EDITA GRUBEROVA

 


Tra le stelle assolute del firmamento belcantistico attuale,
grandissima esecutrice di coloratura [...],
si è rivelata anche sensibile interprete cameristica.

[Dizionario degli interpreti musicali TEA]

 

ELVIO GIUDICI
SULLA GRUBEROVA
NEI RUOLI DONIZETTIANI

 

 

In «Maria Stuarda»

 

Con la sua corisumata abilità al servizio d'un'acuta intelligenza interpretativa, [la Gruberova] plasma una Maria dolcissima ma per nulla evanescente, che neppure da lontano conosce le scomposte esagitazioni d'una Gencer e, se non possiede la rigogliosa pienezza del registro centrale d'una Sutherland, vi supplisce con una maggiore ricchezza di chiaroscuri e di risvolti psicologici che caricano ogni parola di significato e d'emotività. In tutta l'ultima scena, ad esempio, questa voce chiara ma duttilissima esprime al meglio la pateticità sublimata tanto tipica di certe espanse melodie donizettiane, che innerva con una sorta di dignità offesa, molto teatrale: si sente nitidamente, nei diversi brani di cui la scena si compone, il lungo rodaggio sulle tavole del palcoscenico.
Nella scena dell'invettiva poi, ancora una volta la Gruberova mostra liintelligenza della grande interprete: che lavora molto d'accento e pochissimo di forza, che conserva al fraseggio un incedere aristocratico e supremamente elegante, e che, giunta al famigerato «vil bastarda dal tuo piè», traspone la frase all'acuto rendendola una tranciante sciabolata. È probabile che, ai tempi di Donizetti, il terminare una frase monosillabica con un salto di quinta su un la in secondo spazio conferisse a tutto l'inciso un andamento quasi parlato d'effetto elettrizzante oltre che insolito. Oggi, dopo Verdi e soprattutto dopo il verismo, se si carica solo un po' l'accento si rischia il plateale, se lo si carica troppo si arriva al grottesco, ma se si scivola via se ne va anche il climax della scena: così che la soluzione proposta dalla Gruberova, di mantenere a Maria tutta la sua statura di regalità offesa concludendo con un acuto incisivo e orgoglioso, sarà anche stata dettata dalla relativa povertà di corpo nel registro centrale, ma a me pare nondimeno eccellente. [Ed. PHILIPS 1989]
 

In «Lucia di Lammermoor»

 

Questa è soprattutto la «Lucia» della Gruberova.
Non c'è momento, frase, sillaba della parte che non sia sviscerata e illuminata dall'interno, senza che mai, neppure per un attimo, tale scrupolosissimo scavo analitico ingrigisca nella freddezza dell'esercizio calligrafico. Al contrario, il fraseggio ha una comunicativa, una libertà e una logica teatrale infallibili. Il timbro, rispetto alla precedente incisione EMI s'è fatto più consistente e ricco di corpo al centro: così che certi inevitabili suoni un poco bianchi e queruli, tipici del soprano leggero, adesso sono quasi inavvertibili oppure sono mascherati dall'accento con somma abilità. Resta pur sempre, il suo, un timbro chiaro e di limitato spessore: cosa che la Callas ci aveva fatto guardare con sospetto, ma che pure ha una sua incontrovertibile logica nella natura «angelizzata» d'un personaggio dove non a caso si riassumono al meglio una lunghissima teoria di figure del pari smaterializzate nei puri arabeschi d'un canto soave e senza peso. Inoltre pur nell'ambito d'una vocalità il cui limpido fiuire non conosce asperità alcuna, la Gruberova, qualora lo tentasse, non arriverebbe a stilizzare in pura bellezza l'arco complessivo della frase, con ciò caricandolo della particolare espressività connaturata ai personaggi femminili del settore musicale un po' sbrigativamente riassunto nel termine «belcanto»: in questo, la sublime astrattezza della Sutherland resta inarrivabile.
Per plasmare dunque Lucia, il mezzo più cospicuo di cui si serve adesso la Gruberova, e con abilità tecnica trascendentale, è lo stesso impiegato dai cantanti non dotati dalla Natura di voci dalle ampie risonanze alle prese con arcate vocali considerevoli: la «messa di voce». Ovvero attaccare una nota, rinforzarla per gradi anche infinitesimi lungo l'intero svolgersi della frase indi smorzare fino all'intensità di partenza: il risultato è che una voce di limitato spessore arriva a sembrare persino soverchiante. Inoltre combinando questo impiego diabolico della «messa di voce» con la purezza d'un'emissione controllatissima e appoggiatissima, che assicura compattezza e omogeneità timbrica totale lungo l'intera gamma con la musicalità a dir poco eccezionale; con l'incisività del fraseggio (cui non è estranea la dizione, esemplare non solo in quanto tale ma, soprattutto, nel saper conferire giusto peso espressivo a costruzioni sillabiche sicuramente non casuali) la Lucia della Gruberova è cantata divinamente e interpretata m modo personalissimo.
Ecco cosa davvero si deve intendere per interpretazione, specie d'un personaggio del teatro musicale italiano del primo Ottocento: partire da un'esecuzione impeccabile in termini di musicalità e d'emissione del suono, per poi incanalare tale impeccabilità sonora lungo una linea espressiva personale, che cioè non scimmiotti ora questa ora quella inflessione d'una famosa interprete, ma sia immediatamente riferibile al proprio modo di porgere la frase. Ascoltare ad esempio un legato come questo della Gruberova, in cui le sottili pulsazioni dell'accento diventano stille di pianto proprio perché s'immergono nell'immacolata perfezione del suono, significa ritrovare l'autentico, trascinante potenziale espressivo della musica donizettiana: non esiste, nella Lucia della Grnberova alcun punto morto o di raccordo, così come non c'è momento in cui emissione, intonazione e accento non concorrano simultaneamente all'espressività della frase.
Elvio Giudici, L'opera in CD e video. Guida all'ascolto, Milano, Il Saggiatore, 1995.