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Maynard Solomon

L'ULTIMO VIAGGIO

[«Mozart», Milano, Mondadfori, 1996, pp. 443-452]

 

Franz Xaver Niemetschek, il primo fra i biografi di Mozart che riportò il racconto di Constanze sulla commissione del «Requiem», osservò che la «vicenda della sua ultima opera [...] è tanto misteriosa quanto degna di nota». Un giorno, nell'estate del 1791, «uno sconosciuto messaggero» portò «una lettera senza firma» chiedendo a Mozart se fosse disposto a scrivere una messa da requiem e, nel caso, di definire i termini di pagamento e di consegna. Sul compenso ci si accordò facilmente e Mozart venne invitato a non fare tentativi «di conoscere l'identità del committente, sforzo che comunque sarebbe risultato vano». Alla fine di agosto, mentre stava per lasciare Vienna alla volta di Praga, Mozart fu perseguitato dall'impaziente messaggero, che «sorse come un fantasma» e gli chiese: «Che fine farà ora il 'Requiem'?». Alla fine, negli ultimi giorni, Mozart giunse a identificare la propria morte con l'opera, convinto di stare componendo «il 'Requiem' per sé stesso». Alla sua morte, racconta Niemetschek, l'opera incompiuta venne sottratta dal «misterioso messaggero» e ogni sforzo di identificare il committente «è rimasto vano». Ovviamente, la storia degli ultimi giorni di Mozart è entrata nella leggenda: un ignoto messaggero recapita una convocazione dall'aldilà per preparare un eroe predestinato a un appuntamento a Samarcanda.
Ora, la storia è bizzarra, ma non così oscura come sembrò un tempo. Il conte Walsegg insistette sull'anonimato della commissione per un motivo molto semplice: aveva intenzione di far passare l'opera come propria. Secondo le memorie di uno dei suoi musicisti, il conte si era accordato con «diversi compositori [...] perché gli fornissero opere, su cui lui avrebbe poi avuto proprietà esclusiva». I compositori, primo fra tutti Franz Anton Hoffmeister, venivano pagati profumatamente e forse sapevano che nei suoi concerti privati bisettimanali Walsegg faceva credere che le opere, in genere quartetti per flauto, fossero di sua composizione: «In genere copiava di proprio pugno le partiture che si faceva dare in segreto. [...] Noi dovevamo indovinare il compositore. In genere, indicavamo il conte stesso [...]; al che lui sorrideva, soddisfatto di essere riuscito (o così credeva) a ingannarci; noi però ridevamo del fatto che ci ritenesse così ingenui». Niemetschek vide una lettera in cui lo «sconosciuto» committente chiedeva a Mozart non solo di mandargli il «Requiem», ma anche di fissare «una somma in cambio della quale si sarebbe impegnato a comporre ogni anno un certo numero di quartetti». Inoltre, tenendo conto che Hoffmeister era intimo amico ed editore di Mozart, e che Puchberg viveva nella stessa casa del conte Walsegg, può darsi benissimo che Mozart fosse a conoscenza dell'identità e delle intenzioni del committente e che avesse acconsentito all'accordo in cambio di un lauto compenso.
Si disse che come anticipo aveva ricevuto dai 30 ai 50 ducati e che, alla consegna dell'opera, Constanze ricevette altri 100 ducati. Probabilmente, a Mozart era stato chiesto di consegnare il manoscritto in tempo per l'anniversario della morte della contessa Walsegg, scomparsa nel febbraio precedente. Fu solo due anni dopo, il 14 dicembre I793, che i musicisti di Walsegg, integrati da altri professionisti, eseguirono il «Requiem» nel coro dell'abbazia cistercense e chiesa parrocchiale di Wiener-Neustadt, replicandolo il 14 febbraio 1794 nella chiesa di Maria-Schutz di Semmering. Quando in seguito l'opera fu pubblicata e la paternità di Mozart rivelata, Walsegg ne fu così umiliato da prendere «seri provvedimenti».
Mozart non poteva cominciare a lavorare seriamente al «Requiem» fino a quando non avesse onorato le commissioni per le due opere teatrali, visto che ancor prima di aver ultimato «Il Flauto magico si ritrovò occupato a tempo pieno con «La clemenza di Tito». Verso il 25 agosto, dopo aver accompagnato il figlio Karl alla scuola privata di W.B. Heeger a Perchtoldsdorf, partì alla volta di Praga per l'incoronazione di Leopoldo II. Constanze, che probabilmente non voleva lasciarlo viaggiare da solo, lo accompagnò nonostante avesse partorito soltanto un mese prima. Insieme a loro, andò come assistente un allievo di Mozart, il giovane compositore Franz Xaver Sussmayr, che forse compose i recitativi secchi della «Clemenza di Tito».
I tre arrivarono a Praga il 28 agosto e alloggiarono con ogni probabilità a villa Bertramka, ospiti dei Duschek, fino al momento di tornare a casa, il 15 settembre. Durante i festeggiamenti per l'incoronazione furono in molti ad ascoltare la musica di Mozart: il 1° settembre venne eseguita una trascrizione del «Don Giovanni» per orchestra di fiati e il giorno seguente l'opera venne rappresentata per il seguito dell'imperatore al Teatro Nazionale di Praga (Standetheater), dove fra il pubblico, «numerosissimo», fu visto anche Mozart. La prima dell'opera per l'incoronazione, «La clemenza di Tito», ebbe luogo il 6 settembre al Teatro Nazionale sotto la direzione di Mozart e alla presenza dell'imperatore e dell'imperatrice. Nel frattempo, pare che il 6, l'8 e il 12 del mese siano state eseguite nelle chiese alcune messe di Mozart sotto la direzione di Salieri; sicuramente furono suonate in vari balli, compreso quello del 12 settembre patrocinato dagli Stati boemi (l'organismo di governo della Boemia), le danze di Mozart.
Ma la quantità delle rappresentazioni non fu sufficiente a fare del viaggio un vero e proprio trionfo. «La clemenza di Tito non piacque: pare che l'imperatrice Maria Luisa la definisse una «porcheria tedesca» e in una lettera scrisse che «l'opera di gala non era un granché e la musica era così brutta che quasi ci addormentavamo tutti». Una seconda rappresentazione non fece registrare una grande affluenza di pubblico e successivamente Guardasoni chiese il rimborso delle perdite, che attribuì alla concorrenza di altri spettacoli organizzati per l'occasione e a «un certo pregiudizio contro la composizione di Mozart». Un «Diario dell'incoronazione» dell'epoca spiegò il fallimento di Mozart in questi termini: «La composizione è del celebre Mozart e gli fa onore, anche se non ha potuto dedicarvi molto tempo e ha dovuto ultimarla pur essendo ammalato». Niemetschek fornisce un'altra spiegazione, sostenendo che il pubblico era così «ebbro di danze, di balli e di feste» durante i festeggiamenti che «non era certo in grado di gustare le semplici bellezze dell'arte di Mozart».
Il 10 settembre Mozart visitò la loggia praghese «Zur Wahrheit und Einigkeit» (Alla verità e unità), dove venne eseguita la sua cantata «Die Maurerfreude (La gioia del massone) K. 47I, una celebrazione della saggezza imperiale, come tributo massonico ai fosteggiamenti per l'incoronazione. Pochi giorni dopo (forse il 15), questa frenetica attività si concluse e cominciò il viaggio di ritorno verso casa.
A Praga Mozart era già malato. «Già a Praga Mozart non si sentì bene e dovette continuamente consultare i medici» scrisse Niemetschek. «Il suo colorito era pallido e il suo viso triste, sebbene, in compagnia dei suoi amici, il suo umore allegro ancora si spandesse sovente in scherzi gioiosi.» Ma non poteva permettersi di ammalarsi. Entro il 28 settembre diede gli ultimi ritocchi al «Flauto magico» e presenziò alla prima, il 30 settembre al Freihaustheater, dirigendo egli stesso dal pianoforte. Benché queste prime rappresentazioni non siano state recensite, fu subito chiaro che Mozart e Schikaneder avevano ottenuto un grande successo, poiché l'opera attirò folle immense e nel corso degli anni Novanta fu rappresentata centinaia di volte. La gioia di Mozart si riflette nelle sue ultime tre lettere a Constanze che, insieme alla sorella Sophie, trascorreva la seconda settimana di ottobre a Baden. «Torno ora dall'opera; era affollato come sempre» scrisse il 7 ottobre, elencando i brani di cui era stato richiesto il bis. «Ma quello che mi fa più piacere è l'approvazione muta! Si vede bene quanto quest'opera stia crescendo sempre più nella stima del pubblico.»
Era in uno stato d'animo euforico, accresciuto ulteriormente dalla lettera che Stadler gli aveva mandato da Praga, con le buone notizie sulla «Clemenza di Tito»: «La cosa più straordinaria è che la sera stessa in cui la mia nuova opera è stata rappresentata per la prima volta con tanto successo, a Praga hanno dato l'ultima rappresentazione del «Tito», che ha riscosso ugualmente uno straordinario successo».
Andava a sentire la sua opera quasi tutte le sere, portandosi appresso parenti e colleghi musicisti. «Leutgeb mi ha pregato di accompagnarlo nuovamente e così ho fatto. Domani ci porto la mamma [Cäcilia Weber, madre di Constanze].Il libretto gliel'ha già dato da leggere Hofer. Della mamma si deve dire che guarda l'opera, non che sente l'opera» scrisse, riferendosi ai problemi di udito della suocera. Il 13 ottobre Mozart e Hofer si recarono a Perchtoldsdorf per riportare a casa Karl dopo il soggiorno alla scuola Heeger. Appena arrivati a Vienna, scrisse, «sono andato a prendere con la carrozza Salieri e la Cavalieri e li ho condotti nel palco. Poi sono corso a prendere la mamma e Carl, che avevo lasciato nel frattempo da Hofer. Non puoi immaginare quanto siano stati gentili entrambi [Salieri e la Cavalieri], quanto sia piaciuta loro non solo la mia musica, ma il libretto e tutto l'insieme. Hanno detto che è un'opera degna di essere rappresentata in occasione delle più solenni festività davanti ai più grandi monarchi, e che certo l'avrebbero rivista altre volte, non avendo mai assistito a uno spettacolo più bello e più gradevole».
Poi Mozart riportò a casa i suoi illustri ospiti e andò a cena con Karl dagli Hofer, prima di ritirarsi, finalmente, dopo la lunga giornata. «Per Carl è stata una grande gioia che l'abbia portato all'opera.»
Nelle lettere a Constanze, Mozart fornisce il resoconto delle sue attività quotidiane: «Dopo la tua partenza ho giocato due partite a biliardo con il signor von Mozart (autore dell'opera che sta dando ora Schikaneder). Poi ho venduto il mio ronzino per 14 ducati. Poi ho detto a Joseph [Preisinger, un oste] di chiamarmi Primus [un cameriere] e di farmi portare un caffè nero, fumando nel frattempo una deliziosa pipa di tabacco; poi ho strumentato quasi tutto il Rondò di Stadler». Descrive a Constanze la sua giornata da quando si alza a quando si corica, facendole uno scrupoloso e dettagliato resoconto di come trascorre ogni momento del suo tempo e assicurandole che la desidera ed è in pensiero per lei. Il barbiere è arrivato alle sei precise. Primus ha acceso il fuoco alle cinque e mezza e mi ha svegliato alle cinque e tre quarti. Ma perché deve piovere proprio ora? Spero che lì il tempo sia buono. Tieniti ben calda, non raffreddarti; spero che i bagni ti facciano passare un buon inverno, perché solo questo desiderio, che tu possa restare in buona salute, m'ha indotto a lasciarti andare a Baden. Il tempo senza di te mi pare interminabile, l'avevo ben previsto. Se non avessi avuto da fare, sarei partito con te per questi otto giorni. Ma laggiù non ho alcuna comodità per lavorare ed io, per quanto è possibile, vorrei evitare ogni preoccupazione [economica].
In effetti, Mozart era molto impegnato e lavorava dal mattino presto fino a sera. Racconta alla moglie che preferiva dormire a casa piuttosto che dagli Hofer perché, con suo sommo fastidio, quelli dormivano troppo a lungo. «Io preferisco passar sempre la notte a casa mia, essendo abituato a un certo sistema di vita.» Poi, la loro separazione sarebbe presto terminata: «Domenica prossima partirò sicuramente e allora andremo insieme al Casino e lunedì ritorneremo a casa insieme».
Evidentemente, Mozart era davvero molto impegnato, non solo dalla composizione e dalla frequentazione dell'opera, ma anche dalle incombenze familiari: andare a prendere Karl in una scuola, trattarne con i piaristi l'ammissione in un'altra, fare visita agli Hofer, portare a teatro la suocera, scrivere lunghe lettere a Constanze, andare a riprenderla a Baden. Nel 179I, con una forza di volontà che alimentava una produttività straordinaria, Mozart riuscì a fare tutto per bene, badando alla famiglia e disperdendo le nubi della melanconia. «Liebe und Arbeit», lavorò sempre al servizio dell'amore: «Io lavorerò - lavorerò tanto - così che nessun accidente imprevisto mi riduca mai in una situazione tanto fatale», aveva scritto da Francoforte.
Questo tema è sempre presente nelle sue ultime lettere, in cui ribadisce di poter raggiungere «una serenità d'animo» soltanto continuando a lavorare: «Bisogna lavorare assiduamente ed io sono contento di farlo». Ancora una volta il fanciullo miracoloso avrebbe salvato la famiglia, offrendo il proprio corpo per il bene di quell'organismo più grande che confermava la sua identità e gli dava il senso della sua missione. Avrebbe fatto tutto ciò che era necessario per raggiungere l'obiettivo di mantenere la sua famiglia: avrebbe scritto un'opera per una compagnia teatrale sorta dal nulla, nota soprattutto per farse e tableaux vivants, con un repertorio di volgari spettacoli in dialetto; avrebbe sfruttato i rituali massonici per il loro appello esotico al gusto popolare; avrebbe composto un ritratto lusinghiero di un imperatore clemente per celebrare la presunta benevolenza di un altro; avrebbe acconsentito persino a scrivere per un conte vanesio un «Requiem» senza firmarlo, un gesto particolarmente mortificante per un compositore orgoglioso.
Mozart aveva sopportato a stento le esortazioni paterne al compromesso, aveva vissuto come un'umiliazione il fatto che il suo compito principale di compositore imperiale da camera fosse quello di fornire danze per i balli in maschera, si era lamentato di dover scrivere una glorificazione del feldwaresciallo Laudon per organo meccanico come parte di una mostra in un museo delle cere. Adesso invece non si lamentava, fermamente deciso a non lasciare che simili questioni interferissero con ciò che sapeva di dover fare. Il tour de force di Mozart culminò con la presentazione, nel volgere di tre settimane, di due prime operistiche in due differenti capitali. Senza un attimo di tregua, scrisse il Concerto per clarinetto e subito dopo si dedicò al «Requiem».
Poi fu come se la fiamma si fosse consumata. Con il successo del «Flauto magico» Mozart aveva raggiunto il suo obiettivo, ma ora era debole e vulnerabile e la sua melanconia, rimasta latente durante l'esplosione di creatività, lo riafferrò, sbaragliando stavolta ogni sforzo o volontà di resistenza. Ancora una volta, Mozart dovette impiegare tutte le proprie energie per difendersi da attacchi provenienti dall'interno. «Di ritorno a Vienna», scrisse Niemetschek, la sua indisposizione si aggravava visibilmente, e lo sprofondava in una opprimente malinconia. La sua sposa se ne accorse con afflizione. Un giorno, accompagnatolo al Prater per procurargli un po' di distrazione e restituirgli coraggio, e mentre si trovavano seduti tutti e due soli, fianco a fianco, Mozart si mise a parlare della morte, ed affermò che componeva il «Requiem» per se stesso. Aveva le lacrime agli occhi. «Ne ho una sensazione troppo forte - proseguì - non ne ho più per molto: mi hanno avvelenato, è sicuro! Non posso disfarmi di questa idea.»
Molti anni dopo, Constanze disse ai Novello che Mozart «era ossessionato dall'idea terribile che qualcuno lo avesse avvelenato con dell'acqua tofana: un giorno andò da lei e si lagnò di avere un grande dolore ai fianchi e che una debolezza diffusa lo prendeva a poco a poco». È possibile che la sensazione immaginaria di avere dentro di sé una sostanza tossica sia stata determinata da un sintomo clinico, forse della malattia che stava per togliergli la vita, anche se Mozart se ne lamentava già prima dell'improvviso insorgere di questa alla fine di novembre. Più probabilmente, egli cercò di esprimere a parole l'opprimente apatia melanconica, la pesantezza del suo corpo che rasentava il torpore la mancanza di forza di volontà e, inoltre, la sensazione che il suo corpo fosse stato invaso da un agente inquinante, un persecutore nascosto che egli vedeva sotto forma di fluido maligno che gli scorreva nelle vene, o come una massa nociva nelle viscere che non riusciva né a espellere né a digerire.
Secondo il racconto della vicenda fatto da Constanze ai Novello, questo è quanto avrebbe voluto dire Mozart con frasi che rivelano una mania di persecuzione. Il diario di Mary Novello riporta la citazione di Constanze delle parole del marito: «So che devo morire», aveva esclamato, «qualcuno mi ha dato dell'acqua tofana e ha calcolato il momento esatto della mia morte, per la quale ha ordinato un «Requiem»; è per me che lo sto scrivendo». Il diario di Vincent Novello rispecchia il racconto della moglie; Mozart affermò «che qualcuno dei suoi nemici era riuscito a somministrargli la pozione nociva che avrebbe provocato la sua morte e [...] si poteva già calcolare in quale momento preciso si sarebbe inf:allibilmente verificata». Lo psicoanalista Otto Fenichel scrive: «Nelle depressioni malinconiche, è comune l'idea delirante di essere avvelenati. Ia quale deve la sua origine nel credere di venir distrutti da una forza oralmente introiettata». Un nemico esterno può essere individuato, affrontato, respinto. ma un nemico interno, proteiforme, nascosto, mascherato, ha in ostaggio l'essere stesso dell'individuo; per sradicarlo, bisogna rivolgere le arnli contro sé stessi.
Constanze non riuscì a consolare il marito e a «dimostrargli che non aveva alcun motivo di abbandonarsi ai suoi oscuri pensieri» e capì che «il Requiem metteva troppo a dura prova i suoi nervi delicati». Ragion per cui «lo supplicava di metterlo da parte, gli diceva che era malato, altrimenti non avrebbe mai avuto un'idea così assurda». Mozart accantonò la composizione del «Requiem» e scrisse invece, entro il I 5 novembre, con mano sicura e pochissime correzioni, la sua ultima opera completa, «Laut verkunde unsre Freude» (Ad alta voce annunzia la nostra gioia) K. 623 «Piccola cantata massonica», per celebrare, il 17, la consacrazione pubblica di un nuovo tempio della sua loggia, «Alla nuova speranza incoronata». Il testo non è, come si pensava, di Schikaneder, ma molto probabilmente dell'attore e commediografo Karl Ludwig Gieseke, membro della loggia. L'accoglienza fu così entusiastica che Mozart tornò a casa decisamente euforico dicendo, secondo quanto riferisce Constanze: «Se non sapessi di aver fatto cose più belle, penserei che questa è la mia opera migliore, ma ne terrò conto. Sì, capisco che sono un pazzo ad avere avuto un'idea tanto assurda come quella di essere stato avvelenato, ridammi il «Requiem» che lo continuo».
Nel giro di qualche giorno però, prosegue Mary Novello, «era di nuovo [...] tormentato dalla stessa idea». Analogamente, Niemetschek scrive: «Ricadde nella precedente malinconia, perse rapidamente le sue forze, e finì per rimanere costantemente nel letto da cui non doveva - ahimè - mai più rialzarsi!».
Assillato da divieti, tormentato da presenze fantasmatiche, afflitto da continue sofferenze, per qualche tempo Mozart aveva sfiorato il baratro del silenzio. In qualche modo era riuscito a incanalare la propria forza creativa e gli antichi imperativi verso un nuovo scopo: lo sforzo grandioso di salvare la propria famiglia, che ora comprendeva anche i Weber. Protetto da una famiglia affettuosa - anche se talvolta aveva cercato consolazione al di fuori dei suoi confini - era riuscito temporaneamente ad arginare l'avanzata dell'annichilimento. Grazie a un insieme di amore e musica aveva resistito alla spinta verso il crollo. Fin quando poté scrivere musica, riuscì ad allontanare la morte. Compose un «Requiem» per commemorare la moglie di un nobile, per esprimere i propri sentimenti di dolore per la morté - o la perdita - di ogni persona amata, per propiziarsi il padre e gli dèi. Ma questa volta Mozart non riuscì a trovare né nel lavoro né nell'amore un antidoto efficace contro una presenza tossica. Non aveva più le risorse fisiche o emotive sufficienti per opporsi alla chiamata sacrificale.
La malattia mortale assalì Mozart il 20 novembre e durò quindici giorni, durante i quali fu costretto a letto da forti dolori. Scrisse Nissen: «Cominciò con il gonfiore delle mani e dei piedi, quasi completamente immobilizzati, seguito da vomito improvviso, malattia che veniva chiamata febbre miliare acuta. Rimase pienamente cosciente fino a due ore prima del trapasso». Ormai praticamente tutti concordano sul fatto che Mozart sia morto di febbre reumatica acuta; nella primissima infanzia aveva avuto tre o quattro attacchi del male, che tende a recidivare con conseguenze sempre più gravi, tra cui infezioni dilaganti e danni alla valvola cardiaca. Il compositore morente venne curato da due medici viennesi, Thomas Franz Closset e Matthias von Sallaba, che il 28 novembre tennero un consulto. In seguito un loro collega, scrivendo per smentire le voci che Mozart fosse stato avvelenato da Salieri, fece un quadro delle condizioni di Mozart:
Alla fine dell'autunno si ammalò di febbre rcumatica e infiammatoria che, essendo all'epoca diffusa in misura pressoché generale fra noi, colpiva molte persone. [Il dottor Closset] ritenne che la malattia di Mozart fosse pericolosa e fin dall'inizio temette un esito fatale, ovvero un versamento cerebrale. Un giorno incontrò il dottor Sallaba e disse con sicurezza: «Mozart è spacciato, non è più possibile contenere il versamento». Sallaba mi comunicò la notizia immediatamente e difatti Mozart morì pochi giorni dopo con i classici sintomi del versamento cerebrale. [...] Questa malattia colpiva a quei tempi parecchi abitanti di Vienna e non pochi di loro furono soggetti allo stesso esito fatale e agli stessi sintomi di Mozart. L'esame del cadavere previsto dalla legge non ha rivelato nulla di insolito.
Mozart aveva continuato a lavorare saltuariamente al «Requiem», ma il dolore provocato dal gonfiore del corpo e degli arti finì per rendergli impossibile la scrittura. Frau Weber e sua figlia minore, Sophie, gli confezionarono una giacca da camera «che poteva infilare davanti, poiché a causa del gonfiore non riusciva a girarsi nel letto». A un certo punto, improvvisamente si sentì meglio e disse: «Cara Sophie, di' a mamma che sto abbastanza bene e che potrò andare a farle gli auguri entro otto giorni dal suo onomastico»; ma proprio mentre Sophie riferiva queste «buone notizie» alla madre, ebbe il presentimento della morte di Mozart e si affrettò a tornare da lui. Quando Sophie arrivò a casa di Mozart, Constanze le disse che le sue condizioni erano ormai disperate: «La notte scorsa è stato così male che pensavo non sarebbe arrivato a stamattina». Egli stesso disse: «Ah, cara Sophie, come sono contento che tu sia venuta. Stanotte devi restare qui per vedermi morire. [...] Mi sento già in bocca il sapore della morte». Sophie promise di rimanere, ma prima andò a chiamare un prete della chiesa di San Pietro: «A lungo si rifiutarono di venire ed ebbi il mio bel daffare a convincere uno di quei religiosi insensibili a recarsi da lui». Sistemò le cose in modo che la madre potesse passare la notte nell'appartamento della sorella Josepha. «Poi tornai indietro più svelta che potei dalla mia povera sorella.»
Vincent Novello ci riferisce la storia così come gliela raccontò Sophie: verso sera, si mandò a chiamare il dottor Closset, che però era a teatro e, ricevendo il messaggio, si limitò a dire che sarebbe arrivato «non appena finita l'opera». Al suo arrivo ordinò a Madame Haibl [Haibel] di bagnare le tempie e la fronte di Mozart con aceto e acqua fredda. La donna espresse la preoccupazione che il freddo improvviso potesse nuocere al sofferente, che aveva le braccia e gli arti molto gonfi e infiammati, ma il dottore insistette nei suoi ordini e quindi Madame Haibl gli mise una pezzuola umida sulla fronte. Immediatamente Mozart ebbe un leggero fremito e di lì a pochissimo morì fra le sue braccia. In quel momento le uniche persone presenti nella stanza erano Madame Mozart, il medico e lei stessa.
Alla fine, dunque, furono due donne della sua famiglia, da lui teneramente amate, a dare un po' di conforto a Mozart. Naturalmente, in questi casi i testimoni hanno la tendenza a entrare in una dimensione mitica, a ricollegare la propria esperienza a storie antiche attingendo a recondite verità arcaiche, ed è quindi difficile separare i fatti dalla leggenda. Secondo alcune testimonianze, Mozart nel giorno della sua morte, nonostante la fine imminente e la tumefazione che lo immobilizzava, si dedicò intensamente al «Requiem». Forse per accreditare l'amplificazione del racconto fatta dalla sorella sul ruolo avuto da Mozart nel completamento del «Requiem», Sophie riferì l'improbabile ricordo di Mozart che dava istruzioni a Sussmayr su come ultimare il «Requiem». Con maggior plausibilità, dichiarò che l'ultimo gesto di Mozart «fu il tentativo di articolare vocalmente i passaggi dei timpani nel «Requiem»». «Li sento ancora» scrisse. Il cantante Benedikt Schack, amico di Mozart, disse di ricordare che, nel primo pomeriggio del giorno in cui morì, Mozart «chiese che gli si portasse la partitura del «Requiem» a letto» e che lui, Schack, Gerl (il primo Sarastro) e Hofer cantarono le battute iniziali del «Lacrimosa», al che Mozart «cominciò a piangere convulsamente e la partitura venne messa da parte». Secondo Niemetschek, «il giorno della sua morte si fece portare la partitura a letto. «Non ho forse previsto che scrivevo questo 'Requiem' per me stesso?», disse, poi rilesse ancora una volta il manoscritto da un capo all'altro, con attenzione, gli occhi inumiditi dalle lacrime».
Si dice anche che la sera del 4 dicembre, mentre giaceva a letto in delirio, Mozart immaginasse di assistere al «Flauto magico» al Freihaustheater e di sussurrare alla moglie mentre contemplava Josepha Hofer nella parte della Regina della Notte: «Zitta, zitta! La Hofer sta per prendere il fa alto; ora mia cognata sta cantando la sua seconda aria, "Der Hölle Rache"; con quanta forza prende e tiene il si bemolle: "Hort! hort! hort! der Mutter Schwur!"».
Meno di cinque anni prima, venendo a sapere della malattia mortale del padre, Mozart gli aveva scritto la famosa lettera in cui parlava della morte come «vero fine della nostra vita», «amica sincera e carissima dell'uomo» e «chiave della nostra vera felicità». Mozart era dunque uno di coloro per i quali la morte è un'opportunità ontologica, un'affermazione di fede, un sollievo dal dolore; uno per il quale, come dice Marcuse, «un fatto biologico bruto, intriso di dolore, terrore e disperazione, si trasforma in un privilegio esistenziale». Forse proprio perché condividevano l'immagine mozartiana di una morte che consola e trasfigura, i primi memorialisti e biografi soppressero due testimonianze che descrivevano la dolorosa materialità dei suoi veri spasmi agonici. Il figlio Karl, che quando vide suo padre morire aveva sette anni, in seguito ricordò: «Particolarmente degna di menzione è, a mio parere, la circostanza che pochi giorni prima della morte sopravvenne una gonfiezza generale tale da impedire al malato ogni più piccolo movimento, ed inoltre un lezzo che denunciava il disfacimento interno e che dopo il decesso crebbe al punto da rendere impossibile l'autopsia».
Constanze disse poi a Nissen che, poco prima di morire, Mozart le chiese che cosa avesse detto il dottor Closset. Quando lei gli rispose con una pietosa bugia, lui disse: «'Non è vero' ed era estremamente turbato: 'Morirò, proprio ora che ero in grado di provvedere a te e ai bambini. Ah, ora vi lascerò senza il necessario'». E dopo aver pronunciato queste parole, «improvvisamente vomitò un violento getto marrone, e poi morì».
A quel punto la casa di Mozart si trasformò in un luogo di delirio, pieno di scene fantasmagoriche. Arrivò il conte Deym, proprietario del museo delle cere, e prese l'impronta per la maschera mortuaria di Mozart. Schikaneder si aggirava piangendo: «Il suo spirito mi segue ovunque; me lo vedo continuamente davanti agli occhi». Sophie ricordò che «la sua devota moglie presa dalla disperazione si buttò in ginocchio e invocò l'aiuto dell'Onnipotente. Non riusciva proprio a strapparsi da Mozart, per quanto io la pregassi di allontanarsi». Il barone van Swieten arrivò nel cuore della notte, si assunse l'onere di prendere accordi per il funerale e cercò di consolare la vedova afflitta, «che si era sdraiata sul letto del marito dormiente per infettarsi e morire con lui». Fuori di sé dal dolore, pare sia stata allontanata da casa, probabilmente insieme al figlio, e assistita da due amici, il massone Joseph von Bauernfeld e il commerciante Joseph Goldhahn.
Alle cinque del mattino, la cameriera di Mozart andò a chiamare il locandiere Joseph Deiner per vestire il cadavere, che «l'impresa funebre distese sul catafalco e ricoprì con un drappo nero, come si usava allora. [...] La salma venne portata nello studio e collocata accanto al pianoforte». Il musicista Ludwig Gall, informato della morte di Mozart, si precipitò nell'appartamento, dove venne guidato (da Frau Mozart, lui disse, ma più probabilmente da una delle sorelle) «in una stanzetta sulla sinistra, dove vidi il defunto Maestro sul catafalco, composto in una bara, vestito d'una tonaca nera il cui cappuccio, scendendo fino alla fronte, gli nascondeva i capelli biondi, le mani incrociate sul petto». Intanto alcune persone si raccolsero fuori per la veglia, piangendo e gemendo, e agitando i fazzoletti per manifestare dolore e cordoglio.
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