CRONOLOGIA DI

«DON CARLOS»

Brani tratti dalla biografia di

Gustavo Marchesi

VERDI

UTET, Torino 1970

1865

Il 21 aprile si rappresenta al Théâtre Lyrique-Impérial di Parigi un'edizione «riformata» di «Macbeth». Nell'autunno del 1865, si reca a Parigi per discutere una proposta francese relativa all'esecuzione de «La forza del destino» revisionata. Non si arriva ad alcuna conclusione in quanto Verdi e l'Opéra non si trovano d'accordo su varie questioni, ma Verdi accetta di scrivere un'opera nuova per l'Esposízione di Parigi del 1867. I soggetti presi in esame comprendono anche il «Re Lear»: sebbene abbia meditato seriamente di ritornare a questo soggetto, e ne scrive in proposito a Léon Escudier, alla fine rinuncia all'idea dicendo che è magnifica, ma poco spettacolare per la sensibilità parigina. Si decide infine per un soggetto tratto dal «Don Carlos» di Schiller. Un anziano librettista, Joseph Méry ha l'incarico dell'adattamento del dramma di Schiller, ma muore prima di terminare il lavoro. A completare il libretto è chiamato Camille Du Locle.
1866 
Freschi di buone esperienze i due tornano a casa in primavera. Verdi ha in tasca il contratto dell'Opéra e ritiene di poter lavorare a Sant'Agata; ma non è tempo di pace; la terza guerra con l'Austria diventa, ogni giorno di più, una realtà. «M'aspetto da un momento all'altro» scrive in maggio a Escudier «di sentire il cannone, ed io sono qui così vicino ai campi d'armata, che non mi sorprenderebbe di vedere qualche palla rotolare un bel mattino nella mia stanza. La guerra è inevitabile. Le cose sono spinte a un punto tale, che se anche tutto il mondo non la volesse, la vorremmo noi. Le masse non si tengono più; ciò non e più in potere manco del Re, e sarà quel che sarà, ma la guerra bisogna farla». E poi subito dopo a Tito Ricordi, che gli aveva offerto ospitalità nella sua villa di Corno: «I concentramenti di truppe che si fanno ímponentissimi sul Po, fanno presagire che la pace, solo vantaggio che si gode in questo deserto, può da un momento all'altro essere turbata. Nulla importerebbe in altro momento in cui fossi padrone del mio tempo, ma con un contratto ad epoca fissa, io non posso occuparmi che di queste maledette note. Non sarà quindi difficile che se i tempi ingrossano, ed io dovessi essere troppo distratto, non faccia fagotto prima del tempo. Io ti ringrazio unitamente alla Peppina della tua offerta, ma qualora mi muova da Sant'Agata sarà per andar difilato a Parigi, dove mi fermerò finché abbia dato il D. Carlos». Siamo dunque nel mezzo del '66.
[...] Malgrado i molti punti esclamativi, la terra gli scotta sotto i piedi; non gli piacerebbe di veder soldati dalle sue parti; stavolta scapperebbe come un profugo. Il tempo è passato anche per lui; ha messo su casa, gli interessi sono aumentati, il conflitto non gli porterebbe che guasti e rovina ai campi e alle cose. In modo assai goffo chiede consiglio all'amico sul da farsi, ma le decisioni sono già prese: come potrebbe rinunciare alle laute prebende dell'Opéra? Il nostro eroe del '48 è tramontato per sempre.
«Sia dunque guerra; e sia la benvenuta! Voi conoscete lo spirito di questa località, ma a dir il vero i soldati partono abbastanza volentieri». [...] Verdi, che era figlio della campagna, avrebbe dovuto in sostanza sapere che se lo spirito d'avventura fosse tornato di moda, sarebbe servito come eccitante per i disperati e non certo per quelle classi di lavoratori che, dalle guerre di liberazione, avevano atteso un rinnovamento sociale. Nella muraglia eroica verdiana si aprono le fenditure di un palese anacronismo. E continua (richiamandosi alle tamburellate della Forza e alle prediche ambigue di Melitone): «Vi sono i pianti delle madri e delle giovani spose, i lamenti dei papà e degli agricoltori, a cui si levano le braccia più robuste, ma infine le cose vanno meglio di quanto si credeva. In quanto ai preti posso dirvi che il loro contegno e abbastanza convenevole. Non osano mostrarsi ostili. P, certo però che se vedessero la punta del naso di un tedesco gli andrebbero incontro, con ostensorio, turibolo e sacramento!!... Se vi e guerra io sono proprio al primi posti, e converrà far fagotto perché è certo che io sarei preso di mira non tanto dai Tedeschi quanto dai preti... Io lavoro ed e grande quello che mi resta a fare, ma sono un po' distratto. Eppure bisognerà venirne a capo». «Cosa fa la diplomazia? Quando l'attacco? Se i Tedeschi sortono, S. Agata sarebbe un brutto.... né io ho volontà di vedere quei musi».
Il seguito è una serie di tentennamenti che riportano a galla, con qualche aggravante, le debolezze già rilevate in quella lettera alla Maffei, del '59, quando elogiava il valore di Montanelli: «E dire che da qui un mese bisognerebbe che andassi a Parigi! ». «Andrò pel momento a Genova, e vi resterò fino all'ultimo, ultimissimo momento in cui devo o dovrei partire per Parigi. Dico dovrei perché il lasciare l'Italia in questo momento mi pesa come un rìmorso. È ben vero che io non ho età né braccio per andare alla guerra; non ho testa per dar consigli, io in fine non son buono a nulla, ma pure sarei stato qui, mì sarei dimenato, avrei fatto quel po' di bene che avrei potuto, ed avrei come tanti altri goduto e sofferto co' miei. Se l'Opera di Parigi appartenesse come in passato alla Maison de l'Empereur io scriverei al Ministro pregandolo di lasciarmi per ora in Italia. Il Ministro me lo avrebbe forse concesso, in ogni modo la Maison de l'Empereur non m'avrebbe fatto un processo. Ma ora che l'Opéra è nelle mani di un Entrepreneur il processo sarebbe molto probabile se restassi quì. Che ne dite voi? Cosa fareste al mio posto? ».
L'opera nasce con lo spettro delle distruzioni, nel timore di una paralisi deglì affari, come dice all'Escudier il 18 giugno: «Voi non avete capito la mia ultima lettera o avete fatto il sordo. Voi avete detto a Monsieur Perrin che a ragione della guerra che va a scoppiare da noi io arriverò più presto a Parigi. Al contrario, io vi scriveva che precisamente perché avremo guerra io ero dolentissimo di abbandonare l'Italia. Questo ho detto; questo vi ripeto; ed anzi vi prego di andare da Mr. Perrin a dirgli che io gli dimando in grazia dì lasciare che io resti in Italia più del tempo che si era fissato. Del resto s'io venissi ora a Parigi credo che non finirei più l'opera... Insomma quest'opera e in mezzo a fuoco e fiamme, e fra tante agitazioni o riescirà meglio delle altre, o sara una cosa orribile... Mi raccomando a voi, e siate buon oratore ... ».
Ma quello che fa ancora balzare il maestro, che riporta nelle sue lettere fiammate di spontanea ribellione e una sorta di furore per cui - almeno a parole - prenderebbe a calci il mondo, è la questione dell'onore, della dignità offesa. La guerra, come è noto, sì spense nel grigíore delle sconfitte italiane e con l'acquisto del Veneto soltanto per intercessione dell'imperatore Napoleone; restavano ancora senza soluzioni i problemi del Trentìno e di Roma. Noi non avevamo vinto nulla; avevamo speso troppo e pagato col sangue un premio di consolazione. [...] In luglio, al momento in cui il Veneto era ceduto alla Francia e si ignorava quali sarebbero state le decisioni di Napoleone, sfodera la sua indignazione con Escudier: «Da jeri sono a Genova, ed appena arrivato qui leggo nei gíornali cosa che mi mette nella più grande desolazione. L'Austria cede la Venezia all'Imperatore dei Francesi?!!! È egli possíbile? E cosa ne farà l'Imperatore? La riterrà? La vorra dare a noi? Ma noi non possiamo accettarla e spero che i nostri ministrí rifiuteranno. Voi non ci dovete niente e noi non vogliamo niente. Voi che siete tanto suscettibili in fatto d'onore, capirete e rispetterete questo sentimento negli altri... E Parigi fa illuminazioni!! No, no, la pace non è fatta e non può farsi in quel modo... Avvertite Mr. Perrin che io non scrìvo, che non posso scrivere, e che non saprei come fare a fare una nota. Sono ammalato mille volte».
E che sia in questa condizione lo dimostra la lettera seguente: «Sono passati sette giorni dalla nota fatale del «Moniteur» ed ora le ire sono più calme, ma la ragione, inesorabile più di prima, ci fa veder ben chiara la nostra situazione che è orribile, esternamente e internamente... Per noi, ripeto, la situazione e tristissima, e non vi è che una vittoria di Cialdini che ci possa salvare ; ma anche questa diventa impossibfle, se gli austriaci continuano, come hanno fatto a Rovigo, a ritirarsi facendo prima saltare i forti ed incendiando e saccheggiando la citta». Per Verdi la Francia è responsabile di connivenza con l'Impero asburgico: certi assurdi intrallazzi Politici rischiano a parer suo di mantenere in vita la vergogna d'Europa. E in ciò lo stile battagliero del compositore trova un appiglio: «Incendiare, saccbeggiare! ecco la missione civilizzatrice di questa nazione, che si vuol sostenere ad ogni costo! Vedete che il quadro non è bello e l'avvenire si presenta ben nero! In questo stato di cose, come volete che io mi senta l'animo di venire a Parigi? Nelle piccole come nelle grandi cose e sempre bene risolvere. La soluzione in questo caso non può essere che una: lo scioglimento del contratto coll'Opera. Domandatelo a Mr. Perrin e se egli ve lo concede, io lo riterrò come un favore di cui sarò gratissimo...». Ma poi sembra un po' infastidito della sua patriottica precipitazione e domanda con ansia a Piroli: «Ho fatto bene o male? E se lo scioglimento non viene accordato cosa fare? Scrivetemi e datemi una parola di consiglio. Ma fatelo subito, prima che m'arrivi la risposta di Parigi ».
A Parigi rispondono picche e il maestro sembra affrontare il supplizio della gogna: «Non hanno accettato a Parigi la mia proposta ed io partirò stassera ed arriverò cola martedì». E aggiunge sull'andamento della gloriosa campagna d'Italia: «Non vi parlo delle cose nostre che son troppo tristi. Anche questa flotta ha fatta la malaprova! E pareva che il fumo solo dei nostri vapori dovesse disperdere la flotta nemica [a Lissa]. Qui c'è molto malcontento e si parla assai male. Oh! l'avvenire sarà ben brutto». Una volta a Parigi, però, il buon umore ritorna; in fondo Parigi è un gran Lete anche se « tutto si riduce ad una vita materiale e grossolanamente materíale» come diceva la Peppina; i due coniugi passano anche un allegro periodo alle terme di Cauterets: «Vi è ancora molta gente» scrive Verdi a Escudier il 20 agosto «perché la stagione è buona e fa caldo; ed è sì vero che io stamattina mi son levato di dosso tutta la lana che aveva a Parigi... Domani comincerò a bever di queste acque miracolose come mi ha detto la donna che ci ha servito colazione. [...]»
Non parlano più,dì guerra, le loro condizioni economiche sono in sostanza fioridissime e l'avvenire non dovrebbe destare preoccupazioni. Si sono lasciati alle spalle un magnifico appartamento a Genova, a Palazzo Sauli, che Mariani s'incarica di ammobiliare. Intanto il maestro non dimentica di lanciare messaggi al fattore di Sant'Agata, perche l'azienda cammini. Si capisce da questi biglietti che la riconciliazione col padre è ormai avvenuta (Carlo vive con una vecchia sorella e con una nipotina, Filomena, che diventerà la figlia adottiva dei Verdi): «Fate tagliare le pioppe che credete necessarie a fare legnami per fabbricare... Andate da mio padre che saluterete e direte che, in quanto a soddisfare la Landriani [la maestra del paese], non ci pensi. Prima di partire io feci parlare alla medesima per ístruire la Filomena, e gli dissi che io avrei pagato i mensili al mio ritorno... [...]»
La Peppina però stavolta freme per abbandonare la città, il lavoro, le sfuriate di Verdi a teatro e se ne lamenta con il Corticelli. Brucia dall'impazienza di tornare a Genova e mettere in ordine e godere l'appartamento, mentre all'Opéra l'allestimento del «Don Carlos» cammina con la maggior lentezza, fra discussioni oziose (per esempio se un cantante debba alzare un dito o tutta la mano). «Gesu'!» scrive la Peppina «che punizione dei peccati commessi e per un compositore la messa in scena di uno spartito in quei teatro colle macchine di marmo e di piombo».
  1867 
A metà gennaio, improvvisamente, il padre Carlo muore; troviamo segni del dolore di Verdi in una lettera all'Arrivabene del febbraio 1867: «Oh certo avrei voluto chiudere gli occhi a quel povero vecchio, e sarebbe stato un sollievo per Lui e per me! Ora sospiro il momento di ritornare a casa per vedere come son trattate quelle due povere creature rimaste; una vecchia di 85 anni ed una bambína di 7. Immaginati! Nelle mani di due domestici che si può dire ora son padroni di casa!». La Peppína completa il necrologio con una lettera ancora a Corticelli, dove mette a punto la verità dei rapporti col vecchio parente: «Il padre di Verdi, ottuagenario ed ammalato da quattro anni, finì di penare e rese l'anima a Dio la notte del 14 corrente! Per quanto l'età e la malattia facessero prevedere prossima la sua fine, pure il declino e la morte furono così rapidi da aumentare, se è possibile, il dolore di questa perdita. Verdi ne è addoloratissimo, ed io, ad onta che abbia vissuto pochissimo con lui, e fossimo agli antipodi nel modo di pensare, ne sento vivissimo rammarico e forse tanto vivo quanto quello di Verdi. Povero vecchio! Dio abbia misericordia di lui e lo benedica con noi, nell'eternità».

I Verdi si trattengono altri due mesi a Parigi; l'11 la faticosa opera va in scena, con un successo modesto; il giorno dopo l'autore e la signora fanno le valige per Genova. I soli, unici difensori del maestro furono due letterati, Jules Claretie sul «Figaro» e Théophile Gautier sul «Moniteur». Diceva il Claretíe: «Ecco un uomo ricco, onorato, glorioso, che non ha più nulla da attendere dalla sua arte, se non nuove fatiche, vaneggiamenti, corone acquistate a caro prezzo, trionfi pagati con dolori, insonnie, impeti di sdegno. Egli ha ottantamila lire di rendita; il suo nome è stato per la patria un segnale di libertà; questo artista ha seduto in Parlamento, lo si e portato in trionfo sul teatro, acclamato, applaudito, abbracciato. Che vuole egli di più? Che cosa vuole! Santa passione del bello! Egli ti porta nel suo cuore... Egli vuole far meglio... Egli va, prosegue, lotta, lavora ...»

E Gautier: «Alla prima rappresentazione la musica del «Don Carlos» ha sorpreso il pubblico più che non l'abbia dilettato; la forza dominatrice che forma il fondo del genio di Verdi apparisce qui nella potente semplicità che ha reso popolare e universale il maestro parmigiano, ma sostenuta da uno sviluppo straordinario di mezzi armonici, di sonorítà ricercate e di forme melodiche nuove». La critica musicale avanza invece sciocche insinuazioni sull'aggiornamento dell'operista italiano; quanto al successo di pubblico, pare che il soggetto, e specialmente il duetto fra l'Inquisitore e Filippo, abbia turbato la cattolicissìma imperatrice. Verdi cova tutto il proprio risentimento; l'Opéra e i parigini sono per lui una pietra dello scandalo, in fatto di musica. E quando in giugno «Don Carlos» trionfa a Londra sotto la direzione di Costa (interpreti Paolina Lucca, la Fricci, Naudin, Graziani, Petit e Bagaggiolo), egli prende l'Escudier per il bavero e lo strapazza: «Dunque è un successo quello di Londra? E se è così, cosa diranno quelli dell'Opéra vedendo che si monta uno spartito a Londra in 40 giorni, quando per loro sono necessari quattro mesi?!... Ciò potrà sembrare strano a Parigi, ma io mi immagino l'effetto che può produrre il terzetto eseguito da tre che abbiano il ritmo. Oh, il ritmo è lettera morta per gli esecutori dell'Opéra. Due cose mancheranno sempre all'Opéra il ritmo e l'entusiasmo. Ma la colpa è un po' di voi altri Francesí, che mettete dei ceppi ai piedi degli artisti col vostro bon goût... comme il faut, ecc., ecc. ... Lasciate alle arti libertà completa, e tollerate difetti nelle cose d'ispirazione. Se spaventate l'uomo di genio con la critica compassata e meschina, egli non s'abbandonera mai, e gli toglierete il naturale e l'entusiasmo».
Bisogna però aspettare il 27 ottobre del '67, l'esecuzione di Bologna col «Don Carlos» tradotto in italiano (come «Don Carlo»), per vedere la critica lavorare di gomito a cancellare l'impressione che fosse di Verdi la colpa d'aver macchiato l'altare musicale italíco. Ghislanzoni sulla «Gazzetta Musicale» e Filippi sulla «Perseveranza» aprono il coro di lodi. Ma lodi a chi? Al direttore Marianí, che comincia la scalata verso la gloria e inaugura in Italia il fenomeno del concertatore; e ai cantanti, Teresina Stolz, Antonietta Fricci. Giorgio Stigelli, Luigi Rossi, Giovanna Capponi e il giovane astro Antonio Cotogni. Filippi esaltava la «magia» di Marianí, capace di comporre «un altro 'Don Carlos' nel 'Don Carlos' di Verdi».
E Verdi lascia dire: intanto il prodotto va, si lasci il merito a chi spetta. Gli preme soltanto che l'Escudier riceva, nuovamente, la sua razione di rimproveri, girabili, s'intende, all'Opéra: «Pare che a Bologna il «Don Carlos» abbia avuto un grandissimo successo. Tutti dicono che l'esecuzione è meravígliosa e che vi sono degli effetti potentissimi. Non posso fare a meno di fare delle riflessioni; qui, non è ancora un mese che si prova e si ottengono grandi effetti; all'Opéra si prova otto mesi e si finisce ad ottenere un'esecuzione senza sangue ed agghiacciata. Vedete se ho ragione di dire che una mano sola, sicura, potente può fare miracoli! L'avete visto con Costa a Londra, lo vedete maggiormente con Mariani a Bologna. L'Opéra non si persuaderà mai che le sue esecuzioni dal lato musicale sono meno che mediocri? E non crederanno mai che c'è bisogno d'una riforma e d'una direzione musicale forte, potente ed Una?».
Comunque, alla prima occasione, trattando con Giulio Ricordi, nel '71, il significato del direttore d'orchestra, si prende la sua rivincita sulle esagerazioni di Filippi, sottolineando quella fedeltà al testo scritto che ricorda così da vicino il credo di Toscanini: «Questo [della cosiddetta interpretazione] è un principio che condusse addirittura al barocco ed al falso l'arte musicale alla fine del secolo passato, e nei primi di questo, quando i cantanti si permettevano creare (come dicono ancora i Francesi) le loro parti, e farvi in conseguenza ogni sorta di pasticci e controsensi. No: io voglio solo un creatore, e mi accontento che si eseguisca semplicemente ed esattamente quello che è scritto: il male sta, che non si eseguisce mai quello che è scritto!... Io non posso ammettere, né nei cantanti, ne nei direttori la facoltà di creare, come dissi prima, è un principio che conduce all'abisso. Volete un esempio? Voi mi citaste altra volta, con lode, un effetto che Mariani traeva dalla Sinfonia della «Forza del Destino» facendo entrare gli ottoni in sol, con un fortissimo. Ebbene: io disapprovo quest'effetto. Quelli ottoni a mezza voce, nel mio concetto, dovevano, anzi non potevano esprimere che il Canto religioso del Frate. Il fortissimo di Mariani altera completamente il carattere, e quello squarcio diventa una fanfara guerriera; cosa che non ha nulla a che fate col soggetto del Dramma, in cui la parte guerresca e tutt'affatto episodica. Ed eccoci sulla strada del barocco e del falso».
Quanto al valore dell'opera, nel giudizio del compositore stesso, ci sembra sufficiente riportare due lettere, una sempre del '71, a De Sanctis (che racconta il fiasco del «Don Carlos» a Napoli), e l'altra a Giulio Ricordi, nell'83, quando il dramma viene chiesto dalla Scala. A De Sanctis: «Il fiasco doveva essere ed è stato... E non m'ha sorpreso. Se fosse avvenuto altrimenti sarei stato un poco dérouté: così mi confermo sempre più nelle mie opinioni, che finché voialtri avrete quegli elementi d'esecuzione, non dovete far rappresentare le Opere che richieggono mise en scène caratteristica, ed alta interpretazione musicale del dramma (notate bene interpretazione, non esecuzione)». Il demerito non era affatto degli artisti, bensì dell'impianto. Passato il tempo dell'opera in musica come successione di pezzi chiusi, troppo spesso di bravura, anche una buona esecuzione, parziale, di qualche aria, avrebbe lasciata l'impressione generale del pubblico allo stesso punto. «Capítela una volta; o riformate il Teatro, o tornate alle Cavatine. Come stanno le cose voi avete bensì il diritto di disapprovare il «Don Carlos», ma non avete il diritto di giudicarlo. Finché direte 'lo spettacolo non mi è piaciuto' sta bene: ma quando dite 'il duetto dell'Inquisizione è lungo' rispondo: 'Non avete capito nulla'. Quando dite 'il balletto non ha interesse' rispondo: 'eseguitelo prima di giudicare'. Quando dite: 'l'opera è troppo lunga', voi dite cosa che non ha senso. Se è troppo lunga per voi, perché l'avete scelta? La condannerete perché è scritta con altri intendimenti, con esigenze differenti dalle vostre? Direte per esempio che l'Orlando Furioso vale meno della Gerusalemme Liberata, perché ha quarantasette o quarantotto canti invece di questa che ne ha soli venti?». [...]
  1868
Il 30 giugno Verdi incontra, a Milano, Alessandro Manzoni. Il 13 novembre muore Gioacchino Rossini; Verdi pensa di dedicargli alla memoria una Messa di Requiem, che resterà però soltanto abbozzata.
  1869
Il 27 febbraio, alla Scala, si rappresenta un'edizione riveduta de «La forza del destino» . Di quest'anno «Stornello» per canto e pianoforte (testo di anonimo).
  1871 
Del settembre-ottobre è il primo soggiorno a S. Agata di Teresina Stolz, che tanta parte avrà ancora nella vita del compositore. Il 24 dicembre prima rappresentazione all'Opera del Cairo di «Aida» , opera in quattro atti e sette quadri (libretto di Antonio Ghislanzoni da un'idea di F. Auguste Mariette e una versione completa, in prosa francese, di Camille Du Locle e Verdi).
1872 
L'8 febbraio, prima rappresentazione alla Scala di «Aida» .
  1873 
Il 22 maggio muore Alessandro Manzoni. Il sentimento di venerazione profonda che lo legava all'artista scomparso induce Verdi alla decisiope di riesumare il progetto di Requiem, già pensato per la morte di Rossini, di cui aveva portato a termine, nel 1869, il «Libera me» . Del 1º aprile di quest'anno è Quartetto in mi minore per due violini, viola e violoncello, eseguito a Napoli.
  1874
Il 22 maggio, nel primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, prima esecuzione a Milano, nella Chiesa di S. Marco, della «Messa di Requiem» per soli, coro e orchestra. In novembre Verdi riceve la nomina a Senatore.
  1876 
Il 5 marzo muore Francesco Maria Piave.
1877
Nel maggio-giugno effettua un viaggio a Colonia per l'esecuzione della sua «Messa di Requiem» .
  1878
Nell'agosto-settembre la figlia adottiva di Verdi, Maria Filomena, si sposa con il figlio primogenito di Angelo Carrara.
  1879
Il 5 agosto nasce la figlia primogenita di Maria Filomena e verrà chiamata Giuseppina. Di quest'anno «Pater noster» per coro a 5 voci (SSATB). Nel settembre Arrigo Boito comincia a lavorare al libretto di «Otello» .

1880

Dal novembre 1879 al novembre 1890 studia il testo di «Otello» scritto da Boito. Compone «Ave Maria» per soprano e archi. Viene eseguita a Milano il 18 aprile insieme al «Pater Noster». Il 22 marzo ha luogo la prima rappresentazione di «Aida» all'opera di Parigi, dopo le deludenti rappresentazioni al Théâtre des Italiens nel 1876. Diresse le prime 5 rappresentazioni. Il Presidente della Repubblica gli consegnò la grande Croce della Legione d'Onore che, a quel tempo, con era stata ancora concessa ad alcun compositore francese.

1881

Il 24 marzo si rappresenta alla Scala un'edizione riveduta di «Simon Boccanegra».

1883

Decide di rivedere «Don Carlo».

1884

Il 10 gennaio va in scena alla Scala un'edizione riveduta e ridotta di «Don Carlos». Nei primi mesi Boito apporta correzioni al testo di «Otello» per desiderio del compositore. Durante l'autunno, sicuramente a partire da ottobre, ne comincia la composizione, forse anticipata da schizzi in primavera.