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Elvio Giudici

PIERRE BOULEZ E LORIN MAAZEL

A CONFRONTO

 

 

Elvio Giudici

L'opera in CD e in Video

Milano, il Saggiatore, 1999, L.120.000



1979 DG (edizione in tre atti) Teresa Stratas, Yvonne Minton, Franz Mazura, Kenneth Riegel, Robert Tear, Gerd Nienstedt, Toni Blankenheim; direttore Pierre Boulez.
Nel 1979 Liebermann, che allora reggeva l'Opéra, gettò tutto il formidabile peso del proprio prestigio e della propria capacità organizzativa in un nuovo allestimento di «Lulu»: presentata per la prima volta nell'integralità dei suoi tre atti, costituendo così un imprescindibile precedente contro eventuali iniziative bloccanti della Fondazione Berg. Fu un avvenimento memorabile - e come tale debitamente enfatizzato - affidato alla direzione di Boulez e alla regia di Patrice Chéreau, che per l'occasione rimontò pari pari suo dittico di Wedekind già allestito in un unico spettacolo al Piccolo Teatro di Milano. Produzione che venne ripresa dalla televisione, ma che tuttora non compare nei cataloghi video: assenza di cui c'è da dolersi moltissimo, giacché la parte visiva era semplicemente strepitosa laddove quella unicamente audio risulta non di poco scadente.
Suo fulcro e ragion d'essere la direzione, ovviamente, che benché frenata quasi ovunque dalla mediocrità desolante dell'orchestra, si presenta lucidissima, analitica, di logica e coerenza strutturale ferree: dalle quali viene alfontanato quasi programmaticamente ogni abbandono lirico, ogni ripensamento contemplatlvo che m qualche modo rifletta anche un lontano sospetto d'umana pietà. Interpretazione legittima, e che trovava ancor più serrata dimostrazione nella logica d'uno spettacolo di geniale evidenza teatrale. E interpretazione ricca di momenti non meno che formidabili. Una Monoritmica il cui passo è straordinariamente implacabile e ossessivo, sorta di surreale allucinazione degna d'un film di Murnau. Magistrale la raggelata stilizzazione che collega l'orchestra alla Jazzband interna nell'ultima scena del prim'atto. E certo nessuno più di Boulez ha reso tutta la crudeltà, l'ironia, l'ambiguità con cui la fittissima rete di rimandi e corrispondenze musicali stringe la morte di Schön, delineandone in modo paradigmatico lo stupefacente carattere di vaudeville frenetico e sinistro.
Ma se grave è l'handicap d'un'orchestra pesante e plumbea, mortale è quello d'un cast nel suo complesso mancato.
Kenneth Riegel massacra la scrittura vocale di Alwa: il Rondò del second'atto, che richiederebbe canto estatico e dolcissimo (stilizzazione del centro immobile d'un vortice tumultuoso di spietato sarcasmo), è invece sforzato, urlato e reso sgradevolissimo, oltre che noioso, da una voce brutta soprattutto perché non ha alcuna varietà né d'accento né di colore, mentre ha invece più d'un problema con l'intonazione, requisito imprescindibile in un'opera moderna - se ancora è definibile tale un classico come questo - non meno che per cantare Don Ottavio, altra parte puntualmente vilipesa da Riegel, e per motivi del tutto analoghi.
Blankenheim era figura impressionante, specie guidato com'era da Chéreau, grazie a doti sceniche del tutto fuori dal comune: ma al solo ascolto il suo Schigolch fa soffrire parecchio. Lo stesso discorso vale per Mazura, che è scialbo e monocorde, del tutto impari a rendere con le sole risorse vocali le infinite sfaccettature su cui la parte di Schon è costrulta.
Per ricreare l'atmosfera estraniata che suscitava Tilly Wedekind come protagonista del lavoro di suo marito, grazie al «tono frigido d'un angelo indolente», Berg concepì Lulu per soprano-coloratura: così i tedeschi definiscono il soprano leggero, il quale, per una volta, anziché appropriarsi con nefasti esiti di parti scritte per tutt'altri timbri ne trova una tutta sua, che coi ghiacciati arabeschi al centro d'un universo sonoro prodigiosamente stilizzato realizza alla perfezione l'immagine che della protagonista di Wedekind diede Karl Kraus allorché scrisse che «in mezzo ai patimenti, passa e si dilegua una sonnambula dell'amore».
Soprano leggero, Teresa Stratas certamente lo è: leggerissimo, anzi, al confine con l'inconsistenza. Prive del cospicuo supporto scenico, che in qualche modo salvaguardava la logica d'una interpretazione di notevole riuscita, certe forzature evidentissime nel canto della Stratas (nel Lulu-Lied, ad esempio) si sommano a un accento querulo e petulante, anziché glaciale, astratto e stilizzato come dovrebbe essere: e la petulanza è l'antitesi di quel «sonnambulismo amoroso» che Berg, al pari se non di più di Wedekind, ha posto come chiave espressiva della sua protagonista.
Molto modeste le importantissime parti di fianco. L'unico personaggio vocalmente centrato risulta così la Geschwitz della Minton: grazie a lei le ultime battute dell'opera, la musica forse più alta che Berg abbia concepito, si stampano indelebili nella memoria.
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1983 RCA (edizione in tre atti) Julia Migenes, Brigitte Fassbaender, Theo Adam, Richard Karczykowski, Heinz Zednik, Osbar Czermenka, Kurt Rydl, Hans Hotter; direttore Lorin Maazel (dal vivo, Vienna)
Non c'è dubbio che, benché sia durato solo due anni, il periodo in cui Maazel fu a capo della Staatsoper venne scandito da diverse produzioni importanti: tra queste, particolarmente memorabile fu il ciclo dedicato a Berg in occasione delle celebrazioni (sembra ormai imprescindibile che per mettere in scena un autore, si debba celebrarne qualche ricorrenza anagrafica) per il centenario della nascita e il cinquantenario della morte, aperto dalla nuova produzione di «Lulu» data per la prima volta alla Staatsoper nella sua veste integrale col terzo atto completato da Cerha.
La produzione di Wolfgang Weber non fu di quelle destinate a lasciare traccia imperitura nella storia esecutiva dell'opera (o almeno non quanto le riconosciute pietre miliari costituite dagli spettacoli di Rodolf Noelte a Francoforte, Luc Bondy a Amburgo, Patrice Chéreau a Parigi e Milano, Jean-Pierre Ponnelle a Monaco, Daniel Schmid a Ginevra, Ruth Berghaus a Bruxelles, Peter Mussbach a Salisburgo): mentre la direzione di Maazel a mio avviso lo è.
È un dato di fatto che, in quest'opera, la struttura formale non veicola ma è il linguaggio espressivo: se dunque la regia è deputata a tradurre Sonate, Rondò Variazioni in movimenti, situazioni e rapporti reciproci, la direzione d'orchestra deve farsi carico di comunicare e quindi di rendere quanto più intelligibile le riesca la rigorosa architettura musicale. In questo, la mostruosa bravura tecnica di Maazel si trova a casa propria, riuscendo quasi a far sembrare frutti d'estro improvvisatorio la nitidezza dei contorni ritmici e delle modulazioni armoniche, la precisione posta a reggere la vorticosa motilità dinamica, la complessiva trasparenza del disegno strumentale anche nel più fitto della sua scrittura verticale, tutto però disciolto nel flusso strepitosamente luminoso d'un suono orchestrale intenso, pieno, di volta in volta carnoso e lussureggiante oppure tenue e vibratile nel più impalpabile dei sussurri.
Quasi incredibile ad esempio, come la concertazione faccia incidere dall'orchestra (orchestra favolosa d'accordo ma nondimeno guidata da souplesse almeno aitrettanto favolosa) un disegno tutto in bianco e nero, che sembra uscito dalla lucida fantasia d'uno Schiele, nel meccanico succedersi della musica da circo in apertura del terz'atto, con le sue inesauste inversioni, ripetizioni, trasposizioni che, come fascio di luce bianca passato attraverso un prisma di cristallo di rocca, si frangono in freddi e abbaglianti colori moltiplicati da un ritmo vertiginoso eppure ovunque d'immediata leggibilità. Così come portentose sono trasparenza e precisione strumentale nel Melodram che segue al primo Ensemble del terz'atto, allorché le serie musicali che fungono da cifre sonore di Alwa e della Geschwitz s'intersecano e interloquiscono, la musica facendo «vedere» due ulteriori personaggi, posti quasi a tirare le fila d'un balletto grottesco alla George Grosz.
Ma in genere tutti i ritorni musicali del terz'atto si delineano con una «leggibilità», per dir così, di sbalorditiva evidenza: dal Corale (desunto dal motivo del Principe al prim'atto ma in ultima analisi dalla serie di Alwa), che funge da cantus firmus per le dodici variazioni che reggono la prima scena del terz'atto, all'ambientazione londinese, tutta costruita su rielaborazioni una più ingegnosa e raffinata dell'altra, come l'antica Monoritmica (questo vero e proprio «tema del destino» d'incredibile pregnanza) che, virata in sordido ed estraniato ritmo di jazz, accompagna l'entrata del Negro, passando di strumento in strumento esattamente com'era accaduto durante il colloquio tra Pittore e Schön, fino al fortissimo su cui cade Alwa. Leggibilità assoluta che, per giunta viene ancor più enfatizzata dal virtuosismo dell'orchestra, la quale da parte sua fornisce a tutta la concertazione l'immediato impatto emozionale d'un suono dalla sfarzosità addirittura abbagliante: fa quasi pena, confrontare come gli ottoni viennesi esaltino l'abilità di Maazel, laddove quelli parigini sommergano con la loro polentina quella di Boulez, che a Maazel certo non è inferiore ma purtroppo arriva a sembrarlo.
A concertazione, direzione ed esecuzione strumentale di così stratosferico livello, fa riscontro un cast il cui livello nulla ha vocalmente da invidiare a quello di Dohnányi, superandolo poi - per lo meno nel caso di alcuni suoi elementi - sul piano espressivo, in virtù dei dividendi pagati da un coinvolgimento teatrale che anche al solo ascolto s'intuisce totale.
Julia Migenes non ha forse il portentoso carisma d'una Silja, ma quanto a personalità non scherza neppure lei: la voce, inoltre, piccola, agilissima, lievemente acidula in alto ma di straordinaria dolcezza nel canto a mezzavoce e negli assottigliamenti in genere, governata da musicalità alle soglie del virtuosismo strumentale, di Lulu coglie per spontanea aderenza timbrica la gioventù, di essa comunicando però non tanto - o non solo - la fragilità indifesa dell'oggetto magnetico su cui si calamita il desiderio degli altri, quanto la spietatezza feroce perché spontaneamente egoista che della giovinezza è elemento essenziale, l'accento chiaroscurato di continuo - ma in prevalenza indirizzato verso un languore ironico e di vibratile sovreccitazione - tracciando via via l'inconsistenza morale di chi sulla vita scivola danzando e, danzando, effonde ma anche consuma la propria debordante femminilità. Il solo ascolto è limitazione grave per simile complessità di fraseggio, che sulla scena certamente sarà stata valorizzata da una recitazione di cui è facile rendersi conto quanto fosse magnifica: raffigurazione comunque straordinaria, capace di dialogare quasi alla pari con un mostro di bravura quale la Silja.
Ugualmente gigantesco Theo Adam: che imprime a Schön toni di disperata, rabbiosa bramosia, con una sorta di animalesca febbre di vivere qua e là forse un tantino eccessiva, ma d'indubbia efficacia teatrale nel suo istrionismo tanto comunicativo e privo della benché minima traccia di manierato intellettualismo.
Hotter ha dato a Schigolch tratti altrettanto indimenticabili e riferibili a lui soltanto di quelli fatti assumere al suo Wotan: come riesce a far giganteggiare, nel salone del terz'atto, questa figura pur così ambigua e sfuggente che pronuncia un «Und dann, mein Kind, was dann?» intriso di molteplici e tutti sinistri risvolti, è cosa possibile solo ad artisti di classe superiore.
Voce robusta ma anche flessuosa e capace di insinuanti mezzevoci quella di Richard Karczykowski cui manca solo un pizzico in più di personaiità per essere un Alwa memorabile.
Emozionante l'intenso erotismo di cui la Fassbaender intride il canto roco e come allucinato della Geschwitz, di viscida brutalità l'Atleta di Kurt Rydl, mentre Zednik è ancora una volta caratterista formidabile, passando dai panni del Domestico rivestiti con Dohnányi a quelli ben più difficili del Pittore e del Negro, il suo doppio nell'ultimo atto. Parti minori eccellenti dalla prima all'ultima, sia per quanto riguarda la precisione musicale che l'intensità e la vivezza espressiva.