GIOVANNI CARLI-BALLOLA
DAL MOSÈ IN EGITTO
AL MOÏSE ET PHARAON

Quando, nel gennaio del 1818, Rossini fece ritorno a Napoli dopo l'infelice esperienza romana dell'Adelaide di Borgogna, trovò ad accoglierlo un'atmosfera carica di freddezza e di diffidenza, se non proprio di dichiarata ostilità. L'assenza del giovane maestro aveva rinfocolato le non mai sopite polemiche tra rossiniani e antirossiniani, tanto più faziose e violente in quella che era (e, sotto molti aspetti, è tuttora), la Vandea italiana del tradizionalismo musicale. La rappresentazione al San Carlo di un'opera di Morlacchi, la Baodicea, uno dei tanti innocui prodotti melodrammatici del tempo, aveva offerto al partito conservatore il pretesto per rialzare la cresta e spezzare un'ennesima lancia in favore della «nobile e preziosa semplicità» dell'opera del Morlacchi e contro le «perniciose invenzioni del Rossini e dei suoi imitatori».
A simili accuse e ammonimenti Rossini aveva ormai fatto il callo da un bel pezzo. Se li era sentiti rivolgere per la prima volta alla scuola di Padre Mattei il quale, stizzito nel vedersi sfuggir di mano un allievo così terribilmente geniale e originale, lo aveva ribattezzato «il tedeschino», per la passione con la quale il ragazzo si gettava allo studio dei classici viennesi, e lo considerava un po' la pietra dello scandalo del Liceo musicale bolognese. E se li era uditi ripetere puntualmente ogni qual volta, nel corso della sua rapidissima e folgorante carriera, gli era riuscito di azzeccare qualcosa di veramente grande: nelle deliziose opere buffe dei suoi esordi, nell'Italiana in Algeri, nel Turco in Italia, nel Barbiere, nella Cenerentola e in molte pagine del Tancredi, dell'Elisabetta d'Inghilterra, dell'Otello, della Gazza ladra e di quel curiosissimo capolavoro mancato che fu l'Armida, che proprio due mesi prima aveva lasciato sconcertato e perplesso il pubblico del San Carlo.
Fu proprio all'indomani della prima di Armida che il Giornale del Regno delle Due Sicilie uscì con un articolo la cui rilettura, fatta col senno di poi, torna sommamente utile per esemplificare la situazione della cultura musicale e l'«animus» dell'ascoltatore medio nell'Italia della prima metà dell'Ottocento:

«Comparso in mezzo agli sforzi inquieti dell'armonia contro la melodia, Rossini dovevasi opporre coraggioso contro questa rivoluzione umiliante e distruttiva...; però mal conoscendo se stesso, scelse egli fondare sua gloria sulla corruzione del secolo, preferendo lo spirito il quale combina e calcola, a quel fuoco sacro da cui è animato ed il quale crea e perfeziona. Io – continua l'Aristarco napoletano – paragono la musica dell'Armida a giovin vaghissima la quale a tratti della fisionomia mostri chiara la sua origine italo-alemanna. Accanto alle grazie e alla soavità della melodia ed a quella espressione vera, naturale, toccante... la quale forma il carattere dei grandi compositori d'Italia, scappan fuori accordi, i quali mostrano che l'autore, nato con l'anima di Cimarosa e Paisiello, fatichi incessantemente a reprimere gli slanci dell'indole natìa per comparire adorno di barbari modi, sia perché sedotto dalla vertigine della moda, sia perché soverchiamente nutrito della lettura dei classici stranieri...»

Ritroviamo in questo scritto, dettato da un fautore dell'«ancien régime» musicale italiano, anzi, napoletano, tutti gli argomenti classici dell'eterna «querelle des anciens et modernes», aggravati da quella distinzione manicheistica tra «melodia italiana» e «armonia tedesca», da quell'altezzoso disprezzo per quei «classici stranieri») (leggi Haydn e Mozart) studiati e venerati da Rossini, che per un secolo e oltre perdureranno quali fonti di perniciosi equivoci e d'incomprensioni reciproche tra la civiltà musicale italiana e quella d'oltralpe. Dunque Rossini, l'artista destinato ad incarnare (non di rado con intenti sottilmente polemici) la quintessenza della musicalità italiana, venne tacciato ai suoi inizi di esterofilia, e le sue opere considerate delle «tudesqueries» da pigliare con le molle dai «laudatores temporis acti» partenopei, i quali dimostrarono indubbiamente di avere un orecchio finissimo.
La pacifica e sorridente rivoluzione rossiniana nella morta gora dell'opera italiana agl'inizi del secolo XIX è un fenomeno che tuttora attende una seria disamina da parte della filologia musicale; esame reso difficile dalla scarsità degli studi fatti su quella specie di «no-man's land» che è l'opera italiana dal tramonto degli ultimi grandi maestri del Settecento all'apparizione del Pesarese.
La figura e l'opera di Simone Mayr, il maestro bavarese naturalizzato bergamasco che dominò il modesto panorama di questo interregno melodrammatico, inducono più di altre a precisare nelle sue esatte componenti linguistiche e stilistiche quello che per troppo tempo è stato genericamente chiamato il «miracolo» rossiniano. Non si tratta, qui, ovviamente, di promuovere una di quelle oziose gare di staffetta, tanto care alla musicologia di stampo torrefranchiano, per stabilire chi è arrivato primo nell'«invenzione» del «crescendo» o di qualche altra vistosa novità del linguaggio rossiniano. Si tratta di stabilire in che misura il messaggio gluckiano, haydniano e mozartiano e il virtuosismo orchestrale della scuola di Mannheim, infiltratisi inavvertitamente ma in modo inequivocabile nei centri musicali del nord Italia attraverso operisti italiani tedeschizzati come Salieri e Morlacchi e tedeschi italianizzati come Mayr, Weigl e Winter, abbia contribuito sia pure in modo mediato alla formazione del fenomeno che va sotto il nome di Rossini. Questa chiacchierata musicologica della quale chiediamo venia all'ascoltatore del Mosè, ci porta direttamente in medias res. Giacché, se è vero che la partitura che Rossini si accinge a comporre a Napoli nel gennaio 1818 e che porterà a termine con la consueta rapidità il 25 febbraio, sarà una tra le sue creazioni più grandi, proprio per questo dovremmo cercare di spiegarci le ragioni di tale grandezza, nei limiti, s'intende, nei quali è spiegabile la grandezza di un'opera d'arte. Innanzitutto, che cos'è, o meglio, che cosa fu il Mosè, quale venne concepito da Rossini e presentato al pubblico del San Carlo la sera del 5 marzo (1)? Non un'opera vera e propria, bensì una «azione tragico-sacra», un oratorio, cioè, da eseguirsi non in una chiesa o in una sala da concerto, ma da recitarsi e cantarsi sulle scene. La differenza tra un siffatto spettacolo e una vera opera, che oggi ci sembra irrilevante, non lo era affatto verso la metà del Settecento, quando soprattutto a Napoli incominciò a diffondersi l'uso di tali rappresentazioni spirituali (ne composero, tra gli altri, il Guglielmi, il Piccinni e lo Zingarelli) le quali, rifacendosi inconsapevolmente ad antecedenti secenteschi, quali il Sant'Alessio del Landi, contribuirono in pratica a rendere sempre più confusa la già malcerta linea di demarcazione esistente tra l'opera e l'oratorio. Tuttavia per il musicista e per l'ascoltatore del Settecento, sensibili come un barometro alle caratteristiche e ai limiti propri di ciascun genere, e quindi anche per Rossini, una opera seria e un'azione sacra continuavano ad essere due cose ben diverse. Sotto l'etichetta di azione sacra, o di oratorio (come anche venne chiamato il Mosè in Egitto) Rossini sapeva benissimo di potere contrabbandare sulle scene del San Carlo e propinare ai diffidenti napoletani molte cose che on sarebbero neppure state concepibili nei fossilizzati schemi dell'opera seria, con i quali egli stesso era dovuto e dovrà frequentemente scendere a patti. Lo stesso argomento del dramma, se presentato in veste operistica anziché oratoriale, avrebbe provocato inevitabilmente i fulmini e il veto della censura borbonica, preoccupata, come tutte le censure, di salvare soprattutto le apparenze (ne saprà qualcosa Donizetti, quando, vent'anni dopo, si vedrà bocciare, proprio a Napoli, il suo «dramma cristiano» Poliuto). I signori Leone Tottola e Gioacchino Rossini portassero pure Mosè, Aronne e le sette piaghe d'Egitto sul palcoscenico, purché non osassero profanare la vicenda biblica col nome di melodramma. Inoltre, quale teatro, quale impresario, quale pubblico in Italia avrebbero accettato un'opera dove il coro ha una parte tanto preponderante da assurgere al ruolo di vero protagonista; dove il personaggio principale è un basso, mentre tenore e soprano e relativo intreccio amoroso, hanno un interesse marginale; dove vi sono poche arie (il tenore ne è addirittura privo) e molti pezzi d'assieme collegati con una continuità che per quel tempo dovette sembrare rivoluzionaria; dove ci troviamo di fronte fin dalle prime scene a una esplosione di forza creatrice, a una manifestazione di magistero formale, di ricchezza strumentale e polifonica stupefacenti, e dove, infine, dopo poche battute introduttive, il sipario s'apre sulla sconvolgente lamentazione della scena delle Tenebre?
Da ciò risulterà evidente che quanto di grande e d'imperituro contiene il Mosè nella sua edizione definitiva, approntata nel 1827 per l'Opera d Parigi, era già stato concepito nelle sue linee essenziali e in gran parte realizzato nella prima versione napoletana. L'impressione suscitata dall'azione sacra rossiniana sulla parte più eletta del pubblico fu profonda. Stendhal, che fu tra gli spettatori di quella serata, ne lasciò un ricordo che è un capolavoro di grazia memorialistica e di perspicacia musicale:

«Confesso che mi avviai verso il San Carlo mal prevenuto verso le piaghe d'Egitto – scrive lo scettico autore della Vie de Rossini - i soggetti presi dalla Sacra Scrittura possono piacere soltanto o in un paese biblico come l'Inghilterra, o in Italia, dove sono santificati da tutto quanto di più stupendo si ammira nei capolavori di Raffaello, Michelangelo e del Correggio. Giunsi dunque al teatro maldisposto, come chi si aspettasse di potersi divertire allo spettacolo dei roghi dell'Inquisizione. L'opera incomincia con la scena detta della «piaga delle tenebre»: piaga un po' troppo facile ad eseguirsi su una scena, e perciò molto ridicola; ed io, infatti, cominciai a ridere al levar del sipario. I miseri Egiziani, disposti a gruppi sul vastissimo palcoscenico, afflitti dalla persistenza della oscurità, stavano pregando. Avevo appena inteso una ventina di battute di questa ammirabile introduzione, che mi parve di vedere un gran popolo immerso nel dolore. Faraone, vinto dai gemiti del suo popolo, esclama: «Venga Mosè». Benedetti, cui era affidata la parte di Mosè, comparve in un costume semplice e sublime, imitato dalla statua di Michelangelo in San Pietro in Vincoli di Roma. Com'egli ebbe rivolte alcune parole all'Eterno, le luci del mio spirito si eclissarono: io non vidi più in lui il ciarlatano che muta la verga in serpente prendendosi giuoco degl'ingenui, ma un grand'uomo, ministro dell'Onnipotente che fa tremare sul suo trono un vile tiranno. Questa entrata di Mosè – continua Stendhal rammenta quanto vi ha di più sublime in Haydn... in questo brano Rossini spiega tutta la scienza di Winter o di Weigl, unita però ad un'abbondanza d'idee che spaventerebbe questi buoni tedeschi. Il genio di Rossini pare che abbia piuttosto divinata che appresa la scienza, tanto egli sa dominarla con arditezza.»

Queste osservazioni stilistiche, fatte da un dilettante di altissimo gusto e di vasta cultura musicale qual era l'autore di Le rouge et le noir, e comparate con il giudizio che l'autorevole critico Johann Friedrich Rochlitz espresse sul Mosè allorquando la Breitkopf & Haertel di Lipsia ne pubblicò,nel 1823, una riduzione per canto e piano con testo tradotto in tedesco, meritano molta attenzione. Le componenti haydniane, mozartiane, beethoveniane, in una parola viennesi, del linguaggio di Rossini (per non parlare delle problematiche ascendenze haendeliane cui fa accenno il Rochlitz) vengono qui e altrove riconosciute come un dato di fatto scontato, come sicuro punto di riferimento da cui prendere le mosse per un'esatta valutazione dell'originalità rossiniana. Non è questa la sede opportuna per approfondire un discorso di una tale complessità, non privo, per giunta, di insidiosi trabocchetti. Basterà qui sottolineare ancora una volta l'ascendenza essenzialmente oratoriale del vecchio Mosè in Egitto (ascendenza sulla quale le più autorevoli testimonianze del tempo non ebbero in minimo dubbio) e considerare che nell'accingersi a comporre un lavoro di tal genere Rossini non potè certo aver presenti né i meschini prodotti dell'ultimo Settecento italiano, né la coralità dei melodrammi francesizzati di Cherubini e di Spontini, che poco o nulla hanno a che vedere con il Mosè, non fosse altro che per quel tono di aulica retorica neoclassica che li caratterizza e che proprio un lavoro come il Mosè contribuì a spazzar via per sempre dalle scene. I presumibili modelli dell'azione tragico-sacra rossiniana sono piuttosto da ricercarsi nell'oratorio viennese degli ultimi anni del Settecento e dei primi dell'Ottocento: dalla Creazione e Le Stagioni di Haydn (che Rossini conosceva a fondo), con il loro pittoresco sinfonismo descrittivo, al Cristo sul Monte degli Ulivi, il singolarissimo «unicum» beethoveniano cui toccò in sorte di essere tra le prime composizioni del suo autore a venir pubblicate e divulgate in Italia, fino a lavori come Il sacrificio interrotto di Winter e di altri maestri viennesi ben conosciuti anche da noi in quanto la loro attività, nei teatri del Lombardo-Veneto, era favorita, se non imposta, dal governo austriaco (2).
Con tutta la sua magnificenza delle sue grandi linee, il Mosè «napoletano» era però lungi dall'essere un lavoro equilibrato e omogeneo. Tra i primi episodi del dramma, comprendenti pagine come la scena delle Tenebre (con la quale, come si sa, originariamente iniziava l'azione) l'invocazione di Mosè 'Eterno, immenso, incomprensibil Dio', il ritorno della luce e il successivo quintetto 'Celeste man placata'; e gli ultimi, con la sublime, celeberrima preghiera, l'attraversata del Mar Rosso e il colpo di genio della visionaria chiusa orchestrale, si stendeva infatti una zona grigia inzeppata di pezzi convenzionali, dettati dalle inesorabili «convenienze» melodrammatiche del tempo. Il librettista Tottola, dopo avere offerto al compositore il terreno su cui erigere le prime grandiose scene del dramma, preoccupato soprattutto di distribuire ai personaggi la consueta razione di arie e duetti secondo le inviolabili gerarchie di palcoscenico allora vigenti, era presto scivolato nel più trito meccanismo librettistico, trascinando l'azione per mezzo di banali espedienti in un seguito di episodi privi d'interesse drammatico. Quando, agl'inizi del 1827, Rossini, da tre anni direttore del Théâtre italien di Parigi, decise di rimaneggiare il Mosè per le scene dell'Opéra (3), era ancora fresco di un'analoga esperienza compiuta appena tre mesi prima su un'altra delle sue vecchie opere napoletane, il Maometto II, divenuto Le siège de Corinthe attraverso un radicale ripensamento drammatico e musicale che rivelò come ormai il Pesarese si fosse risolutamente incamminato verso nuovi orizzonti. Come Verdi, quando si accingerà alla rielaborazione del Macbeth e del Simon Boccanegra, anche Rossini volle tornare su due, tra le sue opere, che pur nella sua frenetica attività di compositore non aveva mai perduto di vista, e alle quali profondamente credeva. In mano al Balocchi e al De Jouy, il vecchio Mosè in Egitto divenne Moïse et Pharaon, ou le passage de la Mer Rouge, fu accresciuto di un atto, mutò tutti i nomi dei personaggi, tranne quelli di Mosè e di Faraone, e ne acquistò uno nuovo: la fosca figura del gran sacerdote Osiride, cui all'inizio del nuovo terzo atto, Rossini affiderà una delle pagine più acutamente geniali dell'opera, l'invocazione 'Qual dolce ebbrezza l'alma respira', che con la sinuosa mollezza della sua linea melodica e l'ambiguità cangiante delle armonie immerge in un'aura di pagana sensualità la festa nel tempio d'Iside e, insieme, tratteggia l'animo tortuoso del personaggio. Dei diciassette numeri di cui si componeva la vecchia partitura, cinque vennero eliminati e sostituiti con nuovi brani, ed anche i rimanenti risultarono quasi interamente ripensati: dal confronto del Mosè «napoletano» con quello «parigino» si può affermare che Rossini lavorò procedendo su due strade parallele: quella dell'essenzialità e quella dell'arricchimento. Con tutto ciò, una fetta del vecchio Mosè, con le relative pecche, riuscì a sopravvivere proprio nel cuore dell'opera: si tratta del duetto tra Aménofi e il padre e dell'aria di Sinaide 'Ah, d'un'afflitta il duolo' e successiva stretta che concludono fiaccamente un atto, come il secondo, che si era aperto con la famosa scena delle Tenebre. Sarà interessante ricordare che l'aria della moglie del Faraone originariamente apparteneva ad Anaide e coincideva con la tragicissima scena della morte di Aménofi, fulminato da una folgore celeste invocata da Mosè per punire l'ostinata tracotanza del giovane principe. Rossi ni utilizzò la vecchia musica adattandole nuovi versi nell'àmbito di una situazione scenica e psicologica affatto diversa dalla precedente: e il confronto tra il testo originario e quello della nuova versione sarebbe potuto servire da preziosa pezza d'appoggio allo Hanslick per la sua nota tesi sulla assolutezza oggettiva del bello musicale. Canta infatti Anaide, nel Mosè «napoletano»:

Tormenti, affanni e smanie
voi fate in brani il core
tutte d'Averno, o Furie
versate in me il furore...

mentre, con le medesime note, le fa eco Sinaide nel Mosè «parigino»:

Che ascolto!, o qual nell'alma
piacer mi scende ancor!
all'amor suo la calma
io deggio del mio cor

e via di questo passo.

Ma né le poche secche convenzionali, né quel tanto di edonistico orpello stile Semiramide, che qui manda i suoi ultimi barbagli nelle brillanti marce e marcette che attraversano il tessuto dello spartito col frivolo luccichio delle «paillettes»; né gli inevitabili ballabili cari alle scene francesi che dilagano nel terzo atto, valgono ad infirmare nella sua sostanza la grandezza di un capolavoro che al suo apparire suscitò un entusiasmo indescrivibile. Si avverti che qualcosa di nuovo era arrivato sulle scene parigine, qualcosa che poneva fine alla cerimoniosa retorica dell'opera francese o francesizzante per attingere ad autentici conflitti drammatici rivissuti sullo sfondo di una coralità che mirabilmente alterna e fonde la solennità epica con la cordialità della preghiera popolare. Ed è in questo senso che vanno intese le parole con le quali la Revue musicale (diretta dal difficilissimo Fétis, che da parte sua aveva già dedicato all'opera una lunga e sagace critica) volle salutare l'avvento del Mosè:

«Posto tra il bisogno di novità, di svecchiamento ed il pregiudizio di salvaguardare una pretesa dignità, il teatro dell'Opéra menava una languente esistenza... Si prevedeva che la tanto desiderata rivoluzione era imminente: alla fine essa è stata fatta. Cominciata con Le siège de Corinthe, ieri si è compiuta coll'oratorio Moïse.

Parole cui fece eco, con accenti profetici, La Quotidienne:

«Questa magnifica rappresentazione farà epoca negli annali lirici, non solo perché vi si sono intesi canti sino ad oggi sconosciuti sulle nostre scene, ma anche perché essa ha dato il colpo di grazia all'antico sistema, consolidando una rivoluzione, alla quale si preludeva da qualche tempo.»

Giovanni Carli Ballola

 

1) Protagonista era il basso Benedetti, fra gli altri interpreti il tenore Nozzari e la futura moglie di Rossini, Isabella Colbran. Il Mosè dell'edizione napoletana comparve sulle scene della Scala esattamente sette anni dopo (5 marzo 1825), con Filippo Galli, cioè il rivale di Lablache tra i celebri bassi del tempo; e l'esito fu talmente buono (14 recite) che i milanesi vollero riascoltarlo nella seguente stagione primaverile (per 27 sere) e nella stagione d'estate-autunno 1827 (per altre 26, con il leggendario Rubini nella parte di Aménofi).

2) Indicativa, a tale proposito, è la cronologia degli spettacoli rappresentati alla Scala nei primi decenni dell'Ottocento.

3) La prima all'Opéra andò in scena il 26 marzo 1827 con una costellazione di divi: cantavano infatti Nicolas Levasseur come Mosè e Laura Cinti Damoreau come Anaide (entrambi avevano già figurato nella prima parigina della versione napoletana, allestita dal Théâtre Italien nel 1822); Adolphe Nournt era Aménofi, Henri-Bernard Dabadie il Faraone e sua moglie Zulmé Leroux Sinaide. Alla Scala il nuovo Mosé venne dato nell'ottobre 1835, protagonista un altro basso passato alla storia, Ignazio Marini. L'ultima apparizione è della stagione 1958–59, direttore Gianandrea Gavazzeni, scene e costumi di Nicola Benois, regia di Mario Frigerio, con Boris Christoff, Margherita Roberti, Giulietta Simionato, Gianni Raimondi, Giangiacomo Guelfi.