BIOGRAFIA - LETTERE E SCRITTI 1840
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1841

Del resto, come tutti gli esseri nervosi e impressionabili, egli si risolleva con la stessa rapidità con cui crolla. Umiliato, prostrato fino a terra dalle accuse del Vecchio, si sente improvvisamente grandissimo quando gli annunciano che l'università di Jena gli ha conferito il titolo di dottore "honoris causa".
Quindi, il suo ardore di vita, il suo fremito interiore riacquistano tutta la loro intensità al contatto con Liszt. Il principe dei pianisti arriva a Lipsia per imporvi la sua interpretazione dei capolavori della letteratura pianistica. Egli ha gridato ai quattro venti dell'Europa che nulla è più vivo di un capolavoro e che uno spirito libero deve tentare di mettersi all'altezza del genio creatore. L'idea che egli si fa del rispetto è l'opposto di quella che ne ha generalmente il pubblico; per lui rispettare è violare, è fecondare.
Schumann gli va incontro a Dresda e, scorgendolo in lontananza, lo riconosce immediatamente. Da troppo tempo i due giovani desideravano incontrarsi. Le loro dissomiglianze sono infinite: Schumann è massiccio, Liszt magro. Il pudore dell'uno si urta all'ardire dell'altro, la taciturnità all'abbondanza verbale, la purità all'amarezza. Perseguitati dalla disperazione, l'Ungherese non vi cede mai, il Tedesco vi si abbandona troppo spesso. Schumann è l'uomo di un'unica donna, Liszt l'amante di tutte. Eppure hanno la sensazione di essere amici da vent'anni. Per l'arte bruciano insieme di una stessa fiamma; un desiderio quasi folle di smarrirsi nella musica li accende tutti e due. Entrambi, poi, hanno la vocazione del sacerdozio.
Da quel momento i due musicisti passano insieme le loro giornate. Schumann, silenzioso, fa da scorta a Liszt nei concerti, nei ricevimenti musicali, nelle cene. Ma il più curioso è che è Liszt a far da guida a Schumann per quella città in cui egli è straniero. Che vitalità, che esuberanza di energia! Ovunque, Franz prodiga la bellezza; lascia una tastiera per dominarne un'altra. Con lui il tempo è abolito, perché in un minuto solo egli si scatena, si commuove, sconvolge tutte le nozioni acquisite, balza fra le nuvole. Non appena però Robert e Franz si ritrovano soli, la violenza cambia campo: è Schumann che rimprovera brutalmente a Liszt i suoi arabeschi, la sua intermittente ciarlataneria. Per tutta risposta, Liszt si avvicina al pianoforte - e così avverrà un giorno con Wagner - e attacca le Novellette, la Sonata o i Pezzi Fantastici. Non sempre Schumann riconosce il proprio pensiero, ma sempre si commuove alle lacrime.
Tanto genio non trova favore presso il rigido pubblico del Gewandhaus. Al primo concerto l'accoglienza è glaciale e qualche fischio si fa sentire. Piuttosto che dare il secondo, Franz preferisce mettersi a letto e passare la giornata in compagnia di Mendelssohn, Schumann, Hiller e Reuss. Due giorni dopo, il 22 marzo, in casa di Raymond Härtel suona in modo tale da far rabbrividire ed esultare l'uditorio; il 23, Mendelssohn gli offre un concerto con orchestra riservato a pochissimi invitati. Bella serata che coincide con l'anniversario della nascita di Bach e di Jean-Paul.
Poi, il 'mago' si allontana per proseguire il suo pellegrinaggio attraverso l'Europa. Il profilo acuto sfuma in lontananza, il fascino demoniaco cessa di agire, tutto il chiasso che accompagnava lo stregone si spegne. Allora Schumann si calma, ritorna al suo silenzio, al suo amore e comprende la lezione ricevuta nella breve intimità con Liszt: comprende come la semplicità sia la più grande ricchezza e come ognuno abbia il dovere di restare se stesso:

Non prenderlo a modello, Clara. Nessuno ti uguaglia e un po' del tuo buon cuore trapela dal tuo modo di suonare.

Schumann lavora intensamente. Mai ha provato una simile voluttà nella creazione. Non soltanto nel pianoforte riversa la sua esaltazione, ma in un altro strumento pii misterioso, più fragile, più umano, più suggestivo. Sta avvenendo un miracolo che richiede il segreto; Robert non vuole mettere nessuno a parte della sua attività, neppur Clara.
Mentre Wieck s'agita a vuoto, Clara ritorna a Lipsia e di 11, in compagnia di Robert, parte per Berlino, il 17 aprile. Chi si offrirà di ospitarli? I Mendelssohn, presso i quali si trova, per qualche tempo, anche Felix. Passare da Liszt alla famiglia Mendelssohn-Bartholdy è un grosso sbalzo. In quei tedeschi di origine israelita convertiti in parte al luteranesimo e in parte al cattolicesimo, c'è qualcosa della serenità, della magnanimità greca. Goethe è loro lontano parente e Felix si compiace di ricordare come, in età di dodici anni, abbia passato quindici giorni a Francoforte in casa del poeta. Ogni mattina l'autore del Faust gli dava un bacio (due nel pomeriggio) ed egli improvvisava al pianoforte, per rasserenare il vecchio geniale, tutto pieno di limpida saggezza. È dunque possibile che il contatto con Goethe, congiunto all'istinto ellenico, abbia portato Mendelssohn a scrivere più tardi la musica per i cori di Antigone. Nella vasta casa, al n. 3 di Leipzigerstrasse, vivono anche Lea Mendelssohn, madre di Felix, e sua sorella Rebecca, moglie del professor Dirichlet. Quando Clara e Schumann arrivano manca però quella che Felix ha chiamato "il Cantore dagli occhi bruni", l'amata sorella Fanny Hensel, attualmente in viaggio per l'Italia col marito, il pittore Wilhelm Hensel, e il figlio. Se ci fosse anche lei, Schumann si sentirebbe ancora piü felice. Vicino a Clara e a Felix egli è infatti felice. Visitano insieme i musei, si recano ai concerti e all'Opera, fanno musica, si scambiano le loro impressioni sull'arte. La sventura, la morte, sembrano allora semplici figure retoriche, tanto l'atmosfera di casa Mendelssohn si mantiene serena. E il Tiergarten è lì, a due passi, con i suoi uccelli, i suoi fiori, il suo verde, l'acqua scintillante dei suoi laghetti.
Al ritorno a Lipsia, Schumann riprende il lavoro interrotto e, subito, l'ispirazione lo travolge.
Eppure, egli è terribilmente infelice, perché si fa vivo in lui il desiderio di Clara. Non può più aspettare. Dopo esser stata la sua gioia, la sua speranza, la sua disperazione, essa diviene ora il suo tormento. "Mi strappi perfino alla musica", esclama Schumann. In piena ebbrezza creativa gli accade di interrompersi e di aver paura. Sono ormai quattro anni che egli aspetta Clara soffrendo; pure non avrebbe mai immaginato che, un giorno, le più vive forze da lui conosciute, il suo amore e la sua musica, si sarebbero sollevate l'uno contro l'altra. Invoca Clara, maledice Wieck. Poi, per sfuggire all'angoscia di quella situazione priva di uscite, ritorna alla tastiera e si tuffa nella musica. In questo alternarsi di dolore e di esultanza, di desiderio e di slancio creativo, è tutta la sua passione.
Clara sembra non sospettare il segreto rimprovero contenuto in questa semplice frase:

Non aspettarti troppo da me; non desidero niente di più che un pianoforte, e te, accanto.

Si può temere che Wieck riesca, con le sue calunnie, a ritardare indefinitamente la sentenza del tribunale. In mancanza di testimoni, ha dovuto rinunciare a far trionfare l'accusa di alcoolismo sollevata contro Schumann, ma Dio solo sa che cosa il suo odio delirante potrà ancora escogitare. Robert, da parte sua, teme di lasciarsi andare a qualche atto estremo.
Al principio di luglio, per ingannare le settimane che non passano mai, Robert offre a Clara il suo regalo di nozze. Mentre sono a passeggio per la vecchia e familiare strada di Gohlis, i facchini di Breitkopf e Härtel portano nella casa della zia di Clara, presso la quale abita la fanciulla, un pianoforte a coda.
Passano alcune settimane, Wieck non cessa di vociferare, ma sembra ridotto all'impotenza. Il processo procede lentamente nell'ombra, matura e si risolve in piena luce. In agosto il tribunale autorizza le nozze Schumann-Wieck. Finalmente! Ecco la felicità, tangibile, in forma di sentenza. Clara però, in tournée attraverso la Turingia, non si trova presente. Robert, dapprima, decide di attenderla; poi cambia idea. La parola "attendere" gli è divenuta odiosa. La raggiunge a Weimar. Tutta la città è adorna degli ultimi fiori dell'estate.
Tutti e due si recano a Schönfeld.
In quel piccolo villaggio vicino a Lipsia, ci sono tanti alberi, c'è un cielo aperto, un pastore. Il pastore si chiama Wildenhan e, quand'era bambino, ha giocato con Robert; oggi benedice le sue nozze. È il 12 settembre 1840.
L'opera di cui Schumann è andato parlando, da qualche tempo, per vaghe allusioni, l'opera il cui segreto egli rivela a Clara nell'atto di averla quasi intieramente compiuta sono i Lieder.
Un gran numero di codesti capolavori è venuto alla luce quasi nascostamente, quasi per una complicità gelosa fra il musicista, il pianoforte e la carta necessaria a fissarli.
Schumann, alle soglie dell'adolescenza, ebbe da Agnes Cams la rivelazione del Lied schubertiano. Nel colmo dell'entusiasmo, colpito da una forte impressione, aveva subito composto alcune melodie su versi di Byron e su versi propri. Poi aveva dimenticato questi incerti tentativi dando a pensare ch'egli volesse definitivamente disinteressarsi del canto.
Il poeta padrino di Schumann liederista è, infatti, Heinrich Heine. Schumann aveva per Heine un'enorme ammirazione e fu il primo grande poeta conosciuto in carne ed ossa dal giovane musicista. L'autore di Intermezzo aveva prodotto in lui un'impressione indimenticabile. Al momento di cercar versi per rivestirli di musica, è naturale che Schumann si rivolgesse all'uomo che a Monaco lo aveva affascinato, all'uomo che gli aveva rivolto un messaggio diretto e confidenziale. Ma oltre a questo, Schumann convibra con la fremente sensibilità di Heine, s'infiamma al contatto di quell'amarezza che sa di salsedine marina, si incanta e si spaventa di quel pudore e di quel cinismo, di quella civetteria e di quel ritegno, di quella malvagità tenera e, insieme, armoniosa. Doppio profilo, doppia personalità di Heine: ecco pronunciata la grande parola.
Il Liederkreis (op. 24) comprende nove "Lieder", secondo una curva di massima ascendenza sul n. 7, ossia su quel Berg und Burgen schau'n herunter (Monti e borghi mirano dall'alto) che, dopo aver scintillato, conclude in un accento di atroce delusione. Subito dopo il Liederkreis, Schumann compone Myrthen (I mirti, op. 25), Lied der Suleika (Canto di Suleika, su versi di Goethe), Die hochländer Witwe (La vedova scozzese), Hochländer Wiegenlied (Ninnananna scozzese), entrambe tratte da Burns, i Canti veneziani su testo di Thomas Moore, i Canti della fidanzata (da Rückert) un'ardente emozione, non minore di quella contenuta in Nussbaum (Il noce). Ugualmente primaverili sono le cinque melodie raccolte nell'opera 27, fra cui Jasminenstrauch (Il gelsothino) e Nur ein lächelnder Blick (Solo uno sguardo sorridente). L'opera 30 è consacrata tutta a Geibel, l'opera 31 a Chamisso.
Più tardi esplode il sentimento della natura, radicato così fortemente nell'animo di Schumann. Allora, ecco nascere i Dodici canti su parole di Justinus Kerner (op. 35), dove Lust der Sturmnacht (Voluttà della notte tempestosa), Erstes Grün (Prima erbetta) e, soprattutto, la splendida Sehnsucht nacht der Waldgegend (Nostalgia delle foreste) si espandono con espressività affascinante.
Fra Schumann e la pittura esisteva, se così possiam dire, una specie di congenialità. Quel che di seducente, contenuto nei versi che Reinick, autentico virtuoso della tavolozza, aveva voluto intitolare Poemi di un pittore, lo aveva impressionato e colpito in modo insolito: questa la ragione dell'intenso colore disteso da Schumann, per esempio, su Sonntags am Rhein (Di domenica, sul Reno), un "Lied" brulicante, popolaresco ma per nulla volgare (op. 36).
A Reinick, il pittore, succede Rückert, il lirico puro che acuisce la beata nostalgia del musicista gettandogli in faccia la famosa invocazione Flügel, um zu fliegen (Ali, ali per volare...), oppure lo consola con parole luminose e semplici come O Sonne, o Meer, o Rose... (O sole, o mare, o rosa...).
Ma ecco un nuovo Liederkreis (op. 39) su versi di Eichendorff, del dolce, errabondo, spensierato Eichendorff, così accattivante con le sue Szenen aus dem Leben eines Taugenichts (Scene dalla vita di un fannullone).
Particolarmente riuscite sono, fra le altre, Mondnacht (Chiaro di luna) e Frühlingsnacht (Notte di primavera).
L'opera 40 è attinta in parte a Chamisso e in parte a Andersen, il nordico amico di Schumann.
Ma il musicista tedesco non poteva dimenticare l'ambiziosa lezione che il musicista viennese, ossia Schubert, gli ripeteva col ricordo di quei grandi cicli di "Lieder", dove un'azione drammatica, nascosta nei singoli brani, risuona di poema in poema e di musica in musica, così da allargare in modo singolare il campo all'artista. Al Viaggio di inverno, alla Bella molinara, Schumann risponde con Frauenliebe and Leben (Amore e vita di donna, op. 42) poi con Dichterliebe (Amor di poeta, op. 48). Due poeti ugualmente cari, Chamisso e Heine, forniscono a Schumann il testo e il filo conduttore. Tuttavia, Heine par commuovere Schumann più di Chamisso, come se la sua sensibilità si adeguasse meglio a quella del musicista.
Fra Amore e vita di donna e Amor di poeta, Schumann intercala un quaderno di Romanze e Ballate (op. 45) al quale se ne aggiungeranno altri due, che portano i numeri d'opera 49 e 53. nell'opera 49 che è inserito il "Lied" Die beiden Granadiere (I due granatieri), nel quale inopinatamente e poeticamente riecheggia la Marsigliese.
Tale è, accennata per sommi capi, la produzione di Robert Schumann durante quell'anno 1840; produzione che ci stupisce per la bellezza, per l'opulenza ed anche per l'imprevisto. Da un compositore che sembrava consacrato tutto al pianoforte, nessuno si poteva aspettare un orientamento ed un'attività così nuovi, un così repentino successo. Schumann, di colpo, raggiunge Schubert, e con Schubert non sarà più uguagliato da nessuno in Germania. Fatto strano, impressionante, che Schumann stesso sembrò aver compreso allorquando decise di mantenere segreto il suo lavoro per parecchi mesi.
Se è vero che Schumann ha scelto con somma cura quei poeti e quei testi per i quali ha sempre provato una predilezione particolare, non si è però forse osservato sufficientemente fino a qual punto i Lieder del 1840 siano in accordo col clima interiore del musicista, con le circostanze della sua vita di allora: appena sposato con Clara, e dunque penetrato in quella grande felicità che lo aveva ispirato quando non era che presentimento, egli lascerà la melodia, la musica cantata, per consacrarsi alla sinfonia, alla musica da camera, alla musica pura.
Quella in cui gli Schumann iniziano la loro vita coniugale è una tipica casa d'artisti. Il grande pianoforte a coda di Clara tiene un posto cospicuo. Come Robert aveva desiderato, alle finestre ci sono fiori e alle pareti molte stampe. La camera degli sposi è tappezzata in azzurro chiaro. Robert continua la formazione di Clara, ispirandosi al famoso pensiero di Liszt: "L'artista deve creare la moda, non già seguirla". Per se stesso, del resto, egli pensa a un'opera di proporzioni più vaste di tutte quelle cui ha finora consacrato le sue cure.
Evoca Beethoven, cosí come l'ha immaginato nella Neue Zeitschrift für Musik:

Salgo lentamente le scale del Schwarzspanierhaus n. 200 [nome di una casa di Vienna ove Beethoven ebbe uno dei suoi domicili, e dove morì; il nome si riferiva ai frati "Spagnoli neri" che lì avevano un convento]: tutto è morto intorno a me. Entro nella sua camera; egli si alza: è un leone, con la corona in testa ma con una spina nella zampa. Mentre parla delle sue sofferenze, mille esseri entusiasti avanzano sotto le colonne di quel tempio che è la Sinfonia in do minore. Ah, se le mura potessero spostarsi! Non vede l'ora di uscire: si lamenta di essere stato abbandonato cosi, di essere rimasto così solo, cosi negletto. Nello stesso momento i bassi si arrestano sulla nota più grave dello "Scherzo": non un respiro; i mille cuori sono sospesi per un capello al di sopra dell'abisso insondabile. Ma adesso il velo si squarcia e lo splendore delle cose sublimi, innalza, uno dopo l'altro, arcobaleni su arcobaleni. E noi... noi corriamo per le strade senza che alcuno lo saluti. Gli ultimi accordi della Sinfonia risuonano: il pubblico batte le mani e il filisteo grida, come ispirato: "Ecco della vera musica!".
Sì, è cosi che l'avete festeggiato quand'era vivo! Nessun compagno, nessuna compagna si è offerta a lui. Con l'animo pieno di dolore, è morto come Napoleone, senza avere un figlio presso il suo cuore, nel deserto di una città sterminata.

Si accinge a comporre la Sinfonia in si bemolle maggiore (op. 38).

Da settembre i due sposi iniziano a scrivere un
Memoriale in partita doppia. Questo diario è stato iniziato, per suggerimento di Schumann, l'indomani delle nozze; reca una specie di prefazione che ne definisce lo scopo e lo spirito: sarà intimo, renderà conto di tutto ciò che concerne la vita in comune, raccoglierà i voti, le speranze, le preghiere che gli sposi avranno da rivolgersi reciprocamente:


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13 settembre 1840

Mia amatissima giovane sposa,
lascia che ti dia il più tenero dei baci in questo giorno, il primo della tua vita di sposa, il primo del tuo ventiduesimo compleanno.
Questo piccolo quaderno che oggi inauguro è destinato ad avere un significato molto profondo: diventerà il resoconto quotidiano di tutto quanto concerne la nostra casa e la nostra vita coniugale. Qui troveranno spazio i nostri desideri e le nostre speranze, ma dovrà anche essere il quaderno delle nostre preghiere, quelle che ciascuno di noi vorrà rivolgere all'altro, quando la parola detta si sarà rivelata inefficace. Se avremo dei contrasti diventerà anche l'intermediario delle nostre riconciliazioni. Insomma, sarà per noi un amico buono e fedele a cui apriremo i nostri cuori e nel quale confideremo totalmente. Se sei d'accordo, cara moglie, prometti che anche tu ti atterrai scrupolosamente allo statuto della nostra segreta Confraternita Matrimoniale, come io prometto a te la stessa cosa.
Una volta la settimana ci scambieremo le funzioni di segretariato. Ogni domenica, la mattina presto, all'ora del caffé se possibile, avrà luogo la consegna del diario e nulla vieta che sia accompagnata da un bacio. Il resoconto della settimana verrà poi letto a voce bassa o alta, secondo il contenuto, e se qualcosa è stato omesso sarà aggiunto. Presteremo ascolto ai nostri desideri e alle reciproche richieste, le approveremo, e soprattutto valuteremo la vita della settimana: se è stata vissuta degnamente e attivamente, se abbiamo consolidato il nostro benessere interiore ed esteriore, se abbiamo fatto qualche passo avanti nel perfezionamento della nostra amata arte.
Le annotazioni di una settimana non dovranno occupare meno di una pagina, chi non rispetterà questa norma sarà passibile di una penitenza da stabilire. Se dovesse accadere che uno dei componenti della nostra Confraternita Matrimoniale non annotasse nulla per un'intera settimana, allora la punizione sarebbe davvero esemplare, ma è difficile che possa avvenire conoscendo la nostra reciproca stima e il nostro senso del dovere.
Tutti questi principi e regolamenti dovranno essere osservati anche durante i viaggi osituazioni analoghe e il diario dovrà essere sempre con noi.
Un vanto del nostro piccolo diario sarà - come è già stato detto - la critica della nostra attività artistica. Tu per esempio potresti prendere nota di ciò che hai studiato in maniera particolare, di ciò che hai composto, o trascrivere quanto di nuovo hai appreso e le tue riflessioni in proposito. Dal canto mio farò lo stesso.
Altro vanto di questo diario sarà l'analisi del carattere degli artisti pii noti che avremo l'occasione di osservare da vicino. Non dovranno esserne esclusi né gli aneddoti, né i particolari umoristici.
Ma ancora non voglio nominare, mia cara moglie, la cosa pii bella ed emozionante che sarà racchiusa in questo diario: le tue e le mie belle speranze, che il cielo voglia benedirle, le tue e le mie preoccupazioni che il matrimonio porta con sé; insomma tutte le gioie e i dolori della vita coniugale troveranno spazio qui dentro come una storia vera, che sarà la nostra gioia negli anni della vecchiaia.
Se tu sei d'accordo scrivi il tuo nome sotto il mio e pronunciamo insieme ancora tre parole che saranno il nostro talismano, poiché su di esse si fonda ogni gioia della vita.
Impegno, parsimonia e fedeltà.
Io sono davvero il tuo profondamente innamorato marito Robert, e tu?

In breve: si tratta di un libro di meditazione, di riflessione e di riconciliazione "quando, per caso, - aggiunge Schumann, - avremo potuto fraintenderci".

***

Nel '40 torna a scrivere; ma non è più il solo pianoforte protagonista:

Ti meraviglierai di tutto quello che ho scritto durante la tua assenza; non sono pezzi per pianoforte, ma non voglio rivelarti che cosa.

Si sente in queste frasi la gioia per un'ispirazione ritrovata nonché per l'improvviso, felice ampliarsi degli orizzonti musicali. È l'anno dei cicli liederistici: nascono di getto Liederkreis su testi di Heine, Myrthen, ancora Liederkreis su testi di Eichendorff, Frauenliebe und -leben, Dichterliebe. Nel Lied la semplice e raccolta cantabilità schumanniana trova uno sbocco logico nel quale il compositore può rinsaldare l'antica passione per la letteratura e l'estro creativo musicale:

Che felicità divina scrivere per il canto! Per troppo tempo me ne ero privato.

Finalmente nell'agosto il tribunale si esprime a favore di Robert e Clara; in settembre si sposano: un lungo incubo si è dissolto. L'esistenza di Schumann acquisterà, nella nuova vita coniugale, un carattere stabile ed equilibrato; il matrimonio con la caparbia Clara, nata sotto il solido segno della Vergine, rappresenta per Robert il rifugio più sicuro.
La storia d'amore di Robert e Clara è tra le più conosciute e tra le più emblematiche dell'epoca romantica; mentre il Settecento dei Lumi e del Rococò, della ragione e della curiosità aveva preso come modelli Don Giovanni e Casanova, l'Ottocento romantico giudica immorale e limitato l'amore concepito come erotismo e sensualità, ricerca mai appagata di sempre nuove emozioni. Il romanticismo pensa l'amore quale esperienza totalizzante, integrale e centrale nel corso di un'esistenza, comunione decisiva di due esseri, sintonia poetica, nonché trasfigurazione mitica dell'oggetto amato. Il rapporto amoroso diviene esso stesso opera d'arte, trasformazione sublime di una realtà spesso ovvia. La vita sentimentale di Schumann ci offre un'esemplificazione completa di questa Weltanschauung, dapprima con l'incanto creato e disvelato di Ernestine, poi con il tormentato amore per Clara, una ragazza che in più occasioni ha dimostrato atteggiamenti decisamente duri e prosaici. Ma l'artista Schumann ha saputo presto dimenticare e cancellare quegli aspetti che non si conciliavano con la sua proiezione idealistica. D'altronde già Beethoven rimproverava l'immoralità del Don Giovanni mozartiano, segno che con lui un fondamentale cambiamento stava avvenendo. L'Ottocento non capisce più la ricerca smaliziata del secolo precedente, i suoi gai travestimenti, la sua lucida e impietosa analisi dell'animo umano, delle sue debolezze, dei suoi desideri, delle sue meschinità. Tutto è stato ricoperto da un manto ideale, l'amore è divenuto esperienza mistica. Il caso Schumann ne è forse la prova più compiuta; la stessa sua arte sembra scaturire dall'esperienza sentimentale come una conseguenza necessaria. [MURSIA-RAUSA]

***

La decisione [della corte d’appello sulla controversia tra Clara e il padre, contrario asl matrimonio della figlia con Schumann], quando finalmente fu espressa, non fu del tutto favorevole; la corte respinse tutte le accuse di Wieck, tranne una: che Schumann bevesse troppo. Wieck ritornò all'attacco sul piano legale con un 'Deductionsschrift' che fece avere alla corte il 26 gennaio; distribuì poi privatamente agli amici di Clara e di Schumann copie a stampa delle sue accuse originarie; dal punto di vista legale, Schumann rispose alle nuove accuse con un 'Refutationsschrift' del 13 febbraio, ma gli fu consigliato di non intraprendere azioni contro il documento diffamatorio. Il 28 marzo le parti furono informate che la suprema corte d'appello aveva confermato il giudizio del 4 gennaio; a Wieck toccava di provare l'accusa relativa all'ubriachezza. Nel frattempo Schumann ebbe l'idea di rafforzare la propria posizione acquisendo un dottorato; il 31 gennaio si informò dal dottor G.A. Keferstein sulle condizioni per avere un titolo a Jena: l'amico fu presto in grado di confermargli che l'università era propensa a nominarlo "dottore in filosofia", senza tesi o esami, in riconoscimento dei suoi meriti come compositore, scrittore ed editore. Il suo curriculum fu inoltrato il 17 febbraio; undici giorni dopo gli giunse il diploma.
La grande energia creativa schumanniana ebbe un notevole impulso nel mese di gennaio: iniziò con una «breve Sonatina in Si bemolle» e, verso la fine del mese, riprese e completò il Faschingsschwank. Fatto ancor più importante, dopo un intervallo di dodici anni Schumann ritornò a comporre Lieder. Il primo Lied del 1840 chiaramente datato fu l'Aria del Buffone dalla Dodicesima notte, op. 127 n. 5, composto il 1º febbraio. In una lettera del 16 Schumann riferiva a Clara della composizione di «sei fascicoli di Lieder, ballate, grandi e piccole e a quattro voci».
Quattro dei «sechs Hefte» sono costituiti dai Lieder pubblicati nell'ottobre dello stesso anno come Myrthen op. 25, anche se non tutti erano stati composti all'epoca della lettera a Clara. L'unica «grande ballata» era quella sul Belsatzar di Heine (7 febbraio), pubblicata nel 1846 come op. 57. Il Liederkreis op. 24 su testi poetici di Heine

fu completato entro il 24 febbraio. Il flusso dei Lieder rallentò in marzo a causa del lavoro preparatorio per un'opera, Doge und Dogaressa, ispirata a un racconto contenuto nella seconda parte dei Serapions-Brüder di Hoffmann; Schumann stesso abbozzò un libretto in prosa che Julius Becker tentò, con scarso successo, di mettere in versi. Solo nel mese di maggio il progetto venne definitivamente accantonato. In marzo Liszt

venne a Lipsia e Schumann ne fece la conoscenza.
Nel frattempo Clara era stata per breve tempo a Lipsia e la coppia aveva poi trascorso una quindicina di giorni felici a Berlino (dal 17 al 30 aprile); l'immediato risultato fu il Liederkreis di Eichendorff op. 39,


JOSEF VON EICHENDORFF

composto durante il mese di maggio. Il ciclo di Eichendorff fu subito seguito da un ciclo di Heine, venti Lieder composti tra il 24 maggio e ii 1° giugno: il Dichterliebe op. 48 e quattro altri Lieder (op. 127 nn. 2 e 3; op. 142 nn. 2 e 4), originariamente intesi come facenti parte di una stessa serie. Il 5 giugno Clara giunse a Lipsia e la composizione dei Lieder fu sospesa.
Il 7 luglio i fidanzati appresero che Wieck non era stato in grado di produrre prove circa la pretesa ubriachezza abituale di Schumann. Si misero subito alla ricerca di un alloggio e il 16 trovarono «un piccolo appartamento nella Inselstrasse». Il 1º agosto venne l'assenso legale al matrimonio e ii 16 furono esposte le pubblicazioni; in quest'ultimo tormentoso periodo Clara cercò distensione in una breve tournée in Turingia, mentre Schumann ritornò alla composizione liederistica. Nel mese di luglio aveva composto i tre Lieder su testo di [Adalbert von]
Chamisso

op. 31, i cinque Lieder op. 40 e il ciclo di Chamisso Frauenliebe und -leben op. 42 (11-12 luglio); in agosto, completò i Lieder di Geibel op. 30 e quelli di Reinick op. 36. Il 12 settembre Clara e Robert si sposarono nella chiesa del villaggio di Schönefeld, nei dintorni di Lipsia.
La prima composizione dopo il matrimonio fu il duetto vocale Wenn ich ein Vögkin wär op. 43 n. 1, successivamente incluso in Genoveva. Dieci giorni dopo, il 13 ottobre, Schumann annotava nel suo Haushaltbuch: «Nel pomeriggio, tentativi sinfonici». Un anno prima, nel proprio diario, Clara aveva manifestato la convinzione che

sarebbe meglio se componesse per orchestra; al pianoforte la sua immaginazione non può trovare sufficiente libertà d'azione [...]. Le sue composizioni sono, quanto a sentimento, tutte orchestrali [...]. Il mio più grande desiderio è che componga per orchestra... questo è il suo campo! Che io possa riuscire a portarvelo.

Ma l'impulso alla composizione liederistica era ancora predominante. Dopo un pezzo patriottico "di cassetta", Der deutsche Rhein - per voce solista, coro e pianoforte - di cui in circa un mese furono vendute millecinquecento copie, venne, in novembre e dicembre, una profusione di Lieder su versi di [Justinus] Kerner,

molti dei quali pubblicati come op. 35 e altri postumi nelle opp. 127 e 142. Altri Lieder sparsi di questo prolifico anno 1840 furono riuniti nel primo volume dei Lieder und Gesänge op. 27 e nei primi tre volumi delle Romanzen und Balladen opp. 45, 49 e 53. Il "grande" periodo liederistico schumanniano si concluse, con l'op. 37, le Gedichte aus 'Liebesfrühling' di Rückert, a cui Clara contribuì con tre pezzi (i nn. 2, 4 e 11): iniziate nel gennaio 1841, furono però completate solo in agosto. Durante quei mesi Schumann si era infatti dedicato a un campo molto diverso. [ABRAHAM]

A G.A. Keferstein [91]
Lipsia, 31 gennaio 1840

Forse Lei sa che Clara è la mia fidanzata, e forse conosce anche quali... mezzi suo padre ha impiegato per impedire la nostra unione! Qualunque essi siano, egli può ritardarla, ma non impedirla!
L'importanza della carriera artistica di Clara m'ha fatto spesso riflettere sulla modestia della mia. Io so che Clara ha gusti semplici, che è senza pretese e che ama in me soltanto l'uomo e il musicista. Credo tuttavia che sarebbe felice se mi vedesse raggiungere una posizione superiore, nel senso borghese della parola. Mi permetta, dunque, di chiederLe se sarebbe difficile ottenere il titolo di dottore a Iena. Dovrei subire un esame? E quale? A chi devo rivolgermi per ciò? La mia sfera d'azione, quale redattore d'un giornale che esiste da sette anni, la mia situazione come compositore e il modo retto e coraggioso con cui cerco di raggiungere una meta, non mi sarebbero d'aiuto per ottenere quella dignità?
Mi dica sinceramente la Sua opinione, e accolga la mia preghiera di mantenere per il momento il silenzio più assoluto su ciò di cui Le ho parlato...

A Clara
Lipsia, 24 febbraio 1840

Mia cara Clara,
non possiamo agire diversamente! La giustizia e il nostro onore esigono che procediamo con rapidità e rigore. Sai cosa dice Goethe «Che esige l'onore? Che ci si difenda».
Gathy mi scrisse pure a proposito di voci mostruose che corrono su di me. Tu mi scrivi la stessa cosa. Io non so più che pensare! Talvolta mi sembra che il sangue debba spezzarmi le vene, ma finchè ciò non accade, voglio difendermi! Ed ecco ch'io ti ripeto ciò che non dovrei e non vorrei dirti; ma non posso fare diversamente. Tu mi scrivi che non ho più fiducia nell'umanità. Oh, no! Come ti sbagli! Il mio cuore non è forse pieno di sogni, d'amore, di musica? Non temere dunque nulla. Ma come vorresti che, dopo tante insidie, non me ne lamentassi con te, neppure in una singola riga, in un singolo minuto? Ciò che ho sopportato, mi pare spesso sorpassi i limiti della pazienza umana. Più d'uno che ragionasse diversaniente da me, avrebbe abbreviata questa prova. Ma sai qual'è il modello che prendo ad esempio? Sei tu, mia Clara. So che il tuo dolore non è per nulla inferiore al mio...

A G. A. Keferstein
Lipsia, 29 febbraio 1840

Tutto contribuisce dunque alla mia completa soddisfazione. La lode [92] è così onorifica, che in parte Le devo la mia gratitudine anche per ciò. Io ed i miei amici ne abbiamo provato una gran gioia. Il primo pensiero è stato, naturalmente, quello di spedire un esemplare verso il Nord, ad una fanciulla ch'è ancora come una bambina e salterà dal piacere al pensiero d'essere la fidanzata d'un dottore. Essa Le scriverà e La ringrazierà direttamente Le manderà però il ritratto e il manoscritto soltanto da Berlino. Forse il viaggio a Copenhagen, ove volevo accompagnare lei e sua madre, verrà sospeso, perchè Clara ha troppa paura del mare. Ma forse lo faremo lo stesso. Ad ogni modo, io la vedrò fra breve, e non ho bisogno di descriverLe che cosa saranno le ore che trascorreremo fantasticando al pianoforte, ed anche le altre...

A Clara Mercoledi,
18 marzo 1840

La mia lettera, oggi, sarà breve. Sono stanco, abbattuto e di nuovo agitato ed inquieto per gli avvenimenti dei giorni trascorsi... Finchè Liszt rimane qui, non posso neppur lavorare molto e non so come fare a terminare il lavoro per il Giovedì Santo. Con Liszt trascorro quasi tutte le giornate. Ieri egli mi disse: «Per me, è come se La conoscessi da venti anni!» Anche a me sembra la stessa cosa. Siamo talvolta scortesi l'uno verso l'altro ed io ne ho i motivi, perchè egli è lunatico e viziato da tutta Vienna. Ma non posso scriverti in questa lettera tutto ciò che avrei da raccontarti su Dresda, il nostro primo incontro, il concerto dato colà, il nostro viaggio in ferrovia sino a qui, il concerto di ieri sera; e la prova del secondo, che ha avuto luogo stamane. Non ho mai sentito suonare in una maniera così straordinaria, ardita, pazza, e, in pari tempo, dolce e vaporosa. Tutto ciò ho sentito io ora. Ma, Claretta, il suo mondo non è il mio; io non darei l'arte quale tu l'esprimi (ed io pure spesso componendo al pianoforte) e la tua bella semplicità per tutto lo splendore del suo virtuosismo, in cui c'è anche un po' di civetteria, persin troppa! Non ti dirò altro per oggi; tu capisci ciò che intendo...

A Clara Lipsia,
20 marzo 1840

Quanto avrei desiderato averti con me stamane, da Liszt! Egli è veramente straordinario. M'ha suonato alcune delle «Novellette», un frammento della «Fantasia» e della «Sonata», e m'ha commosso profondamente. Molte cose differivano dal mio pensiero, ma erano pure espresse genialmente e con una tenerezza e un'arditezza di sentimento, che anch'egli non ha tutti i giorni. Solo Becker era presente; egli aveva le lacrime agli occhi, credo. Liszt m'ha fatto provare una grande gioia, soprattutto con l'interpretazione della seconda «Novelletta» in re maggiore. Tu non puoi immaginare l'impressione ch'essa m'ha prodotto; egli la suonerà qui, nel suo terzo concerto. Riempirei volumi se volessi raccontarti tutto il subbuglio di qui. Liszt non ha ancora dato il suo secondo concerto; preferì mettersi a letto e soltanto due ore prima fece avvertire d'essere indisposto. Che egli fosse estenuato e lo sia ancora, lo credo; ma si trattava soprattutto d'una malattia politica.
Non ti posso spiegare tutto. Ha trascorso tutta la giornata a letto, e non ha ricevuto, oltre a me, che Mendelssohn, Hiller e Reuss... Vuoi credere che al suo concerto ha suonato su un istrumento di Härtel, che non aveva prima neppur visto? Questa sua fiducia nelle sue dieci capaci dita mi piace infinitamente. Ma non prenderlo a modello, mia Clara Wieck; rimani soltanto ciò che sei. Nessuno ti raggiunge, e nel tuo modo di suonare si rivela spesso il tuo bel cuore. Siamo intesi, vecchia mia?
Oggi a quattro settimane, se Dio vuole, sarò vicino a te, buona bambina; allora sarai contenta, felice di riposarti sui mio cuore, non è vero? Claretta, non vorresti preparare in segreto un piccolo concerto per il tuo fidanzato? Io desidererei udire la «sonata in si bemolle maggiore» (la grande), ma completa; poi una delle mie «canzoni» che suonerai e canterai per me, poi un nuovo «scherzo» tuo, e, per terminare, la fuga in do diesis minore del secondo fascicolo di Bach. Non chiedo un concerto gratuito; ne pagherò il prezzo, e alla fine ci ricompenseremo reciprocamente; sai già come? Mi rallegro infinitamente di questo concerto di due fidanzati. Ah! Tu, la più cara e la migliore di tutte le creature! Quando ti rivedrò per la prima volta, ti soffocherò dalla beatitudine!

A Clara
Lipsia, 10 maggio 1840

Oggi è la festa del Giubilate, ed io potrei giubilare e piangere allo stesso tempo su tanta felicità e tanti dolori che il Cielo m'ha dato da sopportare... Ma non credere che io sia triste. Mi sento così forte, così attivo! Il lavoro m'esce tanto facilmente di mano. Sono così felice pensando a te, che non saprei nascondertelo. Tutta la mattina ho lavorato alla mia opera [93]. Ii libretto, scritto interamente da me, è già terminato, e ardo dal desiderio di cominciare ad elaborarlo. Ho certamente qualche momento di disperazione pensando alla difficoltà di trattare un soggetto tragico. Poichè tale è divenuto il mio, ma senza spargimenti di sangue e senza gli altri soliti effetti di scena. Sono entusiasta di tutti i personaggi che dovrò ora foggiare musicalmente; e tu lo sarai tra breve come me. ieri ho ricevuto, molto a proposito, una lettera e un articolo della signora von Chezy, sulla sua collaborazione all'Euriante di Weber; il tutto accompagnato da abbozzi, lettere, note, ecc. Weber era realmente uno degli artisti più colti e geniali. L'articolo uscirà sul giornale, e tu lo leggerai con grande interesse.

A Clara
Lipsia, 15 maggio 1840

Ho di nuovo composto tanto, che qualche volta ne sono quasi inquieto. Ma non posso fare diversamente: vorrei cantare sino a morirne, come un usignolo. Ho scritto dodici «canzoni» su poesie di Eichendorff; non ci penso già più e ho incominciato quache cosa di nuovo. Il libretto dell'opera mi dà preoccupazioni. J. Becker m'ha portato un saggio, da cui ho veduto ch'egli non ne ha ben compreso lo spirito. Comporre su brutte parole mi fa orrore; non esigo un grande poeta, ma ho bisogno d'una lingua e d'un sentimento sano. Non abbandonerò certo il bel progetto, e sento in me sufficiente talento drammatico. Tu rimarrai stupefatta dei complessi che ne risulteranno...

A Clara
Lipsia, 31 maggio 1840

Non posso attenderti più a lungo! Tu mi strappi persino alla musica! Sarai tuttavia meravigliata di ciò che ho potuto terminare e trascrivere in così breve tempo. Ma ora dovrei smettere di comporre e non posso... In mezzo a tanta musica, disimparo totalmente a scrivere e quasi a pensare: devi accorgertene leggendo le mie lettere. Ah! Comprendo con dolore che durante tutta la mia esistenza non avrei dovuto occuparmi che di musica.
Nella tua ultima lettera mi parli d'usi «giusto punto», che mi vorresti vedere raggiungere. Non aspirare troppo da me: io non desidero null'altro che un pianoforte e te presso a me...
Ho terminato per l'appunto la mia op. 22. Non l'avrei mai pensato all'epoca della mia op. 1: in otto anni, ventidue opere formano una cifra rispettabile. Vorrei comporne ancora il doppio, e poi morire. Talvolta mi sembra d'entrare in una via musicale del tutto nuova.

A Ernesto A. Becker
Lipsia, 12 agosto 1840

Mio carissimo amico,
devi naturalmente essere il primo a ricevere il messaggio di gioia. La nostra causa è terminata e da ieri ha acquistato un valore giuridico. Puoi ben immaginare che non tarderemo a fare gli ultimi passi. La cerimonia verrà celebrata in un tranquillo villaggetto vicino. Ci faresti il più grande piacere fungendo da testimonio. Oltre alla madre e alla zia di Clara - e forse mio fratello - non vi assisterà nessuno. Con la benedizione di Dio, saremo uniti ii 12 settembre. Promettimi di non dire a nessuno la data; non si può mai sapere se il vecchio non ci giocherà un brutto tiro. Ma promettimi anche di venire. Saremo felici insieme.
Clara è a Weimar e ieri sera ha suonato in presenza dell'imperatrice. È una bella combinazione, perchè forse quest'inverno andremo a Pietroburgo. Addio, dunque, mio carissimo. Saluta tutti coloro che si ricordano di noi con affetto. Spero di sentire fra breve che accogli la nostra preghiera.

Dal diario di Clara

Il 12 settembre. Che posso dire di questo giorno? Alle dieci, ii matrimonio venne celebrato a Schönefeld [94]. Dapprima suonarono un Corale, poi il predicatore Wildenhahn (un amico d'infanzia di Roberto) pronunciò un breve e semplice discorso: parole che partivano dal cuore e arrivavano al cuore. Tutto il mio essere era pieno di riconoscenza per Colui che, attraverso tanti scogli e rocce, ci ha guidato l'una verso l'altro. L'ardente preghiera che Gli ho rivolto fu quella di conservarnii il mio Roberto per lunghi, lunghi anni. Ah! Il solo pensiero che potrei perderlo, ora ch'egli viene a me, mi la smarrire la ragione. Il Cielo mi protegge da tale sciagura, che non sopporterei!
Dopo la cerimonia, Emilia ed Elisa List sono venute a sorprenderci. A mezzogiorno Reuter, Wenzel, Herrmann, Becker, mia madre, le Liszt ci raggiunsero da Carlo. Con loro trascorremmo it pomeriggio a Zweinaundorf e la sera di nuovo in casa di Carlo. Venne anche la signora Liszt.
Si ballò un po' - non si fece baldoria, ma su tutte le facce splendeva una profonda, intima letizia.
Fu una bella giornata. Anche il sole, ch'era nascosto da alcuni giorni, diffuse su noi al mattino, quando ci recammo alla cerimonia, i suoi miti raggi, quasi volesse benedire la nostra unione.
Nulla venne a turbarci durante la giornata, che io annoto in questo libro come la più bella e la più importante della mia vita.

A Camillo Stamarr (Parigi)
Lipsia, 28 settembre 1840

La tua lettera m'ha piacevolmente sorpreso. Come hai fatto ad apprendere così presto la notizia della mia felicità? Credimi che io stesso te l'avrei comunicata; ma rifletti un po' a tutto ciò che c'è da fare in un simile momento, e perdonami. Tu sai quant'è vasta ed esigente la mia corrispondenza ufficiale, e inoltre quanto sono occupato con la mia musica.
Il corso della mia vita, in questi ultimi anni in cui non hai udito parlare di me, è stato molto agitato; ne puoi vedere in gran parte il riflesso nelle mie composizioni. Quanto desidererei che tu conoscessi le mie nuove opere, soprattutto quelle per canto; ma voi altri parigini non v'occupate affatto di ciò che si produce all'estero.
Desidererei altrettanto sapere ove t'ha condotto il tuo buon genio. In quanto a me, la mia musica è divenuta più serena, più penetrante, più melodiosa. L'hai già notato senza dubbio nelle «Kinderszenen». Quelle non sono che bagattelle, e poi mi sono provato a cose ben più importanti.
Ti sbagli se credi che non ho apprezzato il tuo ritratto: esso è davanti a me, sulla mia scrivania. Ti manderei volentieri il mio. Scrivimi come devo fare.
Caro Stamaty, ho una moglie ottima. Questa felicità è superiore ad ogni altra. Vorrei che tu potessi vederci una volta nella nostra ridente abitazione d'artisti. Prenditi tu pure presto una brava moglie!...

Il musicista che visita Vienna per la prima volta può bearsi per un po’ di tempo del festevole rumore delle strade e spesso fermarsi ammirato davanti al campanile di Santo Stefano; ma tosto si ricorderà che non lontano dalla città si trova un cimitero, più importante per lui di tutto ciò che la città ha di più notevole, dove due dei più grandi spiriti della sua arte riposano a pochi passi soltanto l’uno dall’altro [Dal 1888 ambedue riposano nel cimitero centrale, accanto al monumento funerario di Mozart]. Come me, più d’un giovane musicista dopo i primi giorni di stordimento, sarà andato al cimitero di Währing, per porre su quelle tombe un’offerta di fiori, fosse pur soltanto un mazzo di rose selvatiche, come ne ho trovate piantate vicino alla fossa di Beethoven. La tomba di Franz Schubert era disadorna. Alfine s’era compito un fervido desiderio della mia vita ed io contemplai a lungo le due tombe sacre, quasi invidiando quel tale, un conte O’ Donnel se non erro, che giace proprio in mezzo a loro. Guardare in viso per la prima volta un grand’uomo, stringer le sue mani, appartien bene, credo, ai momenti più desiderati d’ognuno. Se non m’è stato concesso di poter salutare in vita quei due artisti, ch’io venero al di sopra di tutti i musicisti moderni, avrei voluto almeno aver vicino in quella visita funebre un loro intimo amico, o meglio di tutto, pensavo fra me, un loro fratello. Tornando a casa, mi venne in mente che infatti viveva ancora un fratello di Schubert, Ferdinand, che, come sapevo, Schubert stesso aveva amato assai. Andai tosto da lui e lo trovai somigliante al fratello (secondo l’aspetto del busto che vidi accanto alla tomba del maestro), più piccolo, ma saldamente complesso, e nell’espressione del suo viso si leggeva lealtà e musica in egual misura. Egli mi conosceva di nome, poiché spesso ebbi l’occasione di esprimere pubblicamente la mia venerazione pel fratello. Egli mi raccontò e mi fece vedere molte cose, alcune delle quali, colla sua autorizzazione, erano state anche prima comunicate alla Rivista sotto il titolo di “Reliquie”. Infine mi fece vedere alcune composizioni (veri tesori!) del fratello Franz Schubert, che ancora si trovano nelle sue mani. La ricchezza che ivi giaceva ammucchiata mi fece fremere di gioia; dove mettere prima le mani, dove fermarsi? Fra l’altro, mi vennero mostrate le partiture di parecchie sinfonie, molte delle quali non sono ancora state eseguite, anzi spesso furono messe da parte, dopo ritoccate, perché troppo difficili e troppo ampollose. È necessario conoscere Vienna, le particolari condizioni dei concerti, le difficoltà di riunire i mezzi per allestire grandi esecuzioni, per scusare il fatto che qui, dove Schubert è vissuto e ha scritto, all’infuori dei suoi Lieder, accade di sentir poco o nulla delle sue maggiori opere strumentali. Chi sa quanto tempo anche la Sinfonia, di cui oggi parliamo, sarebbe rimasta coperta di polvere e nell’oscurità, s’io non mi fossi tosto inteso con Ferdinand Schubert d’inviarla a Lipsia alla direzione del Gewandhaus ed all’artista stesso che li dirige, al cui acuto sguardo difficilmente sfugge la più timida bellezza sbocciante, e perciò tanto meno quella splendida e magistralmente abbagliante. Così si realizzò la cosa. La sinfonia giunse a Lipsia, venne udita, compresa, di nuovo udita con gioia e quasi universalmente ammirata. L’operosa casa editrice Breitkopf ed Haertel comprò l’opera e la privativa, ora finalmente è pronta nelle parti, e presto lo sarà in partitura, come noi desideriamo per l’utilità e il bene di tutti.
Lo dico subito apertamente: chi non conosce questa Sinfonia conosce ancor poco lo Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’Arte. S’è detto così spesso e a dispetto dei compositori che “dopo Beethoven bisognava astenersi dal comporre opere sinfoniche” e infatti, all’infuori di alcune opere orchestrali di una certa importanza (le quali sono interessanti soltanto per il giudizio sulla formazione della cultura dei loro compositori, e non esercitarono un decisivo influsso né sulla massa, né sul progresso del genere) all’infuori di alcune opere, dico, la maggior parte delle altre fu soltanto un opaco riflesso della maniera beethoveniana: non tenendo conto naturalmente di quei fiacchi e noiosi fabbricanti di sinfonie che avevano la forza d’imitare in modo passabile l’ombra della cipria e della parrucca di Haydn e di Mozart, ma non le teste che vi appartenevano. Berlioz appartiene alla Francia e viene nominato solo qualche volta come uno straniero interessante e come una testa balzana. Quello che avevo presentito e sperato, (e tanti forse con me) è ora avvenuto in modo magnifico: Schubert, mostratosi già in molti altri generi sicuro nelle forme, ricco di fantasia e vario, afferrò a modo suo anche la sinfonia, trovò il modo di cogliere il punto giusto per giungere alla folla. Certo egli non ha pensato di voler continuare la Nona Sinfonia di Beethoven, ma da artista diligentissimo, creò ininterrottamente una sinfonia dopo l’altra; il trovarsi davanti alla sua settima sinfonia senza aver conosciuto le precedenti e senza aver assistito allo sviluppo delle medesime è forse l’unico inconveniente a cui potrebbe dar luogo la sua pubblicazio-ne e così causare l’incomprensione dell’opera. Forse anche per le altre sue composizioni sarà tolto il catenaccio; la più piccola opera avrà pur sempre l’importanza di una cosa di Franz Schubert; anzi i plagiatori viennesi di sinfonie non avrebbero avuto bisogno di cercare tanto lontano l’alloro desiderato, poiché si trovava sette volte ammucchiato nel piccolo studio di Franz Schubert in un sobborgo di Vienna. Qui sì c’era da donare una degna corona! Spesso accade così: se a Vienna si parla, per es., di * , non finiscono mai di lodare il loro Franz Schubert; ma se sono fra di loro, non vale nessuno dei due. Come che sia, rinfreschiamoci ora alla ricchezza dello spirito che sprizza da quest’opera preziosa. È ben vero però, che questa Vienna col suo campanile di Santo Stefano, con le sue belle donne, con la sua pompa pubblica e cinta dal Danubio come da innumerevoli nastri, si distende nel piano fiorito (che a poco a poco sale a monti sempre più alti) è ben vero che questa Vienna con tutti i suoi ricordi dei più grandi maestri tedeschi, dev’essere un fertile terreno per la fantasia d’un musicista. Sovente, quando contemplavo la città dalle alture dei monti, mi venne in mente che più di una volta l’occhio irrequieto di Beethoven si sarà rivolto verso quella lontana catena di Alpi; che Mozart avrà spesso seguito sognante il corso del Danubio, inoltrantesi fra i boschi e le foreste; che papà Haydn ben sovente avrà guardato dal campanile di Santo Stefano, scuotendo il capo davanti a così vertiginosa altezza. Gli aspetti pittoreschi del Danubio, del campanile di Santo Stefano, delle Alpi lontane riunite insieme e penetrate d’un vago profumo d’incenso cattolico: ecco Vienna! e se l’incantevole paesaggio ci sta innanzi vivo, vibreranno delle corde che mai altrimenti sarebbero state in noi toccate. Nella sinfonia di Schubert, piena di chiara, fiorita vita romantica, la città mi sorge oggi innanzi più nitida che mai, e ancor m’è chiaro come in questi luoghi appunto possano nascere opere simili. Io non dico questo per dar rilievo alla composizione della sinfonia; le diverse età scelgono troppo variamente nel fondo dei loro testi e delle loro immagini e se al giovane diciottenne una data musica suggerisce un avvenimento storico, l’uomo adulto non vede che un semplice fatto, mentre invece il musicista non ha pensato né all’una né all’altra cosa e ci ha dato soltanto la musica migliore che aveva nel cuore. Si può ben credere che il mondo esteriore, oggi colla sua luce, domani colle sue ombre, penetri nell’intimo del poeta e del musicista; ma in questa sinfonia si cela qualcosa di più di una semplice melodia e dei sentimenti di gioia e di dolore che la musica ha già espresso altre volte in cento modi; essa ci conduce in una regione dove non possiamo ricordare d’essere già stati prima: per consentire in tutto ciò, si deve ascoltare profondamente una simile opera. Oltre ad una magistrale tecnica musicale della composizione, qui c’è la vita in tutte le sue fibre, il colorito sino alla sfumatura più fine, v’è significato dappertutto, v’è la più acuta espressione del particolare e soprattutto infine v’è diffuso il romanticismo che già conosciamo in altre opere di Franz Schubert. E questa divina lunghezza della sinfonia è, come uno spesso romanzo in quattro volumi di Jean Paul che non finisce mai, per l’ottima ragione di lasciar creare il seguito al lettore. Questo sentimento di ricchezza diffuso ovunque ricrea l’animo, mentre purtroppo in generale si deve sempre temere la fine che molto spesso vi delude. Sarebbe incomprensibile come Schubert abbia potuto acquistare di colpo questa splendida maestria di maneggiare l’orchestra colla massima facilità, se appunto non si sapesse che sei altre hanno preceduto questa sinfonia da lui scritta nella più matura virilità [Sulla partitura è scritto “marzo 1828”; nel novembre Schubert morì (Sch.)]. Bisogna pur sempre chiamare un ingegno straordinario chi come lui (che durante la vita sentì eseguire così poco le sue opere orchestrali) raggiunse un così caratteristico modo di trattare gli strumenti e la massa orchestrale, tanto da sembrare un dialogo fra le singole voci umane e un coro.
Eccettuate molte opere beethoveniane, non ho mai trovato questa rassomiglianza con l’organo della voce, così ingannevole e sorprendente; è l’opposto trattamento del canto di Meyerbeer. La completa indipendenza in cui sta questa sinfonia rispetto a quelle di Beethoven, è un altro indizio della maturità dell’artista. Si osservi come il genio di Schubert si manifesta qui giusto e saggio. Nella coscienza delle sue forze più modeste egli cerca d’evitare le forme grottesche, le ardite relazioni, che noi incontriamo nelle ultime opere di Beethoven; egli ci dà un’opera in una forma più leggiadra e, sebbene in un modo nuovo, non ci conduce mai troppo lontano dal punto centrale e sempre ci riporta ad esso. Così deve sembrare a chiunque consideri la sinfonia. Il brillante, il nuovo dell’istrumentazione, la larghezza e l’ampiezza della forma, il grazioso avvicendarsi della vita interiore, tutto quel mondo nuovo in cui siamo trasportati confonderà in principio questa o quella persona, come del resto accade a chiunque getti un primo sguardo su qualcosa d’inconsueto; tuttavia anche così rimane sempre quel soave sentimento che si prova dopo il passaggio d’una pièce favolosa ed incantata; si sente ovunque come il compositore sia padrone del fatto suo e la connessione delle cose diverrà col tempo ben chiara a tutti. La pomposa e romantica introduzione dà subito questa impressione di sicurezza, sebbene tutto appaia ancor velato di mistero. Interamente nuovo è pure il passaggio da questa introduzione all’allegro; il tempo non sembra mutarsi affatto, vi si giunge senza saper come. Analizzare, smembrare le singole parti non apporta nessuna gioia, né a noi né agli altri; per dare un’idea del carattere di racconto che la compenetra, si dovrebbe trascrivere tutta la sinfonia. Non voglio però lasciare senza una parola la seconda parte, che ci parla con voci così commoventi. In essa si trova un passo, là dove un corno chiama come da lontano, che mi sembra esser disceso da un’altra sfera. Qui tutto appare come se un ospite divino si fosse introdotto di soppiatto nell’orchestra.
Questa sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quelle di Beethoven. Artisti e amici dell’arte si sono riuniti in suo onore: ed ho udito dal maestro, che l’ha diretta così accuratamente e che ha reso l’esecuzione così superba, pronunciare alcune parole quali avrei voluto riferire a Schubert come un alto messaggio di gloria per lui. Forse dovranno passare degli anni prima che la sinfonia sia resa familiare in Germania, tuttavia non c’è da dubitare ch’essa venga trascurata; essa porta in sé l’eterno germe di giovinezza.
La visita funebre, che m’ha fatto ricordare un parente del Dipartito, mi ha dunque portato una seconda ricompensa. La prima l’ebbi in quel giorno stesso: io trovai sulla tomba di Beethoven... una penna d’acciaio, ch’io ho conservato caramente. L’uso soltanto nelle occasioni solenni, come oggi: possa esserne sgorgato qualcosa di gradevole!

LE QUATTRO OUVERTURES DEL «FIDELIO»

Dovrebbe esser stampato a lettere d’oro ciò che l’orchestra di Lipsia ha eseguito giovedì scorso: tutte le quattro ouvertures del Fidelio, l’una dopo l’altra. Sien grazie a voi, o Viennesi del 1805, ché non vi piacque la prima e così Beethoven in un accesso di rabbia divina ne creò una dopo l’altra ancora tre! Mai, né meglio m’apparve così possente come quella sera in cui l’ho potuto spiare sul lavoro nel suo laboratorio - mentre creava, scartava, modificava - sempre focoso e ardente. Forse più gigantesco egli s’è mostrato nel secondo piglio. La prima ouverture non era piaciuta. “Un momento!” disse fra sé “alla seconda ouverture dovrà passarvi la voglia di pensare. E si pose nuovamente al lavoro, fece sfilare dinanzi alla sua mente il dramma commovente e cantò ancora una volta i grandi dolori e la grande gioia della sua amata.
È demoniaca, questa seconda ouverture, e nei particolari forse ancor più ardita della terza (la più conosciuta) in do maggiore. Poiché anche quella non lo soddisfece, egli la mise di nuovo da parte e mantenne soltanto dei pezzi staccati dai quali formò la terza con più calma e più arte. Più tardi seguì ancora quella più facile e popolare in mi maggiore, che di solito si sente come ouverture, in teatro.
Questa è la grande opera delle quattro ouvertures; a simiglianza di come crea la natura, noi vediamo prima l’intreccio delle radici, da cui poi nella seconda si solleva il fusto gigantesco, allarga le sue braccia a destra e a sinistra e chiude infine con un leggero cespo di fiori.

FRANZ LISZT

I

Ancora affaticato da una serie di sei concerti che ha dato a Praga durante un soggiorno di otto giorni, sabato sera giunse a Dresda il signor Liszt. È difficile che sia stato atteso altrove più ardentemente che nella capitale ove soprattutto sono prediletti il pianoforte e la sua musica. Lunedì egli diede un concerto: la sala era splendente ed affollata dalla migliore società ed anche da parecchi membri della famiglia reale. Tutti gli sguardi fissavano la porta da cui doveva entrare l’artista. È vero che il suo ritratto è molto conosciuto e che quello davvero eccellente di Kriehuber ha afferrato con i tratti più decisi il suo profilo di Giove; ma il giovine Giove in persona interessa sempre in un modo del tutto speciale... E difatti noi spieremo devotamente ogni movimento di quest’artista dei cui miracoli siamo stati informati già vent’anni fa udendo sempre il suo nome accanto ai più importanti, e infine davanti al quale, come davanti a Paganini, si inchinarono tutti i partiti e apparvero riconciliati per un momento! Così tutto il pubblico l’acclamò entusiasticamente alla sua entrata, prima ancora ch’egli cominciasse a suonare. Io l’avevo già udito; ma l’artista di fronte a un pubblico e di fronte a poche persone, è diverso. Le sale belle e splendenti, lo sfavillio dei candelabri, il pubblico elegante, tutto ciò eleva la disposizione d’animo tanto di chi dà, come di chi riceve. Il demone mosse le sue forze; quasi volesse provare il pubblico sembrò giocare prima con lui, poi gli diede da ascoltare qualcosa di più profondo, finché avvolse, per così dire, ciascuno colla sua arte e sollevò e portò seco tutti come voleva. Questa forza, di sottomettere un pubblico, di sollevarlo, di portarlo e di lasciarlo cadere a piacimento, non si può certo incontrare ad un grado così elevato in nessun’altro artista, Paganini eccettuato. Uno scrittore viennese ha celebrato Liszt in una poesia che si componeva soltanto di epiteti ricavati dalle sole lettere del nome; la poesia, in sé priva di gusto, ha però il suo lato buono; come le lettere e i concetti s’accavallano uno sull’altro sfogliando un dizionario, qui nello stesso modo si affollano intorno a noi i suoni e le impressioni. In un minuto secondo s’avvicendano il delicato, l’ardito, il vaporoso, lo stravagante; lo strumento fiammeggia e scintilla sotto il suo maestro. Di tutto ciò s’è già parlato centinaia di volte e i viennesi in special modo hanno tentato d’impadronirsi dell’aquila in tutti i modi possibili, volandogli dietro con corde, con forconi e con poesie. Bisogna vederlo, oltreché sentirlo; Liszt non dovrebbe assolutamente suonare fra le quinte, andrebbe perduta una gran parte di poesia.
Egli ha suonato e accompagnato tutto da solo il concerto, dal principio alla fine. E come Mendelssohn ha avuto un giorno l’idea di dedicare un intero concerto ad un solo autore con ouverture, pezzi di canto e d’istrumenti (l’idea si può abbandonare al pubblico per utilizzarla); così Liszt dà i suoi concerti quasi sempre da solo. La signora Schroeder--Devrient soltanto gli comparve accanto ed è ben l’unica che sappia ovunque sostenersi in una simile vicinanza. Essi eseguirono insieme il Re degli Elfi e alcuni piccoli Lieder di Schubert.
Non conosco abbastanza il termometro del successo del pubblico locale per parlare dell’impressione che ha fatto in Dresda lo straordinario artista, e per pronunciarmi in proposito. L’entusiasmo fu definito straordinario; in verità, fra tutti i tedeschi, il viennese è quello che meno risparmia le mani e nella sua idolatria giunge persino a conservare i guanti stracciati nell’applaudire Liszt. Nella Germania settentrionale è un’altra cosa, s’è detto.
Martedì mattina Liszt è partito per Lipsia. Un’altra volta parleremo della sua apparizione fra noi.


II.

Ai lettori lontani e stranieri, a quelli che non hanno la speranza di veder mai quest’artista in persona e stan dietro ad ogni parola che vien detta su di lui - io vorrei dar loro un’immagine di quest’uomo straordinario! Ma questo ha le sue difficoltà. La cosa più facile è ancora il parlare del suo aspetto esteriore. S’è cercato di ritrarlo in molti modi, s’è detta schilleriana ed anche napoleonica la testa dell’artista; e come tutti gli uomini straordinari sembrano avere un tratto in comune, specialmente quello dell’energia e della forza di volontà negli occhi e nella bocca, così quei confronti colgono in parte nel vero. Egli rassomiglia soprattutto a Napoleone, quale abbiam spesso visto ritratto da giovane generale - pallido, magro, dal profilo marcato, con l’espressione della figura concentrata piuttosto nell’alto della testa. È pure sorprendente la rassomiglianza di Liszt col defunto Ludwig Schunke, somiglianza che colpisce ancor più profondamente al riguardo della sua arte, così che io spesso durante le esecuzioni di Liszt ho creduto di riudire qualcosa di già udito. Ma la cosa più difficile è il parlare di quest’arte stessa. Non si tratta più di questo o quel modo di suonare il pianoforte, ma soprattutto della “espressione” di un carattere ardito, a cui per dominare e per vincere la sorte non ha dato utensili pericolosi, ma quelli pacifici dell’arte. Quanti e importanti artisti ci son passati dinanzi in questi ultimi anni, quanti ne possediamo noi stessi che per parecchi rispetti stanno a paro di Liszt, già sappiamo: ma per energia e audacia essi devono tutti lasciargli senz’altro il posto. In ispecial modo si è voluto porre volentieri Thalberg a gara con lui, per paragonarli l’uno all’altro. Basta osservare soltanto le due teste, per trarre la conclusione. A questo pro-posito ricordo il detto d’un noto disegnatore viennese che paragonò la testa del suo compatriota Thalberg con quella “d’una bella contessa dal naso maschile”, mentre della testa di Liszt diceva che poteva servir di modello ad ogni pittore per quella di un dio greco. Una simile differenza vale all’incirca per l’arte loro. Come esecutore Chopin può stare a paro di Liszt e non gli cede in nulla, almeno per ciò che riguarda fantastica delicatezza e grazia; ma ben più vicini gli stanno Paganini e, come donna, la Malibran; dall’arte loro, infatti, Liszt stesso riconosce di aver profittato di più.
Liszt ora può essere vicino ai trent’anni. Com’egli già da ragazzo fu detto un fenomeno, come per tempo venne lanciato all’estero, come più tardi il suo nome splendente emerse qua e là accanto ai più celebri e come poi egli sia scomparso per lungo tempo finché l’apparizione di Paganini lo stimolò a nuove aspirazioni, com’egli due anni or sono improvvisamente rientrò in scena a Vienna ed entusiasmò la città imperiale - queste ed altre cose - già sappiamo. Dopo la sua fondazione, la Rivista ha cercato di seguire l’artista e non ha celato nulla di ciò che risuonava pro o contro di lui, sebbene le voci maggiori e quelle specialmente di tutti i grandi artisti s’unissero per lodare il suo eminente ingegno. Così egli venne recentemente da noi, ornato coi più alti onori che possano accogliere un artista, e solidamente stabilito nella gloria; era quindi difficile preparargli dei nuovi onori o accrescergli la gloria, più facile invece era volerglieli diminuire, giacché in ogni tempo sono esistiti pedanti e bricconi. E questa ultima cosa fu qui tentata. Il pubblico era inquieto non per colpa di Liszt, ma disgustato per gli errori della disposizione del concerto. Un uomo conosciuto come “pasquinista” se ne giovò per eccitare il pubblico anonimamente contro l’artista, dicendo che Liszt “era venuto da noi soltanto per appagare la sua insaziabile avidità”. Non ricordiamo di più questa infamia.
Il primo concerto (dato il giorno 17) offrì un singolare aspetto. La folla era una massa confusa. La sala appariva interamente un’altra. I posti riservati all’orchestra erano stati utilizzati per gli uditori. E in mezzo, Liszt.
Cominciò con lo scherzo e col finale della Sinfonia pastorale di Beethoven. La scelta era abbastanza bizzarra e non felice per molte ragioni. In una stanza, a quattr’occhi, questa trascrizione, del resto estremamente accurata, può far dimenticare l’orchestra; ma in una sala più grande, nello stesso luogo dove abbiamo udito la sinfonia così sovente e compiutamente dall’orchestra, la debolezza dello strumento appariva tanto più sensibile, quanto più la trascrizione cercava di rendere le masse nella loro forza; una riduzione più semplice, uno schizzo avrebbe forse fatto maggior effetto. Tuttavia, si capisce, s’era udito il maestro al suo strumento; s’era contenti di averlo visto scuotere la criniera. Per rimanere nell’immagine, il leone tosto si mostrò più possente: eseguendo una fantasia su temi di Pacini, in modo straordinario. Ma tutta la bravura stupefacente ed audace che qui mostrò, vorrei sacrificare alla magica delicatezza ch’egli seppe effondere nello studio seguente. Eccettuato Chopin, come ho detto, nessuno lo può eguagliare. Egli finì col conosciuto Galop cromatico, ma siccome l’entusiasmo era al colmo suonò ancora il suo celebre Valzer di bravura.
Esaurimento e indisposizione impedirono all’artista di dare il promesso concerto, il giorno seguente. Frattanto gli venne preparata una festa musicale che rimarrà per Liszt stesso, come per tutti i presenti, una cosa indimenticabile. Chi dava la festa (Mendelssohn) aveva scelto, per l’esecuzione, delle composizioni sconosciute all’ospite: la sinfonia di Franz Schubert, il salmo Wie der Hirsch schreit, l’ouverture Calma del mare e Viaggio felice, tre cori del Paolo e, per finale, il concerto in re minore per tre clavicembali di Sebastiano Bach.
Quest’ultimo fu suonato da Liszt, da Mendelssohn e da Hiller. Nulla sembrò preparato, tutto sembrò nato lì per lì; furono tre ore felici di musica, come non recano anni interi. Alla fine Liszt suonò ancora da solo, e maravigliosamente. La riunione finì in un giocondo entusiasmo e lo splendore e la serenità che si rispecchiavano in tutti gli occhi possano essere stati un ringraziamento all’organizzatore per l’omaggio che rendeva quella sera al celebre e grande artista.
Ancora ci attendeva la più geniale esecuzione di Liszt: il Pezzo da concerto di Weber, col quale cominciò il suo secondo concerto. Poiché quella sera virtuoso e pubblico apparivano in un accordo di speciale vivacità, durante ed alla fine dell’esecuzione l’entusiasmo oltrepassò qualunque immaginazione.
Liszt attaccò subito il pezzo con una forza e una grandezza d’espressione quasi si trattasse d’una spedizione sul campo di battaglia, e continuò crescendo di minuto in minuto fino a quel passo in cui egli sembra mettersi a capo dell’orchestra e giubilante condurla egli stesso. Qui egli sembrò quel generale a cui noi l’avevamo paragonato nella figura esteriore, e la forza del successo non fu dissimile a un: “Vive l’Empereur!”. L’artista ci diede ancora una fantasia sul tema degli Ugonotti, l’Ave Maria, la Serenata e, a richiesta del pubblico, ancora il Re degli Elfi di Schubert. Ma il Pezzo da concerto fu e rimase il culmine delle sue interpretazioni.
Non so davvero da chi proveniva il pensiero del regalo di fiori che gli fu offerto dopo la fine del concerto per mezzo d’una cantante prediletta: certo la corona non era immeritata. Bisogna avere una natura ben stretta e maligna per criticare (come purtroppo avvenne in un giornale di qui) una così amabile intenzione. Alle gioie che l’artista vi prepara, egli ha consacrata la vita; delle fatiche che la sua arte gli è costata, voi non sapete nulla; egli vi dà il meglio di ciò che ha, il fiore della sua vita, ciò ch’è divenuto perfetto; e poi non gli vorremmo permettere una semplice corona di fiori? Ma Liszt non rimase debitore in nulla. Nella gioia visibile per la calorosa accoglienza che gli era stata fatta nel secondo concerto, egli si mostrò subito pronto a darne ancora un terzo per una qualsiasi opera pia, la cui scelta lasciava alla designazione delle persone competenti. Così suonò ancora una volta lunedì scorso a favore della cassa-pensioni per i musicisti vecchi e malati, dopo aver dato a Dresda il giorno prima un concerto per i poveri. La sala era piena zeppa; il nobile scopo, la scelta dei pezzi, il concorso delle nostre cantanti più distinte e, soprattutto, Liszt stesso, avevano sollevato molto interesse per il concerto. Ancora esaurito pel viaggio, e per i molti concerti dati nei giorni precedenti, Liszt giunse al mattino e poiché andò subito alla prova, gli rimase ben poco tempo per riposare prima del concerto. Non si permise un momento di tregua. Non devo lasciar passare questo senza ricordo: un uomo non è un Dio e lo sforzo visibile con cui egli suonò la sera del concerto era la conseguenza naturale di tante fatiche precedenti.
Con un amabile pensiero egli aveva scelto delle opere di tre compositori presenti, di Mendelssohn, di Hiller e mie; di Mendelssohn l’ultimo concerto, op. 40, di Hiller degli studi, di me parecchi numeri tratti da un’opera antica intitolata Carnaval. A stupore di parecchi timidi virtuosi, devo dire che Liszt suonò quasi tutte le composizioni per così dire, a prima vista. Egli forse conosceva fuggevolmente gli studi e il Carnaval, ma la composizione di Mendelssohn l’aveva vista soltanto pochi giorni prima del concerto; continuamente disturbato, gli fu veramente impossibile trovare un po’ di tempo per studiare. A un mio lieve dubbio che un quadro carnevalesco così rapsodico potesse fare effetto su di una folla, rispose che invece ben lo sperava, e ch’era la sua ferma opinione. Credo tuttavia si sia illuso. Dirò solo qualche parola sulla composizione che deve la sua nascita ad un caso. Il nome di una piccola città dove viveva una mia conoscenza musicale, conteneva le note della scala che appunto appartengono anche al mio nome [La piccola città Asch (As-c-h = la bem-do-si) e l’amica era Ernestina von Fricken, l’ “Estrella” del Carnaval, che per breve tempo fu fidanzata di Schumann.]; così nacque uno di quei giochetti che dopo l’esempio di Bach non son più nulla di nuovo. Un pezzo fu terminato dopo l’altro, appunto durante il carnevale del 1835, in seria disposizione di spirito e di speciali circostanze. Diedi più tardi ai pezzi dei titoli e chiamai Carnaval la raccolta. Se parecchie cose possono eccitare questo o quell’uditore, le sensazioni musicali però si mutano troppo rapidamente perché un intero pubblico, che non vuol esser disturbato ogni minuto, possa seguirle. Il mio amabile amico non aveva preso in considerazione tutto questo e per quanto suonasse con grande partecipazione e genialità, non poté sollevare l’intero pubblico, ma forse colpire qualcuno in particolare.
Accadde diversamente cogli studi di Hiller, che appartenevano ad una forma più conosciuta (uno in re bemolle magg., e l’altro in mi minore ambedue molto caratteristici e graziosi), ottennero una calda accoglienza.
Il concerto di Mendelssohn era stato già apprezzato nella sua tranquilla chiarezza magistrale attraverso l’esecuzione del compositore stesso. Come ho detto, Liszt suonò il pezzo quasi a prima vista. Nessuno può far questo così facilmente come lui. Infine, si mostrò ancora nel pieno splendore del suo virtuosismo nel pezzo finale, l’Hexameron, - un ciclo di variazioni di Thalberg, Herz, Pixis e di Liszt stesso. Si deve ammirare, come Liszt abbia avuto ancora la forza di ripetere a metà l’Hexameron e poi ancora il suo Galop a gran gioia del pubblico.
Io avrei tanto desiderato ch’egli eseguisse pubblicamente anche delle composizioni di Chopin, che suona incomparabilmente e con grande amore. In camera sua egli cordialmente eseguisce tutta la musica che si desidera sentire da lui. Quante volte l’ho ascoltato così, e con quale ammirazione!
Ci lasciò martedì sera.

UN CONCERTO D’ORGANO DI MENDELSSOHN

Vorrei poter scrivere di ieri sera, in queste pagine, a lettere d’oro. È stato finalmente un concerto per “uomini”, un buon concerto dal principio alla fine. E ancora una volta mi sono accorto che con Bach non si è mai finito e ch’egli divien sempre più profondo quanto più lo si sente. Zelter, e più tardi Marx, hanno detto su ciò cose perfette e molto giuste...
La migliore rappresentazione e spiegazione delle sue opere, rimane poi sempre quella viva, cioè coi mezzi della musica stessa; e da nessuno se ne potrebbe intendere una più fervida e fedele di quella dataci iersera da chi ha dedicato la maggior parte della sua vita a Bach e ch’è stato il primo a rinfrescarne in Germania il ricordo con tutta la forza del suo entusiasmo. Anche adesso egli dà il primo impulso perché con un monumento pubblico l’immagine di Lui sia portata più vicino all’occhio dei contemporanei. Son già trascorsi cent’anni prima che questo fosse tentato da altri; devono forse passarne altri cento perché giunga ad effetto?
Non è nostra intenzione di chiedere con un appello formale qualche cosa per un monumento a Bach: quelli per Mozart e per Beethoven non sono ancora finiti, e dovrà passare del tempo prima che lo siano.
Ma l’idea uscita ora di qui potrebbe eccitare qualcuno qua e là, specialmente nelle città che si sono rese particolarmente benemerite per l’assidua esecuzione delle opere di Bach, per esempio di Berlino e Breslavia, dove molti sanno che cosa l’arte deve a Bach: infatti a Bach la Musica deve poco meno di ciò che una religione deve al suo fondatore. Su ciò s’esprime Mendelssohn stesso in chiare, semplici parole nella circolare che annunzia il concerto...

TRIO IN RE MINORE DI F. MENDELSSOHN Op. 49

Poche parole su quest’opera, ché certo si trova già nelle mani di tutti.
È il trio-maestro del presente, come a loro tempo furono quelli di Beethoven in si bemolle e in re, e quello di Schubert in mi bemolle, un capolavoro che dopo anni rallegrerà ancora nipoti e pronipoti. La tempesta di questi ultimi anni comincia a calmarsi a poco a poco e, confessiamolo, ha già gettato alla riva parecchie perle. Sebbene scosso da quella meno di ogni altro, Mendelssohn rimane pur sempre un figlio del tempo, e ha dovuto lottare e spesse volte ascoltare il chiacchierio di alcuni ottusi scrittori: “La vera fioritura della musica è dietro di noi”; egli invece ha saputo conquistarsi un posto elevato sì che possiamo dire: egli è il Mozart del secolo XIX, il più limpido musicista che primo ha chiaramente viste e riconciliate le contraddizioni dell’epoca. E non sarà neppure l’ultimo artista.
Dopo Mozart è venuto un Beethoven; al nuovo Mozart seguirà un nuovo Beethoven, anzi è forse già nato. Che cosa debbo dire ancora su questo trio, che, appena sentito, ciascuno non abbia già detto da sé? Più felici senza dubbio, quelli che l’hanno udito dal creatore stesso. Se vi possono essere dei virtuosi più arditi, altri difficilmente però saprà rendere le opere di Mendelssohn con la freschezza così incantevole del compositore stesso.
Questo non spaventi alcuno dal suonare anche il trio; confrontandolo con altri, per esempio con quelli di Schubert, ha minori difficoltà, benché queste nelle opere di prim’ordine siano sempre in rapporto coll’effetto, sicché maggiori son le difficoltà, più ricco è l’effetto. Ma che il trio non sia del pianista soltanto, ma che anche gli altri debbano penetrarlo e possano contare sul godimento e sul ringraziamento di chi ascolta, non occorre, credo, ricordare.
Operi dunque questo trio il suo effetto, come deve, e sia per noi una nuova testimonianza della forza artistica del suo creatore, che ora pare quasi alla sua più alta fioritura.