, quando si parla di evoluzione in musica si intende quasi sempre evoluzione del materiale tonale (le altezze, le scale), da Max Weber a Ferruccio Busoni, da Chilesotti a Erich von Hornbostel, da Cecil J. Sharp a Frances Densmore (per citare qualche etnomusicologo della prima generazione). Mai si considerava il fatto timbrico, per esempio, quello che prima dell'elettronica sfuggiva quasi del tutto ad ogni forma di analisi e di razionalizzazione, e pur così importante. Se non si considera la componente timbrica si potrebbe sostenere che la musica rock sia addirittura arcaica, fondata com'è su di un lessico armonico di cui disponeva già Giuseppe Verdi... Eppure, questa musica arcaica non è, tanto è vero che i non più giovani hanno grandi difficoltà ad ascoltarla e a riconoscersi in essa.
Detto tutto questo, quindi, è giusto concludere osservando che dal punto di vista della storia della cultura la figura di Chilesotti è apprezzabile sia nel panorama europeo (perché della cultura europea il suo pensiero riunisce filoni differenti), sia in quello italiano da cui emerge per la considerevole atipicità dei suoi interessi e delle sue curiosità.

NOTE

[1] ROBERTO LEYDI, L'altra musica, Milano, Giunti-Ricordi, 1991, pp, 95-96.

[2] Significativo riconoscimento di questa acquisita importanza è l'anno 1856, quando nell'Università di Vienna, con buon anticipo sugli altri atenei europei, fu istituito un corso di Storia della musica tenuto dal famoso critico Eduard Hanslick.

[3] Si consideri che in Italia il primo insegnamento universitario di storia della musica lo ebbe Fausto Torrefranca, a Torino nel 1936. Si consideri anche che quando nacque la prima scuola universitaria di musicologia in Italia, a Cremona nel 1950, di fatto nel suo nome la parola musicologia era assente; si chiamava Scuola di paleografia musicale.

[4] Le raccolte italiane di musica popolare nell'Ottocento sono tutte di interesse regionale. Nessun tentativo ci fu allora di effettuare una ricognizione globale e comparata delle diverse regioni della penisola.

[5] Estetica della musica, Milano, Treves, 1900.