I dizionari Baldini&Castoldi

Don Carlos di Giuseppe Verdi (1813-1901)
libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle, dal poema drammatico Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller

Grand-opéra in cinque atti

Prima:
Parigi, Opéra, 11 marzo 1867 (seconda versione: Milano, Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884)

Personaggi:
Filippo II, re di Spagna (B); Don Carlo, infante di Spagna (T); Rodrigo, marchese di Posa (Bar); il grande Inquisitore (B); un frate (B); Elisabetta di Valois (S); Tebaldo, suo paggio (S); la principessa Eboli (Ms); il conte di Lerma (T); la contessa d’Aremberg (m); l’araldo reale (T); sei deputati fiamminghi (B); sei inquisitori (B); signori e dame delle corti di Francia e Spagna, boscaioli, popolo, paggi, guardie di Enrico II e di Filippo II, frati, soldati



Opera fra le più sofferte ed elaborate nell’intero percorso creativo verdiano, Don Carlos offre ancor oggi spunti di discussione e perfino di polemica soprattutto a causa delle due versioni allestite dall’autore, una in cinque atti per l’Opéra di Parigi – conforme pertanto alle consuetudini spettacolari del grand-opéra francese –, l’altra in quattro, con tagli sensibili e dolorosi, per i palcoscenici italiani. Critica ed esecutori sono divisi nell’appoggiare l’una o l’altra partitura, ma certo l’edizione in quattro atti in lingua italiana ha finora goduto di una larga preferenza, anche a ragione della sua maggiore sintesi e delle minori difficoltà d’allestimento. Grazie alla recente edizione critica, stabilita da Ursula Günther e pubblicata da casa Ricordi, è stata inoltre documentata l’abbondante quantità di musica (ben otto pezzi) che Verdi stesso ebbe a sopprimere avanti la première parigina: alcune di queste pagine furono ripresentate nell’edizione scaligera del 1977 diretta da Claudio Abbado, ma in lingua italiana. Successivamente lo stesso Abbado, con le masse artistiche del Teatro alla Scala, incise su disco la versione in cinque atti in francese, lasciando in appendice le parti soppresse da Verdi e il gran ballo della Peregrina. È questa, a tutt’oggi, l’edizione più completa che si conosca del Don Carlos . Tuttavia, è ormai largamente diffusa nella pratica teatrale anche l’ulteriore versione preparata da Verdi nel 1886, in cinque atti come quella originale, ma in italiano e senza i ballabili.

La complessa realtà delle tante redazioni autografe (almeno cinque in tutto, contando la partitura della prova generale all’Opéra, quella della ‘prima’, quella napoletana del 1872 e le due diverse edizioni pubblicate da Ricordi, in quattro e in cinque atti) ha inciso per molti anni anche sulla fortuna esecutiva dell’opera, che non sempre ha trovato grande attenzione fra il pubblico e gli interpreti. Giudicato a lungo come un lavoro troppo tortuoso, prolisso, gravato di un’atmosfera opprimente, il Don Carlos ha cominciato a imporsi davvero come uno dei massimi conseguimenti dell’arte di Verdi soltanto a partire da questo secondo dopoguerra, nel quale ha trovato grandi direttori d’orchestra capaci d’imporlo al pubblico e di conquistare quella «penetrazione musicale e drammatica» (Budden) che è la condizione essenziale per garantire un’immagine autorevole e fedele dei significati dell’opera. Fra i principali artefici della sua rinascita, si debbono citare almeno i nomi di Herbert von Karajan, Carlo Maria Giulini, Georg Solti e soprattutto Claudio Abbado, senza tralasciare il decisivo contributo dato con le sue due regie dell’opera (Londra e Roma) da una personalità artistica della statura di Luchino Visconti.

Atto primo . 1568, anno del trattato di pace fra Spagna e Francia. Nella foresta di Fontainebleau alcuni boscaioli tagliano legna; giunge Elisabetta di Valois (figlia del re francese Enrico II) in compagnia del paggioTebaldo e di un seguito di cacciatori. Nel frattempo Don Carlo, figlio del re di Spagna Filippo II, osserva nascosto il passaggio della principessa, che egli crede a lui destinata in sposa come sigillo della pace fra le due nazioni. Rimasto solo in scena, l’infante esprime il suo amore a prima vista per «la bella fidanzata», e invoca la benedizione di Dio sui suoi casti sentimenti (“Io la vidi e al suo sorriso”). S’ode in distanza il suono del corno e quindi Carlo incontra Elisabetta eTebaldo, che si sono smarriti nella foresta; Carlo si presenta come un nobile spagnolo al seguito dell’ambasciatore e offre alla principessa la sua protezione. Rimasti soli, i due giovani conversano dell’imminente pace e del matrimonio: Elisabetta chiede come sia il suo ancora sconosciuto promesso sposo e Carlo l’assicura che l’infante già arde d’amore per lei. Quindi le porge un ritratto e Elisabetta comprende d’essere al cospetto del suo fidanzato, che le dichiara il suo amore (duetto “Di qual amor, di quant’ardor”). S’ode il suono del cannone che annuncia la firma del trattato di pace, e poco dopo rientra Tebaldo, che s’inginocchia davanti a Elisabetta salutandola regina di Spagna: Filippo II ha infatti deciso di sposare la giovane principessa. Nel generale tripudio, i due innamorati vedono infranti i loro sogni e si separano straziati dal destino crudele che li ha visti pedine inconsapevoli nel gioco dei potenti (“L’ora fatale è suonata”).

Atto secondo . Quadro primo . Nel chiostro del convento di San Giusto, laddove Carlo V ha la sua tomba, un coro difrati celebra la pochezza umana e la fragilità dei potenti in confronto all’eterna grandezza di Dio; sopraggiunge Don Carlo, che cerca nel chiostro quiete alle sue pene. Gli si avanza incontro l’amico Rodrigo, marchese di Posa, e cerca d’impegnare l’infante nella difesa dell’oppresso popolo fiammingo; chiede tuttavia ragione del turbamento del principe e apprende con orrore che egli ama colei che è diventata la sua matrigna. Lo sprona allora a farsi inviare dal re nelle Fiandre, e a coltivare il supremo valore dell’amicizia e della libertà (duetto “Dio che nell’alma infondere”). L’improvviso passaggio del re e della regina getta tuttavia Carlo nello sconforto. Quadro secondo . In un giardino non lontano dal convento di San Giusto, le dame e Tebaldo fanno ala alla principessa Eboli, che canta una canzone saracena, la ‘canzone del velo’. Entra Elisabetta, e a lei si presenta Rodrigo con una lettera di Carlo. Mentre la regina legge turbata, Rodrigo cerca di distrarre Eboli e le altre dame con le ultime notizie dalla corte di Francia, e quindi implora Elisabetta di incontrare l’infante (“Carlo, ch’è sol il nostro amore”). Carlo giunge al cospetto d’Elisabetta nella massima agitazione: ella gli assicura il suo appoggio per il viaggio in Fiandra, ma Carlo le rinnova le sue disperate profferte d’amore e quindi fugge. All’improvviso entra Filippo che, trovando la regina sola, caccia dalla corte la dama di compagnia, la contessa d’Aremberg. Elisabetta consola l’amica (“Non pianger mia compagna”) e si congeda dal consorte. Filippo rimane a colloquio con Rodrigo, che chiede al re libertà per il popolo fiammingo, accusandolo d’imporre ai suoi stati «la pace dei sepolcri». Filippo fingerà di non aver ascoltato la provocazione, ma mette in guardia Rodrigo dal grande Inquisitore e cerca d’avere il marchese alleato al suo fianco, confidandogli il suo atroce sospetto nei confronti di Carlo e della regina.

Atto terzo . Quadro primo . Nei giardini della regina, di notte. Carlo crede d’esser stato convocato a un appuntamento da Elisabetta: la missiva anonima è invece di Eboli, innamorata del principe, che giunge e che, per qualche istante, Carlo crede la regina: quando la luce lunare rivela la vera identità della convenuta, Eboli comprende quale amore proibito l’infante porti in cuore, e lo minaccia. Arriva Rodrigo, che sta quasi per uccidere la furibonda Eboli (terzetto “Trema per te falso figliuolo”). Rimasto solo con Don Carlo, l’invita a confidare nel suo aiuto e nella sua fedeltà. Quadro secondo . Nella grande piazza davanti alla cattedrale di Valladolid il popolo si prepara ad assistere alla cerimonia dell’autodafé. Quando il re sta per dare inizio al rito, sopraggiunge Carlo alla testa di sei deputati fiamminghi per chiedere al padre d’esser nominato viceré di Fiandra e Brabante. Al rifiuto di Filippo, Carlo snuda la spada e giura di salvare dalla tirannia il popolo fiammingo. Filippo ordina che si disarmi l’infante, ma nessuno osa avvicinarsi. Solo Rodrigo osa togliere la spada a Carlo, che si sente tradito dall’amico; il rito riprende con gli eretici condotti al rogo dai frati dell’Inquisizione.

Atto quarto . Quadro primo . Filippo insonne è solo nel suo studio: medita sulla sua solitudine, sul suo amore non corrisposto per la regina, e invoca l’ora della morte (“Ella giammai m’amò”). Fa quindi il suo ingresso il grande Inquisitore, terribile cieco ottuagenario. Il re l’ha convocato per aver consiglio su come punire l’infante, e l’Inquisitore pretende dal monarca la testa di Carlo e anche quella di Posa, lasciando così il trono per l’ennesima volta succube dell’altare. È poi la regina a entrare nella stanza di Filippo, invocando giustizia: il suo scrigno personale è stato rubato. Il portagioie è però in mano dello stesso Filippo, che aprendolo vede il ritratto di Carlo e accusa la moglie d’adulterio. Elisabetta sviene e Eboli viene chiamata a soccorrerla. Filippo esce allora accompagnato da Rodrigo e la principessa, rimasta sola con la regina, le chiede perdono per averla tradita e aver consegnato al re lo scrigno. Le confessa d’averlo fatto per amore di Carlo, ed Elisabetta la costringe all’esilio. Disperata, Eboli maledice la propria vanità muliebre (“O Don fatale”). Quadro secondo . Incarcerato, Carlo riceve la visita di Rodrigo che gli porta la speranza di libertà e il suo addio. Sa infatti d’essere preda del grande Inquisitore (“Per me giunto è il dì supremo”). All’improvviso, infatti, un colpo d’archibugio uccide Rodrigo, che prima di morire raccomanda all’amico di recarsi l’indomani a San Giusto per un ultimo colloquio con la madre. S’ode il fragore d’una sommossa, e Filippo giunge in carcere a restituire al figlio la libertà. Carlo maledice il padre e l’accusa della morte di Rodrigo, sul cui cadavere il re lamenta invece la perdita d’un amico. Frattanto il popolo preme alle porte della prigione per la libertà di Don Carlo, e Filippo ordina che si lascino entrare i rivoltosi: questi si fermano tuttavia di fronte all’apparizione terrificante del grande Inquisitore, che intima a tutti di prostrarsi davanti all’autorità regia.

Atto quinto . La scena del secondo atto, nel chiostro del convento di San Giusto. Eisabetta prega sulla tomba di Carlo V (“Tu che le vanità conoscesti del mondo”) e, nell’attendere l’arrivo di Don Carlo colà convocato, ricorda il dolce incontro con l’infante nella foresta di Fontainebleau e piange la perduta felicità, aspirando solo alla «pace dell’avel». Giunge quindi Carlo, e la regina gli comunica d’averlo voluto incontrare solo per dirgli addio e benedirlo prima della fuga in Fiandra. Con grande strazio i due si congedano, ma proprio in quel punto sono sorpresi da Filippo e dal grande Inquisitore. Il re consegna Carlo ai frati del Sant’Uffizio: mentre l’infante indietreggia verso la tomba, s’apre il cancello di questa e il frate, in abito di Carlo V, trascina con sé nelle profondità della cripta Don Carlo (questa conclusione repentina, raggiunta da Verdi soltanto nella versione in quattro atti del 1884, era preceduta nella versione originale francese da una sorta di processo sommario a Carlo, giudizio poi interrotto dall’apparizione del frate come fantasma del defunto imperatore. Ricordiamo inoltre che nell’edizione in quattro atti viene soppresso per intero ‘l’atto di Fontainebleau’).

Con Don Carlos Verdi s’accostò per la quarta e ultima volta a un dramma di Schiller, il poeta che condivide con Hugo e Shakespeare il primato fra gli autori prediletti dal musicista. A differenza di quanto era accaduto con Giovanna d’Arco , I masnadieri e Luisa Miller , Verdi si mantenne qui ben altrimenti fedele allo spirito del dramma schilleriano, pur sottoponendolo a innumerevoli cambiamenti. Tra i più importanti, si deve registrare la soppressione (per motivi d’economia) dei personaggi del duca d’Alba e di frate Domingo, nonché l’inserzione d’una grande scena corale e spettacolare come quella dell’autodafé che chiude il terzo atto, epressamente richiesta da Verdi ai suoi librettisti francesi fin dalle primissime lettere scambiate fra le parti in merito all’ipotesi di musicare Don Carlos . Rimane tuttavia intatto, come s’accennava, lo spirito che presiede al fluviale lavoro del poeta tedesco: in particolare, Verdi fu attratto dalla tesi politica d’una impossibile alleanza fra l’assolutismo e il liberalismo (incarnati rispettivamente nelle figure di Filippo e di Posa). Per questo, dalle varie dichiarazioni di Verdi, risulta ben chiaro che il re di Spagna è il vero protagonista dell’opera. Anche l’amore impossibile fra la regina e l’infante, peraltro, entrambi vittime della ragion di stato, fece facile breccia nella sensibilità del compositore, che in quel medesimo periodo stava tra l’altro accarezzando l’idea di mettere in musica una Fedra : il tema quasi psicanalitico delle due vicende di eros frustrato è palesemente simile.

Immediatamente dopo la ‘prima’ parigina, all’opera furono mosse critiche ingiuste e impietose: Verdi fu accusato soprattutto di povertà melodica e di muoversi in una pericolosa direzione wagneriana. Certo, tutti furono colpiti dal clima morboso che s’aggira nel Don Carlos , dalle sue armonie moderne e dalla concezione sempre più affrancata dalla struttura tradizionale in pezzi chiusi. In realtà, la drammaturgia verdiana seguiva fedelmente la propria strada: sarebbe infatti impossibile immaginare le soluzioni del Don Carlos senza la decisiva sperimentazione attuata nella Forza del destino , con la sua dilatazione temporale e l’ambiziosa tendenza a tradurre in opera lirica il modello narrativo dei Promessi sposi manzoniani. Al di là dei penetranti ritratti psicologici di cui il Don Carlos è portatore, una delle conquiste più singolari di questo lavoro così singolare è la trasformazione del modello vetusto del grand-opéra in vera opera: Verdi è riuscito a non lasciarsi condizionare dagli obblighi spettacolari di quel genere, sfruttando per contro quell’espansione e quella contaminazione dispersiva delle forme ai fini d’una complessa, sottile, veemente adesione ai mille problemi sollevati dalla scelta d’un dramma che certo non aveva in partenza le doti di sintesi e d’agilità scenica tanto care al Verdi degli anni immediatamente precedenti. Non a caso, Don Carlos è imparentato assai più al prototipo del grand-opéra , lo schilleriano GuillaumeTell di Rossini, che non ai Vêpres siciliennes dello stesso Verdi, rispetto ai quali la sintesi fra opera francese e melodramma italiano è assai più felice e risolta. Il progresso sta dunque – oltre che nei supremi vertici raggiunti dalla sua ispirazione – nell’impiego di uno stile francese finalmente senza pregiudizi o diffidenze, ma anche senza che Verdi rinnegasse mai la propria natura. Il musicista ebbe d’altronde – anche se solo di sfuggita – a riconoscere la superiorità del testo francese rispetto alle traduzioni italiane: il modellato del canto, la sua tensione verso il declamato, le sottigliezze della fusione fra prosodia e melodia, fanno del Don Carlos il capolavoro assoluto nel genere del grand-opéra , genere giunto ormai alla fase del suo fisiologico crepuscolo. Lo stile di Verdi non è mai stato altrettanto ‘sovranazionale’, ed è per questo che l’opera trae ogni profitto dall’esecuzione nella lingua in cui fu composta. Se si osserva con attenzione il libretto originale di Du Locle e Méry, si potrà avere immediatamente chiaro come l’adesione a Schiller, e la forza drammatica che scaturisce dalla resa del contrasto politico, vi siano espressi con ben altra penetrazione rispetto alla pur dignitosa traduzione di Lauzières e Zanardini.

È un peccato che Verdi abbia sacrificato alcune delle più belle pagine di quest’opera per fare uscire i parigini dal teatro una manciata di minuti prima: fra quelle, ad esempio, il coro introduttivo dei boscaioli nella foresta di Fontainebleau portava in orchestra un motivo caratterizzato da un’acciaccatura di semitono che nel corso dell’opera si rivela come una sorta d’ idée fixe , un rovello a cui soggiacciono tutti i caratteri del dramma. In quel rovello, in quell’instabilità cromatica dell’armonia, sta la peculiarità stilistica più autentica del Don Carlos , ed è la pura traduzione in termini musicali dell’opprimente atmosfera tratteggiata da Schiller col ricorso alla libera ricostruzione storica di un’epoca fra le più sinistre, quella dell’inquisizione. Quel clima ha indotto alcuni commentatori a parlare di un’inclinazione di Verdi verso la nascente sensibilità del decadentismo, rappresentata con qualche goffaggine in Italia dalla Scapigliatura. In realtà, è sufficiente osservare le scelte di Verdi alla luce delle esigenze drammaturgiche per avvertire che il colore tenebroso e maladif dell’opera ben poco ha a che vedere con quel gusto, ed è anzi retto e guidato costantemente dalla forza morale di un artista che, pur nella costante evoluzione del proprio linguaggio, riesce a non tradire mai se stesso.

a.b.
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