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INTRODUZIONE

 

[Dizionario dell'opera Baldini e Castoldi]
«L'Amore dei tre re» è il capolavoro di Montemezzi, musicista di profonda cultura musicale, e si segnalò al suo apparire come uno dei più felici esempi di sintesi tra l'esperienza operistica e sinfonica d'oltralpe, in specie tedesca, e la tradizione italiana. Tuttavia, rispetto a quanto si era per io più tentato sino ad allora in Italia, Montemezzi non si limitò ad adottare in modo generico tecniche e stilemi germanici, ma mirò a tiri linguaggio essenzialmente 'tedesco', entro cui potessero realizzarsi anche le aspettative dei pubblico italiano. Nelle sue opere però l'impiego della melodia non si traduce mai in pezzi chiusi paragonabili alle ronianze operistiche tanto in auge in quel tempo. Ciò spiega anche perché, paradossalmente, la sua musica venne senipre considerata meno 'italiana' di quella dei compositori della cosiddetta 'giovane scuola'.
L'unico limite defl'opera è forse nel clima fosco della vicenda, alla quale Benelli ha conferito una tinta che, nella sua cupa drammaticità, può risultare monotona. Il linguaggio del libretto, inoltre, di gusto estetizzante e tipico di quella maniera dannunzíana allora assai in voga, non giova ai personaggi, di cui non sempre riesce a mettere in luce le motivazioni intime, e più autentiche. Ad esempio lo strazio di Fiora, sposata a un uomo che non ama, e il suo disperato amore per Avito, appaiono sentimenti ostentati più che sincerailiente provati. Tutto ciò costituisce il principale limite a uno stabile inserimento di quest'opera di primo piano nel repertorio del Novecento italiano. Alla prima e fortunata rappresentazione alla Scala, diretta da Tullio Serafin con De Angelis (Archibaldo) e Galeffi (Manfredo) seguì il debutto americano al Metropolitan di New York, il 2 gennaio 1914, sotto la direzione di Toscaníni e con la grande Lucrezia Bori nella parte dì Fìora, che segnò l'affermazione duratura dell'opera negli Stati Uniti (dove fu cantata da Claudia Muzio, Rosa Ponsefle e da Mary Garden che, negli anni Venti, ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia). In Italia, l'opera rimase in cartellone fino al secondo dopoguerra, grazie ancora una volta a Toscanini e anche a De Sabata, che la diresse alla Scala nel '32 e nel '53.