Egidio Saracino

PERCHÉ ANNA BOLENA?




Le prime battute autografe di «Anna Bolena»
Egidio Saracino, Invito all'ascolto di Donizetti, Milano, Mursia,1986, pp. 130-136. Il curatore di questo sito giudica notevolissima questa guida e ne consiglia l'acquisto a chi vuole accostarsi a questo sommo operista dell'Ottocento.
La vita musicale milanese fa perno intorno alla Scala. Ma non sempre. Quel 1830 il duca Pompeo Litta con due danarosi mercanti cittadini, Marietti e Soleri, tenta di prendere in mano la gestione della sala del Piermarini, ma resta a mani vuote. Le autorità absburgiche preferiscono lasciare al loro posto il Crivelli e il Barbaja. Litta e compagni ripiegano sul meno prestigioso Teatro Carcano, una sala nel quartiere di Porta Romana. Hanno il dente avvelenato e si ripromettono di prendere una bella rivincita, meditando addirittura una contesa melodrammatica fra i compositori piú richiesti del momento, Bellini e Donizetti: entrambi sono chiamati a cimentarsi con libretti del medesimo autore, Felice Romani, ed entrambi hanno a disposizione gli stessi cantanti, Giuditta Pasta e G. B. Rubini.
Le trattative con il bergamasco vengono avviate nell'estate del '30. Donizetti tentenna. Appena due anni prima aveva confessato al Mayr: «Morirò io di fame: a Milano nemmeno un'appoggiatura ci farò». Un risentimento piú che lecito giacché si era imbattuto in una serie di cattivi esiti delle sue prime produzioni alla Scala. Ma, trattandosi del Carcano, la proposta milanese suonava, anche per parte sua, come una ripicca. Il 1° di agosto il contratto è già firmato. Ottenuta dal Barbaja licenza di assentarsi da Napoli, il compositore accompagna a Roma Virginia e riparte da solo (i 650 scudi pattuiti non permettono di scialare) alla volta della Lombardia. Corre a Bergamo: dopo nove anni di assenza riabbraccia i genitori, il Mayr e gli amici. Quindi, con il libretto dell'«Anna Bolena» in valigia si ritira a Moltrasio dove nella villa di Giuditta Pasta attende, dal 10 novembre al 10 dicembre, alla composizione dell'opera.
Perché «Anna Bolena»? Si sa che Donizetti, nel suo povero mestiere di compositore d'opere, non bada per il sottile in fatto di libretti. Ne ha accettati e musicati dei piú strampalati e i poeti si chiamavano Tottola, Genoino, Gilardoni, Schmidt. I precedenti approcci con Felice Romani, è vero non hanno sortito risultati felici, ma costui gode di taie reputazione come letterato e come librettista che di meglio non si trova. Nei suoi libretti riesce a conciliare con sommo decoro letterario la tecnica del melodramma e le nozioni moderne di drammaturgia. È insomma il «principe dei librettisti», elogiato nei salotti letterari, apprezzato dal pubblico, richiesto da musicisti (con lui Bellini farà coppia fissa), ben protetto dagli impresari.
«Anna Bolena» è un capolavoro già nella struttura drammaturgica completamente plasmata sul carattere musicale di Donizetti. Tra le fonti dirette figurano la tragedia del conte Alessandro Pepoli (1757-1796) «Anna Bolena» (1788) e la tragedia del francese Marie-Joseph Chénier (17641811) «Henri VIII» (1791), nella traduzione italiana del Pindemonte (1753-1828), «Enrico VIII, ossia Anna Bolena» (1818). Come lontana suggestione letteraria il Romani risale poi all'«Enrico VIII» di Shakespeare; mentre quasi certamente al librettista non è sfuggita la cronaca pseudostorica di Paolo Giovio (1483-1552), di qualche lustro posteriore ai fatti narrati.
Tanto scrupolo del librettista è giustificato dalla tesi che egli vuole accreditare. «Enrico VIII, re d'Inghilterra - spiega nell'Avvertimento - preso d'amore per Anna Bolena, ripudiò Caterina d'Aragona, sua prima moglie, e quella sposò; ma bentosto di lei disgustato, e invaghito di Giovanna Seymour, cercò ragioni per sciogliere il suo secondo nodo. Anna fu accusata di avere tradito la fede coniugale, e complici furono dichiarati il conte di Rochefort, suo fratello, Smeton, musico di corte, ed altri gentiluomini del re. Il solo Smeton si confessò colpevole; e su questa confessione Anna fu condannata al supplizio con tutti gli accusati. È incerto ancora se ella fosse rea. L'animo dissimulatore e crudele di Enrico VIII fa piuttosto credere ch'ella era innocente».
È dunque la tesi dell'innocenza di Anna, avvalorata dal Pepoli e dallo Chénier, a tramutare una vicenda storica in un tema tragico di conflitti di natura intimista. Per la prima volta il Romani mette in scena non un'astratta tematica di potentato (ragion di Stato, tradimento politico, impegni dinastici), ma il loro riflesso sentimentale e privato; e per la prima volta il sipario cala non sull'edificante catarsi aristotelica del trionfo della bontà, ma piuttosto sul soccombere dei deboli e sulla prevaricazione dei duri di cuore.
E se c'è opera che si concentra tutta sulla dipintura psicologica, piuttosto che sull'azione, questa è «Anna Bolena». Stabilita l'innocenza della regina, il libretto è costruito per quadri che riflettono l'altrui comportamento. Sicché, nella tragedia si assiste a scontri di sentimenti e di stati d'animo in relazione al destino di Anna che sappiamo soccombente, vilipesa, tradita e delusa, fin dalle prime battute: la malevolenza di Enrico VIII, deciso a consegnarla al boia; l'inutile amore di lord Percy; la passione disastrosa di Smeton; il rimorso, con venature di ipocrisia, di Giovanna Seymour. Ed è un tale andamento drammaturgico ad agevolare la penna di Donizetti che definisce con «Anna Bolena» una scrittura diversa rispetto alla tradizione.
Lavorando su pannelli distinti, il compositore riesce ad avvicinare le cesure di cui soffre il melodramma e inconsapevolmente raggiunge un'unità stilistica fra musica e contenuto drammatico. Se la convenzione lascia separati i due piani fondamentali del melodramma - quello dell'azione (il recitativo) e quello della contemplazione e del sentimento (l'aria) - in «Anna Bolena» ogni argine si rompe in favore di una maggiore intensità drammatica soprattutto nel terzetto dell'Atto II (Anna-Percy-Enrico), ove la concitazione della musica fa saltare la staticità lirica dell'aria e il recitativo, affidato ad una vocalità realistica per scatti e frammentaria, tocca punte di lirismo di straordinario rilievo espressivo che Verdi raggiungerà solo in Ernani.
Perché, dunque, «Anna Bolena»? Sulla donna incombe il peso di una tragica fatalità. Donizetti la ritrae da codesta prospettiva e definisce le componenti fondamentali della drammaturgia romantica: angoscia esistenziale, malinconica nostalgia d'amore, abbandono elegiaco. Anna non è piú la creatura delle travolgenti immersioni nel mondo sonoro rossiniano; ma sembra emergere da un intenso stato d'animo emozionale. E per il melodramma la storia diventa semplice occasione per sublimare la poetica del vero. Il carattere unitario dell'opera è già nella sinfonia dove il colore orchestrale tratteggia i personaggi (la concitazione di Enrico, il mesto presentimento di Anna, il rimorso di Giovanna), offrendo nell'architettura tematica l'anticipazione della tragedia.
[Atto I] Il sipario si alza sulla sala del castello di Windsor ed è subito un brusio di violini con sordina. Sono 30 battute introduttive che danno l'impressione di come la vicenda non cominci lì. I cortigiani si scambiano mezze frasi, cenni d'intesa, ammiccamenti. Anche il loro parlottare è iniziato chissà quando: «Né venne il Re? Silenzio: / ancor non venne. Ed ella? / Non geme in cor, ma simula». Donizetti sforbicia il testo di Romani per rendere piú asciutto lo scorrere dei commenti. La musica ha l'andamento oscillante fra tonalità maggiore e minore, si che un'atmosfera di cupezza pervade il modo «maggiore» con accorti scivolamenti nel «minore» facendo presentire verso quali sviluppi si avvia la vicenda: «Tramonta ormai sua stella. / D'Enrico il cor volubile / arde d'un altro amor. / Fors'è serbata, ahi misera! / ad onta e duol maggior».
Le scene successive delineano stati d'animo. Giovanna Seymour (mezzosoprano), damigella di compagnia di Anna, è la nuova fiamma d'Enrico; non nasconde il tremore perché la regina vuole incontrarla («Innanzi alla mia vittima / perde ogni ardire il cor»), però s'impone una maschera invocando l'amore («Sorda al rimorso rendimi, / o in me ti estingui, amor»). L'incontro con Anna (soprano) è preparato dall'orchestra con il duplice richiamo all'afflizione della donna e al presagio di tragedia. Piú avanti, l'aria «Come, innocente giovane» riporta Anna al ricordo del «primiero amore», abbandonato per l'ambizione della corona.
Nella cabaletta la regina ammonisce Giovanna: «Ah! se mai di regio soglio / ti seduce lo splendore, / ti rammenta il mio cordoglio, / non lasciarti lusingar». Il paggio Smeton (contralto), invitato a rincuorare gli animi con la sua arpa, cela maldestramente fra i versi l'ardore della sua passione per Anna. È un personaggio che va oltre le intenzioni di equilibrio vocale di Donizetti, giacché nell'ambiguità del ruolo en travesti è consegnato un mozartiano Cherubino dagli accenti rinnovellati alla luce dell'espressività romantica.
Enrico (basso) è presentato, alla scena V, nell'incontro con la Seymour. È un simulatore, ci ha avvertiti il Romani. Eppure in quel suo modo - forse prepotente - di chiedere amore, Donizetti non sa resistere alla tentazione di scrutare con pietas nell'animo del re. Franco Lorenzo Arruga scrive che «avvertiamo in lui non tanto la perfidia del corruttore, la crudeltà del malvagio potente, ma come la superiorità del tiranno solitario, che in quell'ambiente d'infelici e di contegni studiati, di mormorii e d'inganni è desiderato e non amato. Se Anna ha ceduto per la fama, Giovanna gli chiede amore e fama apertamente».
Ultimo ritratto è quello di Percy (tenore). L'antico amante di Anna, abbandonato per il serto regale e dal re spedito in esilio, diventa lo strumento involontario del disegno di Enrico. Il rientro a Corte - non sa spiegarsi il perché della magnanimità del re - gli ridesta il sentimento e con ingenuità pari a incoscienza («E che temer degg'io?») confessa a Rochefort (basso), impaurito fratello di Anna, lo struggimento senza fine dell'amore perduto.
Fatta la conoscenza dei personaggi, il dramma volge rapido verso la tragedia. Il re organizza una battuta di caccia (scena VII) per spiare sua moglie e Percy; nel quintetto si precisano stati d'animo e situazioni: Anna commenta uno scorrere di lacrima sul volto di Percy; costui si abbandona alla constatazione che Anna non lo ha dimenticato; Rochefort tenta di frenare il suo manifestare lo scompiglio» interiore, Enrico ordina ad Harvey (tenore) di seguire i due. Ma sarà la sbadataggine di Smeton a far precipitare gli eventi. Costui, rimasto solo, si abbandona a cantare la sua passione per Anna davanti a un ritratto che tiene custodito in petto, poi, di nascosto, assiste al duetto Anna-Percy.
Invano la donna tenta di convincerlo ad allontanarsi; i suoi accenti velati di malinconia danno invece a Percy la risolutezza di sfidare la sorte per riaverla e minaccia di uccidersi. Nell'atto di trafiggersi, interviene Smeton. Anna è colta da malore, sviene. Accorre anche Rochefort. Ma ormai è tardi. Sono tutti caduti nel tranello di Enrico che astutamente attendeva il momento per cogliere la moglie in flagrante adulterio, o comunque ritenuto tale. Ogni dubbio cade nell'attimo in cui Smeton, offrendo il suo petto per discolpare Anna, inavvertitamente svela il ritratto della regina. A Enrico quel monile basta a provare l'accusa di tradimento. Il sestetto e la stretta finale dell'Atto I suggellano i due intensi momenti scenici in un equilibrato susseguirsi di immagini musicali: il respiro largo delle frasi che dal canto di Anna («In quegli sguardi impresso») si fa strada poi nelle scritture vocali di Percy, di Giovanna, di Smeton e di Rochefort, la linea nervosa di Enrico la cui rabbia esplode («Sí, segnata è la tua sorte») nella stretta, sia pure con figurazioni che avvicinano a Rossini.
L'Atto II è il luogo dell'opera ove con maggiore coerenza si estrinseca il pensiero drammatico di Donizetti. Tutto quanto è puro accadimento nell'Atto I si riflette ora interiormente in ogni singolo personaggio. L'orchestra e la scelta accurata dello strumentale si fanno agenti di emozioni. Centro della partitura è il terzetto Anna-PercyEinrico (scena VI), rispetto al quale i duetti Anna-Giovanna (scena III) ed Enrico-Giovanna (scena VII) aggiungono spunti che sono propri della poetica romantica: il rimorso, l'offesa, il perdono, l'onore e il delirio finale.
Un clarinetto introduce il dolente coro delle damigelle di Anna, rimaste sole al fianco della sventurata, a infonderle con una melodia elegiaca la fiducia nel Cielo. Poi i corni annunciano, cupi, il motivo della rassegnata e breve implorazione della regina: un arioso dagli accenti di lirica perorazione («Dio, che mi vedi in core, / mi volgo a te... Se meritai quest'onta / giudica tu») trova piangente Giovanna. È venuta a consigliarle una via di scampo che le renda salva la vita: «Il confessarvi rea / dal Re vi scioglie e vi sottragga a morte». Quindi la drammatica scena che pone faccia a faccia accusati e accusatore. Enrico infierisce senza pietà sulla donna, accusata di non avere rispettato «il regio grado» e di essersi abbassata all'amore di un Percy; ma quando costui giura sulla lealtà di Anna, Enrico sbatte in faccia alla donna la confessione di Smeton. Il terzetto si snoda fra empiti lirici, concitazione rabbiosa che giunge a quel grido «Salirà d'Inghilterra sul trono / altra donna piú degna d'affetto», e interiezioni struggenti.
Con un procedimento che diverrà luogo piú sublime della pietas donizettiana, il delirio toglie ad Anna l'ultima onta di dover affrontare il carnefice. Gli strumentini e i corni con un doloroso ricamo contrappuntistico accompagnano le damigelle nella prigione di Anna. Il flauto sottolinea il soliloquio della sventurata, sino a quando la voce malinconica del corno imglese spazia nel vaneggiamento che fa riaffiorare dai ricordi lontani visioni campestri e dolcissimi declivi: «Al dolce guidami / castel natio» è l'estrema contemplazione del passato. Come in un sogno sfilano i «verdi platani» e il «queto rio» rimanda i sospiri antichi che riecheggiano nel controcanto dello strumento.
Poi il melisma vocale non può soffocare la tristissima implorazione di Anna: «Un giorno rendimi / di miei prim'anni, / un giorno solo / del nostro amore». Quindi la tragedia si scioglie nel breve ma intenso canto elegiaco di Anna «Cielo, ai miei lunghi spasimi / concedi alfin riposo», cui Smeton, Percy e Rochefort implorano: «L'estremo suo delirio! prolunga, o Ciel pietoso. / Fa che la sua bell'anima / di te si desti in sen». Fuori, Enrico VIII convola a nuove nozze con Giovanna Seymour.
Il viaggio di «Anna Bolena», sottoposta quasi immediatamente agli immancabili ritocchi per la necessità di adattare il canto a nuovi interpreti, alterna folgoranti passaggi a soste di temporanea attesa. Infiamma Vienna, Parigi, Londra e dà notorietà europea a Donizetti. Inciampa alla Fenice e si risolleva al Carlo Felice di Genova. Approda alla Scala nel 1832 che l'accoglie freddina, dopo avere acclamato «Norma» di Bellini. Milano la rivede ancora nel '35, alla Cannobiana, e s'infreddolisce ancora di piú. Poi la buona stella l'abbandona del tutto, quando con nuovi capolavori Donizetti stesso provvide involontariamente a farla dimenticare. Sino al 15 aprile del 1957: Maria Callas, Gianandrea Gavazzeni e Luchino Visconti riportano alla Scala «Anna Bolena» e la cronaca di quella serata è storia dei giorni nostri.