Di Adriano Scianca (*) - Altri Testi - 29/08/2005 |
Ogni movimento autenticamente rivoluzionario – cioè portatore di progetti radicalmente innovativi e originali rispetto a tutto ciò che si è sperimentato ed in tutto e per tutto eterogeneo ed alternativo rispetto al mondo socio-politico in cui irrompe – si scontra inevitabilmente con il problema del linguaggio.
Questo
accade perché ogni movimento “nuovo” deve necessariamente
far uso di un linguaggio “vecchio”, impregnato della sensibilità
e della logica propria del mondo che si vorrebbe sovvertire. Del
resto non potrebbe fare altrimenti: il linguaggio è sempre
linguaggio ricevuto. Osserva lucidamente un filosofo contemporaneo –
pure molto lontano dalla nostra prospettiva - che “un soggetto
che fosse l’origine assoluta del proprio discorso e lo costruisse
‘tutto d’un pezzo’ sarebbe il creatore del verbo, il Verbo in
persona”(i)
sarebbe cioè il Dio della Bibbia che crea ex nihilo,
essendo il “totalmente altro” rispetto al mondo, essendo quindi
fuori dalla storia e dal linguaggio. L’uomo, invece, è
sempre nel linguaggio; un’opera di
“ingegneria linguistica” gli è del tutto preclusa, giacché
egli deve sempre “operare” con gli “strumenti” che trova sul
posto. Ma operare con “strumenti” pensati per tutt’altre
finalità rispetto a quelle che ci si è preposti non
sempre risulta agevole.
Pensiamo ad Heidegger – ma problemi
analoghi si presentano già in Nietzsche – che lascia
incompiuto il suo capolavoro Essere
e Tempo per il venir meno
di un linguaggio appropriato; ad un tratto al pensatore tedesco
“mancano le parole”, giacché tutte quelle disponibili sono
irrimediabilmente intrise della visione del mondo dominante in
Occidente. Ma, affinché il problema qui affrontato non risulti
eccessivamente astratto ed individualistico, pensiamo anche, per
esempio, a tutti quei movimenti politici e culturali passati alla
storia con il nome di Konservative
Revolution: dando
un’occhiata agli slogan, alle parole d’ordine, ai titoli dei
libri, ai nomi dei diversi gruppi non si può non notare un
certo gusto per l’ossimoro, per il paradosso, per la violazione
aperta dei canoni e degli schemi comuni; pensare ad un socialismo che
sia anche nazionale, ad un’aristocrazia che affondi le sue radici
nel popolo, ad una democrazia svincolata dalla tutela del liberalismo
plutocratico, ad un cristianesimo che affermi valori “germanici”
(cioè pagani) – tutto questo ha origini molto più in
profondità che non in un semplice anelito all’originalità.
C’è dietro, piuttosto, l’incapacità di definire se
stessi in modo adeguato attraverso il linguaggio dominante e quindi
una volontà di sintesi, un tentativo di pensare
simultaneamente ciò che si è sempre concepito come
distinto. Ancora un altro esempio, sempre più concreto:
pensiamo a noi stessi; rapportiamoci ai grandi temi dell’attualità
e cerchiamo di prendere parte al dibattito così come ci viene
presentato dai media.
Ebbene, siamo con la retorica buonista,
dolciastra, egualitaria ed ipocrita dei pacifisti o con la crociata
tutta Bible & business di George W. Bush?
Siamo contro i
barbari immigrati islamici in nome dei valori dell’Occidente
cristiano o siamo filo-immigrazionisti a oltranza, seguaci del
cosmopolitismo e del meticciato etnoculturale? Siamo per la fuga in
avanti dello “sviluppo” neo-liberista o per il “ritorno” ad
una civiltà neopastorale, fuori dalla storia, sullo stile
delle ultime tribù africane? Più banalmente: siamo di
destra o di sinistra? Queste sono le alternative che ci propone il
mondo contemporaneo. Il nostro disagio, di fronte ad esse, è
evidente, giacché la posizione da prendere ci sembra sempre
una terza, rispetto a quelle date. Questo avviene perché,
nella misura in cui siamo realmente rivoluzionari, noi usiamo un
linguaggio differente. Il linguaggio del mito.
Secondo
Giorgio
Locchi (ii),
ogni movimento che incarni una tendenza storica nuova si presenta
sotto forma mitica. Il mito, proprio perché “nuovo”, non
può parlare un linguaggio totalmente in-formato da valori ad
esso antitetici, e tuttavia non ha altre forme espressive a
disposizione; per questo nasce sotto il segno dell’ambiguità,
la sua espressione è il paradosso.
Rispetto ai codici
linguistici dominanti l’espressione mitica appare come eresia, come
trasgressione, come unità dei contrari. Ciò accade
proprio in virtù della violazione – più o meno
cosciente – della dialettica interna del linguaggio usato. Il
linguaggio che viene parassitato si sviluppa e si articola, infatti,
tramite l’istituzione di coppie di opposti e di contrari – che
nel caso dell’egualitarismo sono, fra le altre,
cristianesimo/ateismo, comunismo/capitalismo,
nazionalismo/internazionalismo, destra/sinistra,
individualismo/collettivismo, reazione/progresso etc. – che
riflettono l’autoriflessione ideologica dell’universo
politico-culturale imperante. L’espressione mitica cortocircuita
questa dialettica non pensando più i contrari come tali. Le
parole fondamentali vengono, quindi, “falsificate”. Significati
nuovi vengono versati in significanti vecchi. Si ha quindi un uso
strumentale del linguaggio, che non deve più “spiegare”
analiticamente, ma deve ora evocare, toccare una sensibilità
profonda che va al di là della sola ragione. L’unità
dei contrari propria del mito è data dai Leitbilder
(immagini conduttrici) di cui parla Armin Mohler [alias]
(iii).
I Leitbilder sono i mitemi, le unità primarie
della
struttura mitica, del Weltbild, cioè della immagine del
mondo. Sono simboli evocatori, immagini conduttrici di un’idea del
mondo. La creazione e la diffusione dei mitemi instaura un flusso
comunicativo, cioè la rete delle relazioni umane tramite la
quale il mito stesso si dice e si parla. Comunicare è infatti
instaurare delle relazioni, rapportarsi ad altri, scoprire affinità
od idiosincrasie. Gli individui sono necessariamente aperti al
proprio contesto comunicazionale; comunicando tendono anche a
ri-conoscersi, tendono a prendere posizione accanto a chi sentono
affine. La disposizione mitica di chi dice il discorso mitico, in
pratica, tende a “eccitare” la disponibilità mitica di chi
il discorso lo accoglie. Chi riesce a porsi come centro della
struttura dei segni linguistici del discorso mitico – per usare un
linguaggio “strutturalista”, appunto – riesce a dominare
(seppur parzialmente: il linguaggio non si domina mai come una cosa)
il flusso comunicativo, riesce ad imporsi nella produzione dei
simboli ed a porsi come avanguardia metapolitica.
Dominare
il linguaggio, quindi. Imporre una logica nuova che decostruisca i
paradigmi dominanti, che dissolva e riplasmi gli schieramenti.
L’avanguardia deve distinguersi per “un’azione
sistematicamente e culturalmente eversiva, che miri a introdurre in
circuito idee ‘avvelenate’, che punti non tanto ad influenzare,
dimostrare, convincere, organizzare burocraticamente, quanto a
colpire, ad affascinare, a creare dubbi, a generare bisogni, a far
crescere consapevolezze, a produrre atteggiamenti e condotte
destabilizzanti. Deve, in una parola, parlare e saper parlare il
linguaggio del mito, crearsi da sé il proprio pubblico, far
leva pienamente sia sulle tendenze spontanee di rifiuto politico
della realtà del Sistema nelle sue varie articolazioni, che
sugli archetipi romantico-faustiani che ancora circolano
nell’inconscio collettivo europeo” (iv).
Scioccare e sedurre. Ma per questo occorre un altro
stile, che esca
definitivamente dalla ritualità vuota del nostalgismo, dagli
slogan triti e ritriti, dal conformismo settario. Superare gli
stereotipi, parlare un linguaggio nuovo, rifiutare le logiche del
Sistema per imporne di nuove, confrontarsi con il presente e
progettare il futuro – ecco il nostro obiettivo. Dobbiamo praticare
– come già fece brillantemente la Nouvelle Droite nel
suo periodo d’oro – la logica del terzo
incluso: si partecipa al
dibattito sostenendo sempre una terza opinione (logicamente usando la
testa: innovare per innovare è un esercizio sterile) rispetto
alle posizioni opposte in cui si dividono i seguaci del Sistema.
In
questo modo li si mette di fronte ad un discorso nuovo cui non sono
preparati, li si obbliga a prendere posizione ed a ridefinire gli
schieramenti. Gli individui assuefatti, per convinzione o abitudine,
al discorso dominante ci danno per scontati, ci assegnano d’ufficio
un’identità fatta di ignoranza e prepotenza, di nostalgia ed
intolleranza, di pregiudizio ed arroganza. Il nostro compito è
di sorprenderli, di far saltare le logiche ed i ritmi imposti, di
sfuggire alle classificazioni e alle etichette. Quello che importa è
essere nel mondo contemporaneo, sempre pronti a confrontarsi
con esso ed a raccogliere le sue sfide, senza essere di questo
mondo, appartenendo ad un’altra razza, ad un altro stile, legati ad
altri miti e ad altri valori. Solo così si possono fugare due
comportamenti speculari ma ugualmente pericolosi: l’ansia di
schierarsi, di partecipare, di essere recuperati al Sistema ed
ammessi alla discussione tra le “persone civili” e l’opposto
ripiego su dibattiti esoterici ed insignificanti, tutti interni ad un
micro-ambiente tagliato fuori dal mondo.
Del resto la stessa Nouvelle
Droite, che pure qui si è presa come esempio positivo, non
ha applicato questa strategia che in modo parziale, limitandosi al
solo discorso culturale e filosofico, quasi che un’idea di per sé
innovativa risulti rivoluzionaria per il solo fatto d’esser detta.
L’elaborazione ideologica in senso stretto va invece integrata in
un’azione globale e diversificata più ambiziosa e più
ad ampio raggio, seppur allo stesso tempo più umile e
concreta.
Il mito si afferma con ogni linguaggio possibile,
anche e
soprattutto con quello dell’esempio e dell’azione, affermando
quotidianamente una presenza attiva nella società e sul
territorio; presenza che, una volta tanto, non serva per reclamare
una tangente o una poltrona ma che sia, all’opposto, la
dimostrazione concreta che l’alternativa è possibile. Solo
maturando la capacità di mantenere ed affermare una tale
presenza nel cuore della società potremo strappare dalle mani
indegne del carrozzone new-global il monopolio del pensiero
alternativo, attirando di conseguenza verso il nostro campo tutte le
istintualità ribellistiche e i conati di rivolta, cercando poi
di “mettere in forma” e di mobilitare consapevolmente tali
sentimenti espressi fino ad ora solo allo stato grezzo. Solo questo
sforzo costante in direzione di un’apertura al mondo contemporaneo
può permetterci di parlare il vero linguaggio del mito, che
per sua natura è sempre pro-vocatorio (pro-vocare,
cioè, etimologicamente, “chiamar fuori”, ovvero invitare,
sfidare, tentare, eccitare, incitare; in una parola: mobilitare).
L’alternativa è la chiusura orgogliosa in un ghetto che si crede comunità, in una setta che si crede aristocrazia, fuori dal mondo e dalle sfide della contemporaneità, eternamente in ritardo sulla storia, da tutti misconosciuti ed ignorati prima ancora che condannati e banditi.
A noi la scelta.
Adriano
Scianca
i Jacques Derrida, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002.
ii Cfr. Giorgio Locchi, Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982
iii Cfr. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida, Akropolis/La Roccia di Erec, Firenze 1990
iv Stefano Vaj, Introduzione alla prima edizione de Il Sistema per uccidere i popoli di Guillaume Faye (SEB, Milano 1997)