Riscoprire Verdi

[pubblicato sul Giornale del Popolo il 20 gennaio 2001]

Cent'anni fa, il 27 gennaio 1901, moriva, all'età di 88 anni, Giuseppe Verdi, compositore tra i più eseguiti e amati, ma forse anche, paradossalmente, tra i più misconosciuti. Il suo nome è spesso legato a opere della giovinezza come Nabucco o I Lombardi alla Prima Crociata (che certo capolavori non sono), alla cosiddetta «Trilogia popolare» («Rigoletto», «Traviata», «Trovatore»), culmine mirabile della sua prima fase compositiva, e all'«Aida», opera di superba fattura ma, purtroppo, spesso fraintesa, banalizzata, offesa da allestimenti pompiers ed... elefantiaci che poco o nulla hanno a che vedere con la Stimmung prevalentemente intimistica, con le raffinatezze timbriche e armoniche, con le sublimi melodie (si pensi per esempio al finale «O terra addio») che impreziosiscono la partitura.
Conosco e amo Verdi sin dall'adolescenza, ma soltanto una ventina di anni fa ne compresi la titanica grandezza, la «leonardesca potenza d'intelletto» che convinse Massimo Mila, insigne esegeta verdiano, a collocarlo «tra i geni superiori all'ottica dell'uomo comune insieme con Beethoven e con Monteverdi». Ebbi la fortuna di assistere, alla Scala di Milano, a una rappresentazione di Simon Boccanegra: uno spettacolo di inesorabile coesione drammaturgica e musicale, frutto di una intesa artistica prodigiosa tra il regista Giorgio Strehler e il maestro Claudio Abbado.
Il vertice musicale e drammaturgico di quest'opera vigorosa e struggente, composta nel 1857 su libretto di Piave, ma profondamente rielaborata con l'aiuto di Arrigo Boito nel 1881, è la Scena del Consiglio, in cui il Doge plebeo ed ex-corsaro Simone Boccanegra invoca la pace tra le Repubbliche Marinare, seda con il suo carisma una rivolta del popolo che sta per irrompere nella Sala, reagisce con assennatezza all'aggressione di chi lo accusa a torto di aver rapito una fanciulla (in realtà si tratta di sua figlia), ma soprattutto, dopo aver individuato il responsabile di questo misfatto (Paolo Albiani, suo grande amico, artefice della sua ascesa al trono), senza pronunciarne il nome, lo maledice. Poi, «cupo e terribile», urla beffardamente allo stesso Paolo: «E tu... ripeti il giuro!». Annichilito dalle maledizioni sussurrate degli astanti e in preda all'orrore per la sua automaledizione, Paolo fugge, mentre la musica, frantumata, straziata come l'anima di Simone, sembra raccogliere con sforzo supremo i mormorii spietati, i lacerti sonori, dolorosi e minacciosi, che si sono insinuati tra le parole dell'atroce accusa, per sommergere infine il fuggiasco con un boato orchestrale di apocalittica potenza espressiva.
Questo formidabile finale d'atto in cui la fuga isterica e sgomenta di Paolo è antitetica alla ieratica immobilità e allo sdegno sardonico di Simone, ferito e sconvolto nei suoi più intimi affetti (amore filiale e amicizia), mi chiarì improvvisamente i motivi per cui Verdi decise di sospendere la composizione di Otello, per consentire al riluttante Boito di rivedere il farragginoso libretto di Piave, di riparare, (uso le parole del musicista stesso) «il tavolo zoppo», saldandone le gambe che «tentennavano». Come se mancasse al compositore un fondamentale tassello, senza il quale, forse, non gli sarebbe stato possibile concepire un personaggio di demoniaca potenza come Jago. Paolo Albiani nella concezione di Boito e di Verdi, assume infatti una malefica grandezza shakespeariana e prefigura, come è stato arditamente scritto, aspetti dell'espressionismo teatrale.
La vendetta di questo bieco personaggio sarà spietata: ucciderà Simone con il veleno. Gabriele Adorno diventerà Doge al posto suo: la fragilità umana e la pochezza politica di questo giovane patrizio rendono più cupo e agghiacciante il finale dell'opera, specchio del nero pessimismo verdiano, espresso in molte amare lettere di quel periodo. In esse Verdi auspicava, per il governo del suo paese, «uomini d'ingegno e fermi di polso», qualifiche che certo non si attagliavano a questo scialbo personaggio.
I lugubri rintocchi che avvolgono la morte di Simone diventano un filo sonoro sempre più esile fino al silenzio ultimo: un silenzio che si trasforma in un tempo sospeso, atemporale..., come alla fine della Messa di Requiem in memoria di Alessandro Manzoni.
La registrazione discografica (DG), effettuata pochi giorni dopo una lunga serie di recite scaligere alla fine degli anni '70, è considerata da Elvio Giudici, autorevole critico musicale, «un vero e proprio paradigma esecutivo e interpretativo verdiano, in grado di sopravanzare, sotto tale aspetto, persino le registrazioni di Toscanini». Essa rappresenta - continua Giudici - «più di qualunque esegesi estetica, la dimostrazione inoppugnabile della vera statura - altissima - di un'opera fino a quegli anni ritenuta marginale nella grande produzione verdiana e, dopo di allora, da porre invece al centro di essa.»
Riscoprire Verdi partendo da questo «Simon Boccanegra per approdare a «Don Carlos», «Otello», «Falstaff», al «Te Deum», allo «Stabat Mater» e, perché no, ad altri (capo)lavori verdiani già conosciuti, rivisitati però sotto una luce diversa, accesa da... Simone, da Paolo, da Filippo II, dal Marchese di Posa, da Jago, dalla comare Quickly, da sir John Falstaff? Una proposta..., basata su un documento sonoro eccezionale, per chi ancora non si fosse accostato ai capolavori della tarda maturità e della laboriosa vecchiezza verdiana.