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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo

Mercoledì, 25 Gennaio 2006

 

Mozart e l’opera buffa, ovvero della complessità sociale

A mia madre

I

Piccola ouverture

È possibile impiegare categorie sociologiche allo scopo di analizzare materiali atipici, di solito trascurati dai sociologi? È plausibile concepire il sapere sociologico come una chiave di lettura e di interpretazione di una pluralità di contesti, tra di loro non necessariamente congruenti? È possibile, in ultimo, concepire la sociologia come un particolare punto di vista, una prospettiva attraverso la quale dar senso inedito alla realtà osservata? La lezione dei classici dell’Otto e del Novecento (da Weber a Parsons, da Durkheim a Luhmann,  da Simmell a Habermas, da Tönnies a Horkheimer e Adorno) ci indica che la sociologia è in grado di produrre sapere inedito solo a patto che non autolimiti l’ambito della sua applicazione. È dalla consapevolezza (spesso rimossa) della capacità esplicativa delle categorie sociologiche che prende avvio questo mio intervento. Il mio scopo è quello di analizzare il rapporto tra uguaglianza, individualizzazione, complessità in relazione a un materiale insolito, e in particolare a tre opere di Wolfgang Amadeus Mozart (Idomeneo re di Creta, Le Nozze di Figaro, Don Giovanni). Il mio non è, dunque, uno studio di sociologia dell’arte, dal momento che mi interessano solo marginalmente il contesto storico e l’ambiente sociale in cui Mozart ha prodotto i suoi capolavori. Si tratta, invece, di un divertissement in cui Mozart, i suoi librettisti e gli intrecci delle loro opere, rappresentano semplicemente un pretesto per parlare della struttura sociale e della sua complessità. Tratto quindi gli intrecci delle opere cui mi riferisco come se fossero un insieme effettivo di azioni e situazioni sociali. È questo un esercizio quasi di sociologia applicata[1] il cui scopo è  quello di verificare se e in che modo lo sguardo sociologico sia in grado di fornire interpretazioni inattese. L’opera e l’intreccio sono dunque assunte come metafore della realtà sociale: attraverso la loro analisi tenterò di verificare alcuni meccanismi che distinguono le potenzialità dell’attore in contesti sociali diversi, caratterizzati da gradi differenziati di complessità.[2]

II

Delle serissime differenze

Il 1780 è un anno importante per Wolfang Amadeus Mozart. Gli viene infatti commissionata da Karl Theodor, elettore di Baviera, la composizione di un opera seria per il carnevale dell’anno successivo. Il libretto, scritto da Gianbattista Varesco,  dovrà essere un adattamento di una tragédie lyrique di inizio secolo, composta da Antoine Danchet e musicata da André Campra per il carnevale di Parigi del 1712. Mozart ha già scritto opere serie: Mitridate, re del Ponto è del 1770 e del 1772 è il Lucio Silla. I due lavori vennero scritti e rappresentati in Italia, nella patria dell’opera seria. Eppure, nonostante la buona accoglienza di pubblico, nessun teatro italiano commissionò in seguito al compositore la stesura di altre opere.[3] L’Idomeneo rappresenta pertanto una sorta di riscatto per Mozart, la possibilità di cimentarsi con un genere aulico, aristocratico, fortemente codificato e, proprio per questo, profondamente artificiale.[4]

Non è mio intento precisare minuziosamente all’interno di quale contesto storico-culturale Mozart abbia composto l’Idomeneo. Ciò che invece mi interessa è verificare, a partire dall’intreccio dell’opera, il modo in cui agiscono gli attori. Nonostante l’artificialità della rappresentazione scenica, l’azione è qui intesa come una sorta di metafora dell’azione sociale. L’opera, è, d’altronde,  doppiamente artificiale, perché ha l’artificialità propria dell’opera d’arte in quanto tale e perché la naturalità della recitazione ed i tempi della rappresentazione, sono sovvertiti dalle esigenze della musica e del canto.[5] Ciononostante, riferendomi alla trama, spero di scalfire questa doppia artificialità, allo scopo di individuare i modelli d’azione tipici dell’Idomeneo (e, in certa misura, dell’opera seria in generale). A tale scopo, sintetizzo brevemente l’intreccio del libretto.

Ilia, figlia di Priamo, è stata deportata con altri troiani a Creta come prigioniera del re dell’isola, Idomeneo. Durante il viaggio per mare, una tempesta mette in pericolo la sua vita. Idamante, figlio di Idomeneo, salva la nobile troiana la quale, all’inizio dell’opera, si strugge per due motivi. È innamorata di Idamante, suo salvatore: ma come può amare un nemico, responsabile delle sofferenze del suo popolo? È inoltre tormentata dalla convinzione che Idamante ami Elettra, figlia di Agamennone e ospite della regia di Creta. La doppia sofferenza di Ilia nasce dunque in primo luogo da un dissidio tra amore e onore[6], in secondo luogo dal timore che il proprio sentimento non sia ricambiato. Anche Idomeneo, di ritorno sulla sua isola, è assalito da una tempesta: promette pertanto a Nettuno, in cambio della salvezza, di sacrificare il primo essere vivente che incontrerà al suo approdo. Incontro al padre si fa Idamante, e Idomeneo, riconosciutolo, lo sfugge, provocando dolore nel figlio devoto. Ecco un nuovo dissidio: quello tra amore filiale e onore, quest’ultimo configurabile come promessa mancata alla divinità. Sono questi i conflitti interiori su cui si costruisce l’intero intreccio: conflitti che affondano le radici nei modelli classici cui, a partire dal Rinascimento italiano, si è rifatto il teatro colto europeo – quello musicale in particolare. Idomeneo confessa  il suo segreto al devoto Arbace, che gli consiglia di mandare su Argo Idamante e Elettra. Ciò allevierà le paure di Idomeneo (sebbene affidare al mare, dunque a Nettuno, i destini dell’olocausto negato non appaia del tutto ragionevole); ma acuirà le sofferenze di Ilia e di Idamante. Una tempesta e la comparsa di un mostro marino impediscono la partenza. Il popolo chiama Idomeneo al rispetto del patto con la divinità. Nel frattempo Idamante sconfigge il mostro e si presenta al padre perché questi compia l’atto dovuto. È questo il momento più adeguato al prodigio: la statua di Nettuno comincia a muoversi e scioglie Idomeneo dal vincolo, a patto che Idamante regni su Creta insieme ad Ilia.

Questo, in sintesi, l’intreccio. Si tratta di una trama esile, legata ad eventi imputabili solo subordinatamente alla responsabilità individuale: la paura spinge Idomeneo a rivolgere un voto di morte a Nettuno, ma è la divinità che decide in ultimo dei suoi destini e di quelli dei sui cari. La Creta di Idomeneo è un mondo semplice, diviso per strati tra di loro sovrapposti: in questo mondo semplice è chiaro a tutti ciò che compete a ciascuno. Sovrano e popolo, sacerdoti e fedeli, vincitori e vinti, la realtà sociale può dicotomizzare la propria struttura, confermando con ciò stesso il principio che la ordina: la gerarchia. Idomeneo prima, Idamante in seguito, lottano con le forze della natura, dialogano con la divinità, intermediano tra mondo degli uomini e mondo degli dei e queste loro capacità non hanno altra derivazione se non l’origine sociale di entrambi. È in ultima analisi la loro appartenenza ad uno strato (la nobiltà) che determina, in maniera piuttosto rigida, il limite e le potenzialità delle loro azioni. Solo nel caso in cui le aspettative legate allo strato d’appartenenza vengano disattese, il soggetto appare nella sua dimensione individuale: egli non è, però, individuo in senso moderno, bensì il sottoprodotto inatteso di una aspettativa delusa. È a questo punto che, per ripristinare l’ordine delle cose, Idomeneo si appresta ad uccidere il figlio consenziente.[7] Entrambi perdono nuovamente la loro qualità di soggetti per sottoporsi al rigore della necessità. La loro azione non è determinata da altra logica se non quella del necessario adeguamento all’ordine delle cose. L’intervento di Nettuno evita il finale tragico e Idamante sale pacificamente al trono al posto del padre.

III

Intermezzo

È chiaro che quello rappresentato nell’Idomeneo – ma probabilmente in tutte le opere serie dello stesso periodo – è un mondo semplificato, costruito per dilettare l’aristocrazia. Un mondo in cui mancano  i conflitti –se non quelli interiori; un mondo in cui è a tutti evidente ciò che a ciascuno compete; un mondo artificialmente arcaico, ad uso di un pubblico che preferisce non prestare attenzione alla contraddizioni profonde dell’Europa di fine Settecento.[8]  La tragedia nel teatro di prosa, l’opera seria in quello lirico consentono, per la loro forte stilizzazione e artificialità di dimenticare per un attimo ciò che accade al di fuori del teatro, sospendendo l’azione in un mondo poetico che fa riferimento quasi esclusivamente ad una serie di  convenzioni letterarie.

Ciò non accade nella commedia, per una serie di ragioni legate al genere letterario, ben note a chi si occupa di letteratura. Elenco alcune di queste ragioni in maniera approssimativa: 1. la commedia, a partire dal mondo classico, adotta un modello di rappresentazione maggiormente realistico; 2. per questo, nella commedia sono presenti figure che derivano da tutti i ceti sociali, anche quelli popolari, il cui scopo è spesso quello di suscitare ilarità; 3 da ciò deriva il fatto che in essa sono presenti una pluralità di linguaggi, da quello aulico a quello quotidiano. Per quest’insieme di ragioni, la commedia dell’Età dei Lumi, meglio della tragedia, sembra in grado di dar forma letteraria ad un mondo in rapido cambiamento. Si pensi a Goldoni e alla sua capacità (in parte mutuata dal teatro comico francese del secolo precedente, in particolare da Molière) di dar voce ad una pluralità di caratteri, spesso legati al ceto emergente della borghesia. La commedia è, in questo senso, meglio capace di aprirsi all’esterno grazie a quelle convenzioni letterarie cui ho sopra accennato, le quali hanno il pregio di garantire una maggiore aderenza alle ragioni del presente. L’autoreferenza della tragedia si converte, nella commedia, in una più grande capacità di eteroreferenza, dunque di aderenza alla realtà (basterebbe richiamare la diade goldoniana teatro-mondo) e mentre il richiamo ad un passato mitico (o mitologico) ad uso dell’aristocrazia rimuove il rumore di un mondo in subbuglio, la società acquista una complessità crescente che la commedia sembra meglio preparata a rappresentare.[9]

L’opera buffa è legata agli stilemi della commedia e, proprio per questo, condivide con essa una maggiore capacità di eteroreferenza. Un piccolo esempio, prima di passare alle opere di Mozart. Nel 1727 Adolf Hasse prepara in qualità di maestro della Real Cappella di Napoli un’opera seria (L’Astario) e un intermezzo comico (Larinda e Vanesio, ovvero L’Artigiano gentiluomo). L’intermezzo e una breve rappresentazione musicale che ha la funzione di intrattenere il pubblico con scene comiche frapposte tra un atto e l’altro di un opera seria[10]. Già nel titolo del piccolo lavoro di Hasse è chiara l’influenza di Molière e del suo Borghese gentiluomo. La trama conferma questa derivazione. Larinda, riesce a farsi sposare da Vanesio, un borghese arricchito, facendogli credere di essere un’aristocratica e offrendogli in cambio delle sue ricchezze la propria nobiltà. Al di là della presenza di alcuni stilemi tipici della commedia tra Sei e Settecento (primo tra tutti quello della scaltrezza femminile e della dabbenaggine maschile), ciò che appare maggiormente rilevante è il motore che innesca la trama: Vanesio cerca un’improbabile ascesa di ceto, legata al prestigio di cui ancora gode la nobiltà.[11] Dal canto suo, Larinda sfrutta questa debolezza, con un unico scopo: quello dell’arricchimento. Non a caso, la prima aria dell’intermezzo, cantata per l’appunto da Larinda, ruota attorno al tema del denaro come leva del mondo contemporaneo (La moneta è un certo che/ch’oggi giorno tutto può/tutto spunta e tutto fa). La trama procede dunque dalla ricerca del denaro, di quell’equivalente universale che avrebbe sempre più, nei meccanismi di funzionamento della società occidentale, assunto un ruolo prioritario rispetto alla funzione d’ordine della gerarchia. Mentre quest’ultima fissa, una volta per tutte, appartenenze e privilegi, la moneta cui fa riferimento Larinda, scardina  antiche certezze, rimuove differenze sedimentate per introdurre nuovi valori, nuove uguaglianze e, conseguentemente, nuove differenze. 

Mentre l’opera seria struttura i suoi intrecci in riferimento a valori e a dicotomie inconciliabili con il fermento della contemporaneità, il piccolo intermezzo di Hasse, con il suo richiamo al dissidio non ancora superato tra ricchezza e nobiltà appare maggiormente in grado di rappresentare le contraddizioni del presente. Non solo, riformula i moventi dell’azione sociale individuale (dunque i motivi che guidano le scelte di Larinda e di Vanesio), li aggiorna, li rende maggiormente adeguati alla complessità della realtà contemporanea. 

IV

Della buffa uguaglianza

Tra il piccolo intermezzo di Hasse e le opere della trilogia di Mozart e da Ponte intercorrono circa sessant’anni, durante i quali non sono solo cambiati gli stilemi letterari e la forma musicale dell’opera buffa, è cambiato anche il mondo e la complessiva stabilità sociale. Le nozze di Figaro e il Don Giovanni risentono di tali cambiamenti, li traducono in musica, in intreccio, in azione. In particolare Le nozze di Figaro, con la loro forte polemica antinobiliare, dà conto dello stretto rapporto tra mutamento sociale, uguaglianza, complessità. Mentre in Don Giovanni si fa strada l’idea di un’uguaglianza negativa (vale a dire come negazione della superiorità morale della nobiltà), nell’opera di Figaro è la delimitazione delle differenze che determina e giustifica l’intreccio nel suo complesso. È proprio per la maggiore rilevanza del rapporto tra uguaglianza e complessità ne Le Nozze di Figaro, che analizzo i due capolavori mozartiani invertendo l’ordine cronologico della loro stesura.

Nel 1787 Mozart compone le musiche del Don Giovanni, su libretto di Lorenzo Da Ponte. La collaborazione tra il compositore di Salisburgo e l’abate converso italiano ha avuto inizio qualche anno prima, nell’autunno del 1785 , quando Mozart  propone al letterato italiano la stesura di un libretto adattato su Le mariage de Figaro di Beaumarchais. Il Don Giovanni debutta il 29 ottobre a Praga, città dove  Mozart ha già rappresentato con successo le Nozze di Figaro.[12] L’opera, un adattamento de El burlador de Sevilla di Tirso de Molina, si basa in realtà su un successivo libretto d’opera.[13] Rispetto al moralismo cattolico che caratterizza il lavoro di Molina, ma anche rispetto al carattere farsesco che accompagna la figura di Don Giovanni nelle rappresentazioni teatrali del Settecento[14], l’opera di Mozart-Da Ponte presenta un complesso intreccio di caratteri e d’azione, il cui elemento forse maggiormente rilevante da un punto di vista sociologico è il crollo del prestigio sociale dell’aristocrazia, evidente nelle disavventure erotico-mondane del burlatore di Siviglia.  Vediamo in sintesi l’intreccio: Don Giovanni, mascherato, cerca di sedurre Donna Anna nelle stanze di quest’ultima. Alle sue grida, accorre il padre di lei, il Commendatore, che ingaggia un duello con l’assalitore ed è da questi ucciso. Riuscito a fuggire, Don Giovanni tenta nuove avventure, che avranno tutte cattivo esito, anche a causa dell’intervento di Donna Elvira, da lui sedotta e abbandonata. Cerca di insidiare Zerlina, nel giorno del matrimonio di questa con il contadino Masetto. Prova, nei panni di Leporello, suo servitore, a sedurre la cameriera della stessa Donna Elvira. In ultimo, rifugiatosi nel cimitero per sfuggire alle ire dei molti da lui gabbati,  invita temerariamente a cena la statua del Commendatore, animata dallo spirito di quest’ultimo. L’opera si conclude con l’inabissamento negli inferi del peccatore. La punizione finale del peccatore   («... Questo è il fin di chi fa mal! E de’ perfidi la morte alla vita è sempre ugual» ) è, in conformità con la morale corrente, più di maniera che non legata ad un effettivo sentimento di condanna della dissolutezza.

Dal punto di vista che qui ci interessa, due sono forse i momenti maggiormente significativi dell’intreccio drammatico:

1) Donna Anna, accompagnata da un suo devoto quanto inutile promesso sposo (Don Ottavio) si reca da Don Giovanni, chiedendo aiuto nella ricerca dell’assassino del Commendatore. L’arrivo di Donna Elvira, che mette in guardia i due sulle reali disposizioni morali del protagonista, fa rivivere in Donna Anna una serie di ricordi recenti. La dissolutezza dell’uomo confermata da Donna Elvira, ma soprattutto la voce, la convincono che Don Giovanni sia il suo assalitore, dunque l’assassino di suo padre. Dissoluta nobiltà non è, per Donna Anna, un ossimoro, bensì l’evidenza concreta di un’esperienza vissuta. Il debole Don Ottavio è, al contrario, allibito: il reprobo appartiene al suo stesso ceto sociale, un ceto composto da soggetti che condensano in sé ogni virtù e perciò con Don Giovanni, Don Ottavio crede di  condividere un mondo di valori e di abitudini, che rendono inconcepibile il binomio aristocrazia/misfatto.

2) Dopo i reiterati tentativi di Don Giovanni di sedurre Zerlina, il suo promesso Masetto, insieme ad altri contadini armati di fucili, è alla ricerca del seduttore con l’intento di trucidarlo. Di fatto lo incontra, ma questi, vestito con abiti semplici, riesce a farsi passare per Leporello. Appartatosi con  Masetto, Don Giovanni ne approfitta per malmenare l'incauto contadino. Al di là dell’insuccesso, la tentata punizione che Masetto organizza ai danni di Don Giovanni indica una frattura ormai irreparabile: quella tra ceti sociali. L’aristocrazia non solo ha perduto la propria funzione di equilibrio del complessivo ordine sociale, ma è anche oggetto possibile della rabbia dei ceti collocati ai gradini più bassi della scala sociale.[15] All’interno di uno spettacolo certo non destinato ai pari di Masetto, ma pure alle soglie della Rivoluzione Francese, la tensione egalitaria che agita le mani del contadino cozza contro la necessità di mantenere salde le differenze: l’ordine viene ristabilito, seppure proditoriamente (un aristocratico, nei panni di un servitore, rimette nei ranghi il contadino ribelle).[16]

Don Giovanni è l’opera della dissolutezza soggettiva di un aristocratico (ma anche, come riflesso, della dissolutezza del ceto cui questi appartiene). Idomeneo e Idamante (assunti qui a prototipi degli eroi dell’opera seria)  mostrano la forza ordinatrice della regalità. Se questa forza si tramuta in debolezza, il mondo perde il suo equilibrio, le forze della natura si ribellano, compaiono mostri marini prima nascosti negli abissi: l’ordine va ristabilito. Il padre si accinge così ad uccidere il figlio e il figlio, dal canto suo, porge senza timore il petto al padre. L’eccezionalità del gesto dà anche conto dell’eccezionalità morale di entrambi, a cui è legata la legittimazione del potere. Al contrario, Don Giovanni dimostra come non esistano diversità antropologiche tra i nobili e chi appartiene ad altro ceto sociale. Si è ormai fatta strada la convinzione che le differenze di ceto, sebbene abbiano conseguenze reali nella distribuzione della ricchezza e del potere, non rappresentino un dato di fatto irremovibile, ma abbiano natura ideologica, nascano cioè da un complesso di rappresentazioni sociali: e le rappresentazioni sociali sono, come è ovvio, soggette al tempo, all’erosione, al cambiamento.[17] Don Giovanni è testimone, per certi versi vittima, di questo cambiamento: non sembra più in grado di dare forma e ordine al mondo, ma solo di costruire, seguendo la trama ininterrotta dei suoi appetiti sessuali, un’altra trama, quella della rappresentazione teatrale. L’aristocratico, in balia degli istinti, per soddisfare i propri desideri, attiva disordine e scompiglio. Ma è proprio nel disordine che si annidano i presupposti di una accresciuta complessità.

In che modo l’apparente disordine indica complessità incipiente? Il calo del prestigio sociale dell’aristocrazia è solo il dato emergente di una situazione in rapido mutamento. Don Giovanni documenta in musica il declino di un ceto (peraltro in maniera molto più evanescente di quanto non abbia fatto ad esempio Goldoni in una serie di tipi che nella sua produzione rappresentano efficacemente il nobile decaduto). La coppia Mozart-Da Ponte fornisce all’ascoltatore un’indicazione: il decadimento politico e economico della nobiltà rende palese anche l’impossibilità di distinguere dal punto di vista etico e in relazione ai valori il nobile da tutti gli altri individui. Per la caratteristica dell’intreccio fondato sulla logica del desiderio e sul bisogno diffuso della condanna del reo, ma anche per il fatto che l’idea di uguaglianza è acquisita qui solo come negazione delle differenze morali tra appartenenti a ceti diversi, Don Giovanni ci dice  poco sui meccanismi attraverso i quali una minore incidenza delle differenze sociali può produrre una concomitante complessificazione dell’azione sociale.

Le Nozze di Figaro, prima opera frutto della collaborazione tra Mozart e Da Ponte, fornisce al riguardo indicazioni molto più interessanti. Ciò dipende, anzitutto, dalla fonte individuata per dare avvio alla collaborazione: Le Marriage de Figaro di Pierre-August de Beaumarchais rappresenta  la forma più avanzata assunta dal teatro borghese di fine Settecento. Nella commedia, la critica anti-nobiliare assume non tanto una dimensione occasionale (come nel Don Giovanni), bensì è il fulcro su cui si snoda complessivamente l’azione. Figaro è per il commediografo francese il portavoce di una nuova ideologia: è l’uomo dei tempi nuovi, colui il quale, con l’ingegno e l’intelligenza, riesce a manovrare l’ormai imbelle nobiltà. La critica anti-aristocratica così esplicita nella commedia di Beaumarchais, aveva comportato il suo bando nei territori dell’Impero Asburgico. Da Ponte riesce ad ottenere dallo stesso Giuseppe II l’autorizzazione alla stesura del libretto, ma deve mitigare il più possibile la vena violentemente polemica della fonte.[18] Oltre ad una esemplificazione di carattere ideologico, Da Ponte deve anche operare una esemplificazione di ordine strutturale. Ciò prioritariamente per due motivi: da un lato, la necessità di rispettare i canoni stilistici dell’opera buffa; dall’altro il bisogno di concentrare l’eccessiva varietà e ampiezza de Le Marriage de Figaro, impossibili da trasporre integralmente in un libretto d’opera.[19] Ciononostante, e nonostante la sistematica edulcorazione della polemica antinobiliare, Le nozze di Figaro presentano nell’intreccio i nuclei essenziali che consentono di individuare l’incipiente passaggio alla modernità.

Ripercorriamo brevemente la trama dell’opera. Figaro scopre con sorpresa che il suo padrone, il Conte d’Almaviva, da cui ha ricevuto il consenso di sposare Susanna, pur avendo abolito lo jus primae noctis, pretende attenzioni dalla sua promessa sposa. Allo sconcerto iniziale segue il desiderio di vendicarsi. L’intreccio si complica, dal momento che l'attempata Marcellina, in ciò supportata dal Conte, pretende di sposare Figaro sulla base di un contratto in cui quest’ultimo si impegna al matrimonio in cambio di una somma di denaro ottenuta in prestito. Nel frattempo, il Conte chiede un appuntamento segreto a Susanna, anche se smania di gelosia perché è convinto che la contessa sia innamorata del paggio Cherubino. Susanna, aiutata dalla contessa, scrive una lettera al conte, fissando un appuntamento serale in giardino. All’appuntamento si presenterà però la contessa, travestita da Susanna. Figaro, cui è giunta notizia dell’incontro,  è convinto che Susanna sia sul punto di tradirlo, mentre il conte, ignaro di tutto, bacia  teneramente la mano di colei che non sospetta essere sua moglie. Nel finale, si risolveranno tutti gli equivoci, la contessa perdonerà il tentato tradimento del coniuge e le nozze di Figaro potranno, finalmente, celebrarsi. 

Nonostante la compressione del materiale tratto dalla commedia di Beaumarchais, Le nozze di Figaro forniscono indicazioni interessanti sul rapporto uguaglianza-azione-complessità. È infatti l’abolizione dello jus primae noctis a cui va imputata la responsabilità dell’innesco della trama. Lo jus primae noctis altro non è che un privilegio, vale a dire, in termini tecnici, un diritto soggettivo di categorie sociali particolari, dunque una forma giuridica fondata sulla disuguaglianza.[20] Immaginiamo per un attimo di riscrivere la trama dell’opera partendo dal presupposto che nei territori del conte non sia stato abolito il diritto che consente al nobile di mettere alla prova le virtù delle promesse spose: ci accorgiamo immediatamente dell’impossibilità di strutturare  l’intreccio. L’opera comincerebbe e finirebbe con l’esercizio di un diritto: si assisterebbe impotenti ad un atto probabilmente brutale, perfettamente legittimato però da una forma giuridica che tiene conto delle differenze sociali, sulla cui base vengono stabiliti i criteri per definire ciò che è consentito e a chi. La rilevanza della gerarchia, tradotta in differenza giuridica, consentirebbe al conte di soddisfare sbrigativamente un capriccio e la trama verrebbe, così, brutalmente  interrotta. È solo quando il conte è costretto a soddisfare i propri appetiti partendo da una posizione paritaria rispetto a Figaro (paritaria, si intende, solo limitatamente al diritto di godere delle grazie di Susanna) che le cose si complicano. Non potendo semplicemente pretendere una notte d’amore dalla cameriera della moglie, egli sarà costretto a costruire in maniera più complessa le proprie strategie. Dovrà infatti progettare la propria azione tenendo presente una serie di risorse a sua disposizione, ma anche un insieme di condizioni frapposte alla realizzazione dei suoi scopi. Dovrà, dunque, mettere in conto gli sforzi di persuasione rivolti a Susanna, ma anche la necessità di celare le sue intenzioni a Figaro e alla contessa; ma dovrà anche utilizzare con competenza il proprio potere posizionale per rimandare le nozze e giustificare adeguatamente con gli altri le modalità del proprio comportamento. Ed è sempre la scomparsa di un privilegio (dunque la delimitazione dell’area delle differenze e l’incremento di quella dell’uguaglianza) che produce ulteriore azione e ulteriori complicazioni nella trama. Solo l’abolizione del privilegio giustifica  la volontà di vendetta di Figaro, la burla ordita ai danni del conte da Susanna e dalla contessa, la moltiplicazione degli equivoci e dei malintesi, la soluzione dell’intrigo nel perdono finale.

Una società strutturata sulla base di differenze stabilite una volta per tutte, irremovibili, è una società a complessità congelata. Le differenze stabiliscono infatti rigidamente ciò che pertiene a ciascuno individuo, sulla base della sua appartenenza di ceto. Accanto alla predefinizione delle appartenenze, viene anche predefinito il destino individuale, e con esso le possibilità di azione individuale e collettiva: le differenze, una volta stabilizzate come differenze insuperabili (i sociologi parlano in questo caso della rilevanza sociale delle qualità ascritte), generano un contesto sociale ad alta prevedibilità. Al contrario, quanto meno prevedibili diventano le differenze, quanto più esse si strutturano sulla base di uguaglianze formali, tanto più variegata diviene l’azione sociale e tanto più complessa la struttura della società. La tendenza alla simmetrizzazione (quantomeno formale) dei rapporti sociali ha una molteplicità di conseguenze, difficili da sintetizzare e tutte altamente rilevanti sul piano storico e  insieme sociologico. Una di queste, sicuramente meno essenziale di altre, coincide con le nuove possibilità per gli intrecci comici. La buffa uguaglianza è però un indicatore da non trascurare: consente infatti di riflettere sul rapporto tra uguaglianza e complessità.   

V

Finale

Sebbene l’uguaglianza abbia, incidentalmente, effetti comici, si tratta in realtà di un concetto serissimo, sempre presente nell’evoluzione del pensiero politico, giuridico, filosofico e sociale dell’Occidente. La sua presenza costante non deve però trarre in inganno: il concetto di uguaglianza è, infatti, un concetto polisemico, privo di referenze oggettive. Il suo contenuto muta in riferimento ad una pluralità di fattori, non ultimo il tipo di struttura sociale in cui prende corpo e assume significato. Alfred Schütz direbbe che il concetto di uguaglianza è sempre relazionale e impone a chi lo utilizza di partire dell’interrogativo uguale rispetto a chi? o rispetto a che cosa?[21]

La complessità del concetto di uguaglianza mi impedisce di analizzare in maniera adeguata l’insieme delle sue implicazioni.[22]  Mi limito qui a abbozzare alcune considerazioni preliminari, legate alla variabilità del concetto in relazione a cambiamenti strutturali della società.

Società semplici si differenziano sulla base della ripetizione di un modello. La società risulta dunque dalla somma di segmenti tra loro indistinguibili, dotati di un’identica struttura (ad esempio, l’insieme dei clan legati ad una stessa etnia). È questa ripetitività del modello che fa parlare di società segmentarie.  Uguali sono dunque non gli individui, ma i sottosistemi (o segmenti) nei quali si differenzia la società al suo interno. È chiaro che una tale struttura implica scarsa complessità, in quanto il sistema sociale risulta dalla giustapposizione di strutture più piccole, tra loro sostanzialmente identiche, che svolgono dunque un medesimo insieme di funzioni.[23]  L’incremento della complessità implica il passaggio ad una diversa logica della differenziazione. La società dell’Occidente medievale si struttura, ad esempio, in relazione alla separazione netta tra ceti. Ogni strato della società è ordinato all’interno di una scala gerarchica, in modo tale che l’ordine sociale può rappresentarsi utilizzando il simbolo della piramide. Il ceto superiore (la nobiltà) addensa in sé funzioni d’ordine, di indirizzo politico, di controllo delle rappresentazioni simboliche: si parla in questo caso di differenziazione stratificatoria.  La complessità è incrementata rispetto al modello della differenziazione segmentaria, per il semplice fatto che ciascun sottosistema (ciascuno strato) svolge un insieme differenziato di funzioni e consente ai suoi esponenti possibilità differenziate d’azione: l’azione di ogni individuo è resa possibile e contemporaneamente delimitata dall’appartenenza di ceto.  All’interno di questa forma della differenziazione, l’uguaglianza ha senso solo in relazione al raffronto tra appartenenti al medesimo strato sociale. La comparabilità (del valore, del prestigio, del potere, delle virtù) è un esercizio che deve tenere conto delle differenze cetuali. [24]

Man mano che si sgretolano le differenze stabilizzate per ceto, compare una nuova dimensione dell’uguaglianza. I teorici del contratto sociale, almeno da Grozio in poi, ipotizzano un luogo (storico o simbolico poco importa) al cui interno gli uomini sono congenitamente uguali. Stato di natura è questo luogo dell’uguaglianza. Qui gli uomini appaiono dotati di un insieme di diritti naturali che li rende sostanzialmente liberi e uguali. Ciò comporta due linea di pensiero, profondamente differenziate, una ancora legata ai caratteri cetuali della società di Ancien  Régime, l’altra maggiormente vicina alle necessità strutturali della modernità. Nel primo caso, il contratto sociale segna il passaggio dall’uguaglianza dello stato di natura alle differenze tipiche della convivenza in società. Il ragionamento è di questo tipo: perché la società possa adeguatamente funzionare, è necessario che ci siano potenti e subordinati, ricchi e poveri, nobili e plebei. Le differenze sembrano un requisito indispensabile della società civile e la loro stabilizzazione una garanzia d’ordine.[25] L’altra linea di pensiero indica nell’uguaglianza, garantita dalla politica e dal diritto, l’alternativa alla logica delle differenze necessarie. L’uguaglianza – e questa è l’eredità che le democrazie di Welfare hanno ricevuto dall’evoluzione del pensiero politico tra Sette e Ottocento – non è solo una qualità dell’uomo naturale, ma è un fine, cui deve tendere la società. Al di là degli esiti di questa concezione dell’uguaglianza, e al di là del suo utilizzo spesso in chiave  consolatoria o   legittimante il potere politico, qual è la funzione dell’accresciuta centralità del concetto?

Ricorro brevemente  ad un topos della riflessione sociologica: Durkheim e la sua distinzione tra solidarietà meccanica e solidarietà organica. Tale distinzione rimanda chiaramente al processo di  incremento di complessità della società moderna, con conseguente mutamento delle forme attraverso le quali i legami sociali si cementano e si tengono insieme. Se la solidarietà meccanica prevede relazioni sociali di tipo semplice, strutturate sulla base di una scarsa differenziazione di compiti, ruoli e funzioni, la solidarietà organica è il portato di una struttura sociale maggiormente complessa, in cui ciascuno svolge compiti non facilmente intercambiabili. In questo secondo caso, la solidarietà si fonda essenzialmente sull’intreccio funzionale delle relazioni tra soggetti: ognuno è indispensabile, anche perché è indispensabile  il tipo specifico di azione in cui egli è specializzato. La società viene concepita sul modello del corpo, e come nel corpo le interconnessioni tra i diversi organi sono funzionalmente determinate, così tra ciascuna tipologia di azione e tutte le altre, tra ciascun compito e i compiti attigui, si stabilisce un rapporto di tipo funzionale, per il quale l’integrazione del tutto dipende dalla corretta integrazione delle parti. Perché le esigenze funzionali della società vengano soddisfatte, è però indispensabile immaginare un individuo almeno formalmente libero dalle vecchie costrizioni, cioè (almeno formalmente) uguale agli altri individui. Ciò comporta un processo collaterale: quello dell’individualizzazione. La consapevolezza della propria rilevanza funzionale porta il soggetto a concepire se stesso non solo come membro di un gruppo (si pensi al ceto e alla gilda così tipici dell’organizzazione sociale del Medioevo), bensì come individuo autonomo, capace di scelte soggettive.

Si genera, così, uno degli esiti paradossali dell’idea di uguaglianza sviluppatasi nella modernità. L’uguaglianza (formale) implica un incremento delle possibilità d’azione per il soggetto, incremento legato all’allentamento dei vincoli di appartenenza ad un determinato ceto o gruppo sociale. A questo processo vanno connessi  fenomeni espressamente moderni (maggiore mobilità sociale, maggiore rilevanza dei caratteri acquisiti rispetto a quelli ascritti, minori vincoli reverenziali alla tradizione, secolarizzazione ecc.). Tutto ciò è però il presupposto per nuove e più accentuate differenze, che dipendono non più dall’appartenenza, ma dalla complessità che è il risultato della perdita di rilevanza dell’appartenenza. L’uguaglianza formale trasforma differenze sociali stabili in differenze dinamiche, valide non una volta per tutte, ma solo fino a prova contraria. Semplificando si può sostenere che l’evoluzione della moderna idea di uguaglianza produce individui che pretendono di affermare la  propria specifica identità: formalmente uguali e per questo depositari del diritto all’autodeterminazione, dunque del diritto alla differenza.[26]  

Dal punto di vista strutturale, questa perdita graduale di rilevanza dell’appartenenza porta con sé l’affermazione di una nuova forma della differenziazione sociale, cui ci si riferisce con l’espressione  differenziazione funzionale. La società non è più differenziata in riferimento agli strati, bensì sulla base della funzione svolta dai singoli sottosistemi al cui interno si organizza l’azione e la comunicazione socialmente rilevanti (tra gli altri, il sistema economico, il sistema politico, il sistema giuridico, la scienza, ecc.). La stratificazione si definiva in riferimento all’ordine gerarchico,  che consentiva di individuare un nucleo predominante, coincidente con il vertice della società (dunque con il ceto nobiliare). La società differenziata funzionalmente, al contrario, ha questo di peculiare: che non è più possibile stabilire priorità tra i singoli sottosistemi. In quanto svolge una funzione specifica, che può essere attuata solo al suo interno, nessuno dei sottosistemi può essere gerarchicamente superordinato agli altri.[27] L’affermazione moderna dell’idea di individuo coincide con il passaggio a questa forma di differenziazione. Una volta che la struttura cetuale è stata smantellata, i sistemi sociali che gradualmente prendono il suo posto manifestano la necessità di meccanismi nuovi attraverso i quali riferirsi ai singoli attori sociali e l’appartenenza di ceto non è più sufficiente. Il solo riferimento all’individuo (formalmente uguale rispetto ad altri individui) consente la sua inclusione nei diversi ambiti funzionalmente differenziati, senza che sia necessario tener conto dell’origine di ciascuno. Individuo è dunque idea tipica della modernità: attraverso quest’idea il soggetto potrà definire la propria identità come differenza rispetto all’ambiente e i sistemi potranno riferirsi ai singoli, alle loro specificità, senza bisogno di passaggi intermedi. Tutto ciò non significa, come è ovvio, che con la modernità si sia risolto il problema dell’uguaglianza. La società contemporanea non è società di eguali. Al contrario, l’operare dei singoli sottosistemi, a fronte di una proclamata uguaglianza di opportunità, incrementa in maniera esponenziale differenze iniziali minime (un prestito verrà concesso solo a chi fornirà garanzie, chi proviene da un contesto familiare adeguato porterà a scuola un capitale culturale che gli consentirà di progredire più rapidamente di altri, ecc.).[28] L’uguaglianza diviene semmai un problema di natura politica e i meccanismi di delimitazione delle disuguaglianze una questione aperta di discussione pubblica. La società contemporanea rende solo più complesso, articolato e intricato il riferimento alla distinzione uguale/diseguale. Con l’affermazione della differenziazione funzionale, si moltiplicano infatti gli spazi al cui interno la distinzione uguale/diseguale acquisisce senso. Uguaglianza e disuguaglianza vanno precisate in riferimento al sistema specifico cui di volta in volta l’osservatore si riferisce:

 “Disuguale è adesso ciò che, nelle operazioni interne dei sistemi di funzione deve essere trattato come disuguale, affinché quei sistemi possano attuare la propria funzione. A questo punto, la forma uguaglianza non significa più: riconoscimento dell’essenza in riferimento a somiglianze e differenze, bensì dinamizzazione del sistema sociale complessivo, sulla base della ripetizione dell’interrogativo se qualcosa sia uguale o disuguale”[29].

In questo modo i singoli sistemi sociali attivano uguaglianze rilevanti nel loro ambito funzionalmente differenziato, allo scopo di determinare inclusioni e di attivare contemporaneamente esclusioni, dinamizzando la società nel suo complesso. Il soggetto, privo dei riferimenti di ceto, perde i parametri di orientamento al mondo, a cui sostituisce parametri provvisori attraverso cui orientarsi in ambiti frammentati, spesso in contraddizione reciproca.  Tutto ciò produce, inevitabilmente, una soggettiva perdita di senso, accompagnata da un processo collaterale di ulteriore individualizzazione, vale a dire un processo soggettivo di rifiuto di legami sociali stabili orientati all’azione pubblica.[30] Si tratta di processi complessi, ai quali la sociologia ha da tempo rivolto la sua attenzione, cui non posso se non accennare nello spazio breve di questo mio divertissement. La destabilizzazione delle certezze, al di là delle difficoltà soggettive che essa produce, dei problemi sociali che essa comporta, è legata comunque ad un processo di trasformazione della complessiva geografia sociale.

Le opere buffe, Le nozze di Figaro in particolare, evidenziano come lo smantellamento delle antiche certezze, delle inveterate differenze, dei privilegi tradizionali, produca sì insicurezza, ma contemporaneamente  anche azione, incremento della comunicazione, individuazione di tattiche e strategie socialmente adeguate. Senza un abbozzo del concetto moderno di uguaglianza, Figaro avrebbe condiviso la sua sposa con il Conte di Almaviva, e questa condivisione non avrebbe, con tutta probabilità, particolarmente turbato i protagonisti dell’intreccio. Alla fissità della tradizione, Figaro e i personaggi che lo attorniano sostituiscono il bisogno di individuare azioni adeguate al contesto, di mobilitare le intelligenze, le risorse individuali e sociali. Rispetto alla fissità dell’opera seria, la commedia dimostra le implicazioni evolutive dell’abbattimento delle differenze: ci dice poco sul percorso che la società contemporanea ha appena intrapreso (globalizzazione, società mondo, comunicazione, rete sono ovviamente concetti sconosciuti a Figaro) ma ci fornisce indicazioni sul percorso che abbiamo fin qui compiuto.

Mariano Longo
Università di Lecce


 

[1] Sul modello di D. S. Hachen Jr., La sociologia in azione. Come leggere i fenomeni sociali, Carocci, Roma, 2003. 

[2] Dal Flauto magico come metafora del potere e della funzione della politica parte A. Illuminati, Gli inganni di Sarastro. Ipotesi sul politico e sul potere, Einaudi, Torino, 1980. Oltre ad Illuminati, ho conoscenza di altri due lavori di sociologi espressamente dedicati a Mozart. Il primo e più recente è di Norbert Elias, Mozart. Sociologia di un genio, Il Mulino, Bologna, 2000. In questo saggio, Elias descrive il rapporto tra individuo e società, di cui si era occupato già in La società degli individui (Il Mulino, Bologna, 1990), dimostrando come la genesi del genio dipenda, oltre che da disposizioni individuali, anche dallo specifico contesto socio-culturale. Anche Alfred Schütz si è occupato di Mozart in un raffinatissimo saggio che, per le conoscenze musicali dell’autore, fa riferimento esplicito alla tessitura musicale, oltre che alla trama, delle opere di Mozart. Cfr. A. Schütz, «Mozart and the Philosophers», in Id., Collected Papers, Martinus Nijhoff, The Hague, 1964,  vol. II, pp. 179-200.

[3] La composizione di opere era l’unica attività che consentisse a un musicista di fine Settecento di affrancarsi dal mecenatismo nobiliare. Per Mozart tale attività rappresentava dunque un importante strumento di indipendenza, insieme economica e creativa. Mozart inaugura, nell’ultima fase della sua vita, una nuova figura di compositore, svincolato dalla subordinazione ad una corte, e in questo rappresenta, nel campo della musica, il nuovo tipo del borghese attivo. Cfr. A. Steptoe, The Mozart-Da Ponte Operas. The Cultural and Musical Background to Le nozze di Figaro, Don Giovanni, and Così fan tutte, Claredon Press, Oxford, 1990, p. 41.  

[4] Per un approfondimento rimando a R. Golding, An Operatic Turning-point. Mozart’s “Idomeneo”, saggio introduttivo al libretto allegato alla registrazione Philips dell’Idomeneo diretto da Sir Collin Devis. 

[5] Cfr. A. Schütz, «Mozart and the Philosophers», op. cit., p. 191: «The persons of the play think in sounds, and sounds are their language. Thus music obtain a dominant position, and as a result the opera of the Italian type transcends the realm of the drama: it becomes entirely detached from the reality of life and develops its particular style by using forms that are specific for the world of sound ».

[6] Onore che qui si configura come fedeltà alla patria. È un dissidio ben noto a chi è appassionato dell’opera ottocentesca, in particolare verdiana: si pensi ad Aida.   

[7] Cito dal libretto: «Idamante: Oh padre!.../Ah non t’arresti inutile pietà,/Né vaga ti lusinghi / Tenerezza d’amor. Deh vibra il colpo [...] Idomeneo: Oh qual mi sento/ In ogni vena insolito vigor?.../Or risoluto io son ... l’ultimo amplesso/ ricevi ... e mori».

[8]Si tratta di un processo di edulcorazione dei sentimenti: si pensi ad esempio all’Orfeo e Euridice di  Glück  in cui il librettista, per non turbare gli animi sensibili del proprio uditorio, concede ad Orfeo, nonostante il suo voto mancato, di recuperare dagli inferi Euridice.

[9]Cfr. M. Dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociali, Einaudi, Torino, 1957.

[10]Cfr. R. Strohm, L’opera italiana del Settecento, Marsilio, Venezia, 1991, p. 113 e sgg.   

[11] Sulla trama, ma anche sui caratteri musicali dei personaggi di Larinda e Vanesio cfr. il citato volume di R. Strohm, in particolare le pp. 122-126.

[12] Cfr. A. Steptoe, op. cit, p 3. 

[13] Cfr. ivi, p. 117.

[14] Cfr. ivi, pp. 115-116.

[15] È evidente che episodi, anche violenti e diffusi, di ribellione contro la nobiltà non fossero una novità settecentesca. Si pensi alla rivolta contadina del 1524 capeggiata da Müntzer nella Germania della Riforma Luterana. Si pensi  inoltre alla rivolta di Masaniello nella Napoli di metà Seicento. O alla più sistematica Rivoluzione Inglese e alle idee democratiche dei livellatori. Interessante è però il clima complessivo prodotto dalle idee illuministiche che consentono di introdurre la polemica antinobiliare all’interno di una rappresentazione destinata ai ceti superiori della società.

[16] La polemica antinobiliare è uno dei topoi dell’Illuminismo. Cfr. O. Dann, Gleichheit, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (a cura di.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutchland, vol. 2, Klett-Cotta, Stuttgart, 1979, p. 1014 e sgg. In Italia, basterebbe far riferimento al Parini e al suo Dialogo sopra la nobiltà, oltre che, ovviamente, al Giorno. Il legame tra Parini e Mozart segue peraltro anche altre strade. Il poeta italiano è autore del libretto dell’Ascanio in Alba, una festa teatrale musicata da Mozart nel 1771 in occasione del fidanzamento tra l’arciduca Ferdinando, figlio dell’Imperatrice d’Austria Maria Teresa, e Maria Beatrice d’Este, figlia del Principe di Modena.

[17] A. Steptoe, op. cit., pp. 113-114, sottolinea come l’opera buffa aveva già da tempo ridicolizzato personaggi aristocratici. L’autore cita come esempio il marchese di  Ripafratta nell’opera L’infideltà delusa di Hayden, datata 1773. Negli anni 80 del Settecento la nobiltà appare, soprattutto nei romanzi in prosa, anche in vesti meno rassicuranti. I suoi membri approfittano dei propri privilegi e del loro potere, spesso per attentare alla virtù di fanciulle non nobili. Si costruisce in tal modo una morale borghese che prenderà forma sempre più articolata nel corso del XIX secolo.  

[18] Cfr. A. Steptoe, op. cit., p. 1.

[19] Cfr. ivi, p. 109 e sgg.

[20] Rimando a un classico della Rivoluzione Francese: E. -J. Sieyès, Saggio sui privilegi, in Che cos’è il terzo stato, Ed. Riuniti, 1972, pp. 53-54.

[21] Cfr. A. Schütz, «Equality and the Meaning Structure of the Sociale World», in Id., Collected Papers, Martinus Nijhoff, The Hague, 1964,  vol. II, p.240. La versione italiana del saggio è nella traduzione parziale dei Collected Papers curata da A. Izzo e pubblicata presso UTET nel 1979 con il titolo Saggi sociologici.  

[22] Solo per accennare alle problematiche che il concetto comporta, si potrebbe far riferimento alla distinzione tra l’idea di uguaglianza tipica della logica e della matematica (A=A, in cui uguaglianza coincide con identità) e l’idea di uguaglianza interna alle scienze umane (uguaglianza rispetto ad aspetti specifici: uguale dignità, uguale diritto d’accesso a beni socialmente disponibili, uguaglianza del trattamento giuridico ecc.).

[23] Cfr. N. Luhmann-R. De Giorgi, Teoria della società, Angeli, Milano, 1994, p. 260.

[24] Cfr. O. Dann, op. cit.,  p. 1003.

[25] È questa la posizione di Hobbes come pure, sebbene in una versione profondamente mitigata, quella dei giusnaturalisti di area tedesca come Heinecke, Pufendorf, Wolff.

[26] Impostazione analoga, ben altrimenti articolata dal punto storico e teorico è in R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Bompiani, Milano, 1982.

[27] Cfr., a tal proposito, N. Luhmann-R. De Giorgi, op. cit., p. 247 e sgg.

[28] Così R. De Giorgi, «Modelli giuridici dell’eguaglianza e dell’equità», in Sociologia del diritto, vol. XXII, n. 1, 1991, p. 32.

[29] N. Luhmann, Das Recht der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1995, p. 112.

[30] Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994, ma anche Z. Baumann, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna, 2001.


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