PIERO MIOLI
ANCORA TRE: I CANTI DELLA ZAUBERFLÖTE

Molto fuoco cova sotto le illustri ceneri del classicheggiante teatro di Mozart: l’aulica vicenda
parametastasiana di Idomeneo, re di Creta sembra quasi percorsa da vibrazioni gluckiane, la dichiarata
giocosità di Don Giovanni è impinguata e quasi contraddetta da una ventata stürmisch che suona
più seria d’ogni serietà tradizionale, e Die Zauberflöte non dà tregua alcuna all’esegesi, amenamente
macchiando tanta classicità d’origine con le acquisizioni di una grandiosa cultura europea e gli esiti
di un’arte fra le più spregiudicate e sorprendenti che sia dato conoscere. Così anche sul terreno
spesso negletto del vocalismo1, al cui tratteggio occorrono, come sempre, gli elementi interni della
composizione musicale, rilevabili dalla partitura, e quelli esterni della tradizione interpretativa,
delle caratteristiche vocali dei cosiddetti creatori, infine delle memorie e delle cronache relative alle
prime rappresentazioni. Ecco dunque i singoli casi dei personaggi principali dell’opera, che sono
maschili in numero di cinque e femminili in numero di tre: Sarastro, Oratore (o Sprecher), Tamino,
Monostato, Papageno; e Regina della Notte, Pamina, Papagena (per pura menzione s’aggiungano i
tre sacerdoti, le tre dame, i tre fanciulli, i due armigeri, i tre schiavi, cantanti ma spesso anche solo
recitanti, o anche cantanti con voci bianche).
Alla prima viennese del 30 settembre 1791 Sarastro fu Franz Xaver Gerl (1764-1827), che non
aveva ancora compiuto i 27 anni ed era basso e compositore. Dedicatario, lo stesso anno, dell’aria
“Per questa bella mano” di Mozart (K 612), aveva già cantato la parte di Osmin nella Entführung
aus dem Serail e in versione tedesca avrebbe eseguito anche le parti di don Giovanni e di Figaro. Un
certo protagonismo doveva animarlo in queste ultime due scelte, a dispetto, se non del troppo comico
Leporello, certo dell’altero, serio conte d’Almaviva; ma prima del protagonismo ad agire nella
costruzione del repertorio era forse la preferenza o la disponibilità verso le tessiture piuttosto gravi.
Gravissimo il canto del sinistro Osmin, come si sa, e similare quello di Sarastro: il primo basso del
Flauto magico entra in scena soltanto nel finale primo, ma presto scende al Fa1 e al Sol1 , nemmeno
in cantabile evidente; l’aria con coro “O Isis und Osiris, schenket” conferma il Fa1 , in tre casi (il
limite alto è appena il Do3 , e sempre mediante uno stile di canto sillabico); “In diesen heil’gen
Hallen”, la grande aria del secondo atto, propone movenze più melismatiche, ancorché in Larghetto,
estendendosi tra il Fa e il Do3 ; tre Mi acuti (il secondo in appoggiatura) capitano infine al personaggio
nel terzetto del secondo atto (per soprano, tenore e appunto basso). Il canto della prima aria secondo
Abert mette in evidenza “l’antica predilezione dei canti di basso per i grandi intervalli, a servizio
d’un elevato tono di predicazione”2; quanto alla seconda aria, è la forma a couplets di due strofi
uguali ad assegnarla “al genere austriaco e popolare del Lied, non già a quello dell’aria d’opera
italiana, per la quale era d’uso la tripartizione”3.
Un basso non meglio nominato che come “Herr Winter”4 risulta essere stato il creatore della parte
dell’Oratore, molto meno rilevante di quella di Sarastro ma abbastanza ben caratterizzata nel profilo
vocale: il recitativo è il suo stile, un recitativo poeticamente duttilissimo che sembra derivare la sua
sensibile solennità da movenze più oratoriali che melodrammatiche, ad esempio dalle Passioni di
Bach e dagli impressionanti recitativi dell’Evangelista. Se Gerl cantava e componeva musica, il
creatore della parte di Tamino operava come tenore, flautista e compositore: Benedict Schack era
nato nel ’58 e si era formato alla scuola del canto italiano ascoltando direttamente i famosi tenori
scritturati allora a Vienna, Paolo Mandini, Matteo Babini, Domenico Mombelli e Maffoli. Allorché
il personaggio fugge il serpente, il canto di Tamino suona piuttosto agitato e drammatico, ma l’assolo
che segue, la cosiddetta Bildniss-Arie, s’avvale di una tessitura che a una certa acutezza annette
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espansione, ariosità, ornamentazione (è il caso dei gruppetti), insomma una notevolissima elasticità5;
dopo, il canto del primo tenore della Zauberflöte si presenta piuttosto ricco ed elaborato nel recitativo
con l’Oratore, nel corso del lungo finale primo acquisisce la stessa melodia del flauto e pronuncia il
fatale nome di Pamina mediante la singolarità del tritono (“Pamina!”, con due Do3 e due Fa3 ), si fa
poi serio, slanciato, vibrante nel brevissimo passo a due con la stessa Pamina che sta nel finale
secondo (quando i due si invocano per nome); e infine, all’uscita dal fuoco, s’allea col canto sopranile
dell’amata in un passo a voci parallele che si muove come un perfetto bicinium. Paumgartner non
ha dubbi, sulla natura da Singspiel viennese dell’aria, che ritrova nell’evidente Gemütlichkeit, la
“semplice e affettuosa cordialità umana”6; mentre Hocquard insiste sullo strano disegno melodico
del pezzo, arioso sì ma non particolarmente cantabile e anzi prossimo al recitativo, a quel recitativo
libero e “drammatico” che avrebbe poi dato luogo all’informalismo del canto wagneriano7.
Secondo tenore dell’opera è Monostato, ai sensi di una gerarchia moderna che certo allora non
vigeva in questi termini (secondo cantante era l’interprete di personaggi irrilevanti, esterni al dramma
fondamentale). Fu tal Johann Joseph Nouseul a creare l’odioso e pur caratteristico personaggio, la
cui arietta s’estende appena tra il Re2 e il Mi3 in un breve Allegro assolutamente privo di articolazioni
e sfumature: “più che di un’aria d’opera, si tratta d’una canzonetta, di semplicistica struttura ternaria,
come i couplets di Papageno nel primo atto”, nota Mila8. Del resto Nouseul era attore e come tale
aveva lavorato al Burgtheater, precisa Robbins Landon9. Impossibile chiedergli di più, di voce e di
tecnica.
Si diceva di Papageno, personaggio essenziale nell’opera pur nella sua sbrigativa connotazione
stilistica. Identica a quella di Monostato è l’estensione dell’aria “Der Vogel fanger bin ich ja”,
compresa appunto fra il Re2 e il Mi3 (con voce non più di tenore, certo, ma di buffo) e con bella
insistenza su certi suoni; l’estensione scende nel finale primo fino a due imprevedibili Si1 e a qualche
Do2 (sotto al canto di Pamina); la stessa aria “Ein Madchen oder Weibchen” è sì suddivisa e alternata
in Andante e Allegro, ma senza che questo imponga diverso impegno vocale. È il duetto con Pamina,
piuttosto, a far lievitare il vocalismo del buffissimo Papageno, com’è giusto per un pezzo che accomuna
un personaggio comico a un personaggio lirico: nondimeno, se la melodia è la stessa del soprano, il
carico di melismi suona meno oneroso (in due casi il soprano diminuisce e il buffo tiene e poi lascia
l’unica nota), com’è poi giusto per una voce buffa rispetto a una voce “seria”. A crear Papageno, è
noto, fu Emanuel Schikaneder, impresario, drammaturgo e librettista (anche della Zauberflöte),
attore e cantante d’istinto, il più anziano degli artefici dell’opera in quanto già quarantenne. Vissuto
dal 1751 al 1812, non aveva né grande voce né scuola classica, ma talento gestuale e musicale da
vendere10, ed era astuto manipolatore di testi e di musiche, capace di passare dall’Amleto di
Shakespeare alla sua creazione favorita del gallinaceo, personaggio mezzo uomo e mezzo pennuto
proprio come il Papageno di Mozart. Se a Mozart Schikaneder fu in grado di suggerire il tema
iniziale dell’aria con carillon, quella che discetta di donzelle o femminette (era del resto un’antica
melodia di dominio universale, scrive Mila11, che cosa non avrebbe fatto il maestro per secondare il
talento e il capriccio dell’amico e collega? Tutto fece, anche perché già nell’opera comica italiana si
era cimentato con scritture vocali da buffi ben più esigenti con l’espressione che con il vocalismo, a
cominciare dal Leporello di Don Giovanni12.
In fatto d’età, la compagnia femminile che creò Il flauto magico brillava ancora più di quella
maschile: se la Regina della Notte aveva superato il terzo decennio di vita, Papagena aveva appena
oltrepassato il secondo e dal secondo Pamina restava largamente al di sotto. Josepha Hofer (1759-
1819), cognata di Wolfgang Amadeus in quanto sorella di Konstanze (nonché della bella e ingrata
Aloysia e della semplice e pietosa Sophie) e pure poco simpatica al maestro13, aveva voce tanto
acuta da meritarsi la parte che Paul Wranitzky, coetaneo di Mozart, compose per l’Oberon: il
personaggio si chiamava Astrifiammante e toccava il Re5
14. Vale la pena di ricordare un po’ la
magnificenza dell’analoga parte composta da Mozart: “O zittre nicht, mein lieber Sohn!” consta di
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una prima sezione dalla tessitura alquanto centrale, e di una seconda che, fornita di un lungo trillo
oltre che di un trillo svolto, parca di pause e quindi molto impegnativa anche nella distribuzione dei
fiati, dopo lunghe, ardite, volutamente meccaniche colorature attinge al Fa5; “Der Holle Rache
kocht in meinem Herzen” insiste sulla lunghezza dei fiati, aggredisce e ribadisce lunghe terzine
acute, abbonda di picchettati (Do5 e La4 ), e tocca e ritocca (quattro volte) il solito Fa, pur non
allentando la morsa della drammaticità nemmeno nello spessore richiesto dall’assiduità del registro
centrale. Koloratur-Sopran, come s’usa dire15, ma non solo, sia per l’impressionante tensione di
questo canto (la prima aria rinuncia al lirismo dei clarinetti e la seconda è tagliata in re min.) che
per l’evidente sua appartenenza al tipico stile italiano di bravura, dove l’estensione sarà stata spesso
meno elevata ma il virtuosismo spesso altrettanto copioso16. Quanto ad altre personificazioni della
Hofer, si sa che ancora al Freihaus avrebbe partecipato alla Clemenza di Tito, nel 179817, ma
cantandovi non quella prima donna assoluta che è la drammatica e virtuosistica Vitellia, bensì la
tenera, lirica, per nulla spericolata parte di Servilia (fra l’altro meno rilevante, nell’economia
dell’opera): ragione del declassamento poté essere l’eventuale presenza di un’altra, più apprezzata
virtuosa nella compagnia di canto o, più probabilmente, il naturale declino dei mezzi vocali. E
quanto ad altri acutissimi soprani dell’epoca, è proprio coevo della Regina di Mozart il Genio che
Haydn comprese in Orfeo ed Euridice, estendendolo fino al Mi5 mediante una similare rete di aureo
filo belcantistico18.
Al polo opposto della Regina della Notte si colloca Papagena, personaggio integralmente buffo
che si esprime con un canto quasi non canoro, con un’elementare recitazione intonata ai limiti
dell’afasia. Non beneficiata di alcun assolo, questa “buffa” dimidia ogni parvenza di complessità
che attecchisca presso soprani buffi e quindi estranei al virtuosismo come Susanna e Zerlina; e
tende alla semplice ribattitura dei suoni, ad esempio quando sillaba “Pa...pa...pa” (circa l’estensione,
si trovano appena tre La4 , eccezionali, che il personaggio applica al suo nome). Barbara Gerl,
creatrice della parte, cantava e recitava, aveva interpretato Una Cosa rara di Vicente Martin y
Soler, ed era molto giovane: nata nel 1770, aveva all’incirca ventun anni (moglie di Franz Xaver
Gerl, piaceva anche a Mozart, come donna, e sarebbe morta a 36 anni).
Aveva all’incirca 17 anni Anna Gottlieb, la “dramatic singer”19 che cinque anni prima, nelle
Nozze di Figaro, aveva creato la parte di Barbarina e nel Flauto magico era destinata a creare
l’incantevole personaggio di Pamina, sicura protagonista femminile (di un lavoro che non vanta
alcun eroe eponimo, se non il flauto). Cantante specialista del Singspiel, attrice e danzatrice, dalla
penna di Mozart si ebbe un canto quasi imprevedibile, e non certo nel senso della meccanicità del
vocalizzo o della pretenziosità dell’estensione. L’aria “Ach, Ich ful’s, est ist verschwunden” è piuttosto
un singolare arioso frammisto a passi di coloratura, complesso nella sua elasticità di fraseggio,
nella larghezza degli intervalli (anche dal Sol4 al Do2 ), nella relativa ampiezza dei passaggi stessi;
il recitativo del delirio e del tentato suicidio suona particolarmente agitato e accidentato; nel finale
secondo, in parallelo col canto dei fanciulli, un Si4 risulta pienamente tenuto per tre battute e mezza
e nel canto a quattro di poco seguente che accomuna il personaggio a Tamino e agli Armigeri la
serietà vocale del personaggio è quasi concretata nella dovizia degli arpeggi20. Dunque? dunque la
Regina è la prima donna seria della Zauberflöte, Papagena sarà la prima donna buffa (o quanto ne
rimane), ma Pamina stenta a inserirsi in una trafila precisa, italiana o tedesca che sia, e se come
personaggio ricorda l’emotività della Nina di Paisiello e presente la Carolina di Cimarosa, forse
anche vocalmente si gemella al diletto Tamino nel progetto di uno stile almeno in parte nuovo,
meno legato degli altri al passato. Che la Gottlieb fosse allieva di Mozart è stato detto e ripetuto ma
non rimane documentato: l’originalità del suo canto, tuttavia, potrebbe anche far pensare a un
attento ed efficiente sodalizio artistico (non fino al punto da recuperare l’ipotesi di un rapporto
anche amoroso, del resto non documentato).
A fianco di questo solismo, nella partitura del Flauto magico non possono mancare i casi di canto
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d’assieme, che dagli studiosi si sono guadagnati ulteriori definizioni di stile vocale. Piuttosto sintetico
Hocquard, che distingue il Lied popolare, il corale, il recitativo “romantico”, l’arietta viennese e
l’aria italiana. E più circostanziato Paumgartner: il quintetto della quinta scena del primo atto e il
finale secondo s’accomunano al duetto dei buffi nell’adozione del canto dell’opera comica; il coro
dei sacerdoti (e la marcia che apre il secondo atto) s’ispira alla tragédie lyrique, che da oltre un
secolo, allora, ossequiava il gusto francese; il canto a due degli Armigeri s’organizza secondo lo
stile liturgico severo21. Il penultimo stile si lascia immediatamente leggere nell’esemplare accordalità
dell’andamento polivoco (non polifonico, appunto), dove le due linee dei tenori e la linea del basso
invocano “O Isis und Osiris, welche Wonne!”. L’ultimo infine, nella sua sostenutezza all’antica
della quale non s’appaga, s’appropria di due temi precedenti e altrui, quello del terzo Kyrie d’una
Messa di S. Enrico composta da Heinrich von Biber nel 1701, e quello di un corale luterano che
Mila assicura rintracciabile fin dal 152422: donde, in genere, un “carattere arcaico di venerabile
contrappunto bachiano” che aleggia su “Der welcher wandert diese Strasse23.
È tempo di riassumere, con qualche precisazione. Due sembrano, sostanzialmente, gli stili vocali
accolti da Mozart nell’eclettica partitura: un generico stile antico e un più caratterizzato stile moderno.
Lo stile antico rivive certo nel canto degli Armigeri, dei Sacerdoti e anche dei Fanciulli e delle
Dame, dall’aspetto della polifonia a quello del basso armonizzato; e anche nel sorprendente recitativo
dell’Oratore, modellato sull’esempio di un Bach più vicino d’anagrafe che di stile. Lo stile moderno
suona teatrale nella serietà perfin parodistica della Regina della Notte, nella buffoneria addirittura
smaccata dei Papageni, nel tono medio, quasi cameristico e pur lineare e melodico del canto di
Sarastro24. Ma dal prospetto rischiano di esser esclusi i due personaggi meno convenzionali e più
dinamici dell’opera, Tamino e Pamina, i giovani eroi che dall’inquietudine del presente sapranno
passare alla certezza del futuro. E allora il dramma suggerisce forse la musica, nel cui regno gli stili
diventan tre. Teatrale o cameristico, molto o poco serio che sia, il canto dei due amorosi della
Zauberflöte di Mozart ha già parecchio del canto romantico, infatti, di Beethoven ma ancora meglio
di Weber, cioè di un canto che sarà libero ed elastico, relativamente svincolato dal formalismo
classico, abbastanza slanciato nella seconda ottava ma non troppo e soprattutto limitato nel
virtuosismo, sempre molto oneroso sotto il profilo espressivo ma né troppo aggressivo (come quello
della Regina) né troppo basso (come quello di Sarastro). Un canto misuratamente romantico,
insomma25, questo di Tamino e Pamina.
Scrive Mila che “il lungo recitativo del dialogo fra Tamino e l’Oratore è un altro di quei venerabili
incunaboli storici del melodramma nazionale tedesco che i musicologi esaltano”26; aveva scritto
Dent che lo stesso recitativo suona come “un dialogo tra Bach e Weber”27. La convergenza delle
proposte dei maggiori studiosi mozartiani, con qualche pizzico di forse più larga conoscenza sul
terreno del melodramma classico e barocco, consente poi di estendere questa polarità stilistica,
intendendo tutta l’opera e il suo versante vocale come una mirabile sintesi, un formidabile ponte
lanciato dalla vetta della tradizione classica alla vetta del rinnovamento romantico. E siccome Mozart
vantava anche altre dimestichezze artistiche, perché limitarsi alle vette di Bach e di Weber? anche
Paisiello e Piccinni, Sarti e Cimarosa possono rappresentare una serie di vette, e altrettali vette
possono essere quelle presto chiamate Rossini e Bellini. A fianco dei quali Mozart avrebbe anche
potuto trovarsi a operare, se la cronologia non fosse sempre soggetta all’invadenza di Atropo.
Piero Mioli
1 Il vocalismo, va da sé, si modella secondo l’affetto, lo stile, la struttura delle arie. Per le due grandi opere serie di
Mozart, cfr. P.Mioli, Clemenza di Tito, serietà di Mozart, in “Musica e Dossier”, febbraio 1988, p.2O-22; Id., Idomeneo:
la vocazione teatrale di Mozart, in “Musica e Dossier”, maggio 1989, pp. 73-74.
2 Si cita da M. Mila, Lettura del Flauto magico, Torino 1989, p. 132. Dalla monografia di Mila derivano anche i
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riferimenti ad altri capisaldi della bibliografia mozartiana: H. Abert, W. A. Mozart, Lipsia 1921 (trad. Milano 1984-85);
B. Paumgartner, W. A. Mozart, Berlino 1927 (trad. Torino 1956); J.-V. Hocquard, La pensée de Mozart, Parigi 1958; E.
J. Dent, Mozart’s Operas, Londra 1913 (trad. Milano 1979); M. Labroca, Il Flauto magico di W. A. Mozart, Firenze
1944.
3 M. Mila, Op. cit., p. 147. “Osserva giustamente il Labroca che, dopo tanto Staccato e Picchiettato nell’aria della
Regina, e dopo tanto sfoggio di ampi intervalli tragici, il canto di Sarastro è calmo, diatonico, procede per gradi congiunti,
prevalentemente Legato”, scrive ancora M. Mila, Ibidem.
4 “Ispizient im Freihaustheater”, si sa, cioè ispettore, direttore di scena presso il Theater auf der Wieden che si trovava
nell’enorme caseggiato del Freihaus. Direttore di scena come professionista e cantante come amatore, forse, piuttosto
che viceversa.
5 “L’aria del ritratto è quanto più possibile vicina all’espressione parlata, non vi emerge una grande linea ariosa”, scrive
forse un po’ troppo drasticamente S. Kunze, Il teatro di Mozart, traduzione di L. Cavari, Venezia 1990, p. 736.
6 M. Mila, Op. cit., p. 86.
7 Ivi, p. 87. Circa le attitudini di Schack e i suoi rapporti di amichevole simpatia con Mozart, cfr. M. Mila, Op. cit., p. 90.
8 M. Mila, Op. cit., p. 141.
9 H. C. Robbins Landon, L’ultimo anno di Mozart, traduzione di F. Giannini Iacono, Milano 1989, p. 143.
10 “Autentico animale da palcoscenico” lo definisce Robbins Landon (Op. cit., p. 141), oltre che “impresario intelligente
e attento a non ingannare il proprio pubblico”.
11 M. Mila, Op. cit., p. 162.
12 “Schikaneder, nel ruolo, nelle gag, nei lazzi di Papageno, è dunque la rivisitazione della maschera italiana (Truffaldino)
e del suo rifacimento tedesco (Hanswurst, oppure Kasperl)”, si legge in G. Carli Ballola - R. Parenti, Mozart, Milano
1990, p. 747.
13 Rozza la definisce appunto in una lettera del 15 dicembre 1781 indirizzata al padre. Conterà poco, ma è un fatto che
le arie a lei destinate sono pugnaci e spettacolari, non sensibili o sfumate.
14 Secondo la testimonianza di un contemporaneo citata da Abert (cfr. M. Mila, Op. cit., p. 96), tuttavia, la Hofer
preferiva abbassare la parte scritta da Wranitzky.
15 In tedesco, e soprano di coloratura o leggero in italiano. Ma la formula è parziale, giacché a quei tempi solo le voci
buffe erano esentate dalla coloratura. A ben vedere l’Armida di Haydn, la Semiramide di Rossini, la stessa donna Anna
di Mozart, tanto per fare qualche esempio, sono anch’essi soprani di coloratura.
16 C. Osborne, Tutte le opere di Mozart, traduzione di M. S. Gavioli, Firenze 1982, pp. 418-419: “La coloratura è
stranamente inumana sia nella sua rigidità sia nelle altezze vertiginose [...]. Questo [...] è l’uso della coloratura più
drammatico in tutte le opere di Mozart e, saremmo tentati di dire, di chiunque altro”.
17 Cfr. H. C. Robbins Landon, Op. cit., p.189.
18 Cfr. P. Mioli, La vera costanza, ossia il teatro musicale di Franz Joseph Haydn, in “Sipario”, febbraio 1982, p. 70.
19 Ch. Raeburn, Gottlieb, (Maria) Anna, “voce”, “The New Grove”, London 1980, vol. VII, p. 569.
20 Del terzetto per soprano, tenore e basso, M. Mila, Op. cit., p. 158, scrive: “Generalmente le frasi di Pamina hanno la
funzione di aprire armonicamente verso la dominante o verso toni vicini; le risposte maschili hanno la funzione di
riportare la tonica o allontanare le tonalità conturbanti”.
21 Al canto degli Armigeri dedica un intero paragrafo S. Kunze, Op. cit., pp. 777-781 e un articolo dedica R. Hammerstein
Il canto degli uomini corazzati. Uno studio sull’immagine bachiana di Mozart, leggibile nella traduzione di M. Nevilla
Massaro in S. Durante [a cura di], Mozart, Bologna 1991, pp. 367-98.
22 M. Mila, Op. cit., p. 174.
23 Ivi, p. 175.
24 Per il vario protagonismo dei personaggi e dei cantanti seri e comici nel Settecento, cfr. P. Mioli, “Non più Reggina ma
pastorella. Sulla drammaturgia vocale medio e tardo-barocca nella “Griselda”, da Scarlatti a Vivaldi, in A. Fanna e
G. Morelli (a cura di), Nuovi studi vivaldiani, Firenze 1988, pp. 83-116.
25 L’odierna interpretazione mozartiana, che nel caso del Singspiel conserva l’autenticità germanica (mentre perde quella
italiana dell’opera seria o giocosa), seguita a distribuire le parti vocali della Zauberflöte secondo criteri del genere. È
quasi impossibile, infatti, che uno stesso soprano si disponga a eseguire indifferentemente la parte della Regina o quella
di Pamina, o che un buon Papageno provenga da un cantante uso a impersonare il conte d’Almaviva, mentre è normale
che il grave Sarastro sia condiviso con il Commendatore o Tamino preferisca appellarsi a Ferrando piuttosto che a Tito.
Interessanti alcuni casi particolari; Editha Gruberova canta sia la Regina della Notte che donna Anna, personaggi seriissimi;
Giuseppe Taddei e Sesto Bruscantini hanno molto frequentato personaggi comici e voci buffe come quelle di Figaro,
Leporello, Papageno; Graziella Sciutti, infine, eccellente come Susanna, Zerlina e Despina, nel caso del Flauto magico
ha conservato l’indole buffa del suo canto appropriandosi non della prevedibile parte di Pamina ma di quella così meno
soddisfacente di Papagena (sotto la direzione di Karajan).
26 M. Mila, Op. cit., p. 116.
27 E. J. Dent, Op. cit., p. 219.
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