RICHARD WAGNER WEBSITE

_____________________________________________________________________________

ADRIANO LUALDI

IL RITMO DELL'INCUDINE
Zurigo, giugno 1926


VIAGGIO MUSICALE IN EUROPA

Sono entrato l'altra sera nel maggior Teatro zurighese mentre rapita Freia dai Giganti, Wotan e Loge si disponevano a partire per i regni bui, animati dal nobile proponimento di rubare l'oro ad Alberico.
La scena, già immersa in una luce fredda - perchéFreia, la bella Dea della giovinezza e dell'amore si era allontanata - si è oscurata rapidamente; una cavalcata di nuvole passando davanti al Walhalla lo ha fatto ballonzolare un poco per via della lanterna magica che proiettava monte e maniero sulla tela del fondo e che non erainsensibile, pare, ai colpi di vento o agli sternuti dell'elettricista. Una fumea di vapori si alzava, fiocamente illuminata, nella sempre più densa. ombra circostante, dal picco di Loge. Una cortina di fumo rosso dalla ribalta, una «nebulosa» dall'alto. L'orchestra accompagna Wotan e Loge nel loro viaggio. Giù, giù, sembra che tutto sprofondi verso chi sa quali abissi. A momenti di sonorità cupe e sorde seguono pause di silenzio; strati di terra muta succedono a strati di pietra sonante. Ecco finalmente, tra brume di lontananza, il ritmo delle incudini, il «motivo» della fucina. Le note ribattute con forza sempre crescente paiono l'imagine musicale di unavolontà invincibile. E il pubblico ascolta, soggiogato.

Certo, la vittoria di Wagner, non è soltanto la vittoria di un genio, è anche la vittoria di una volontà. Dalla prima stesura, nel 1848, del poema de La mrte di Sigfrido divenuto poi il Il crepuscolo degli Dèi, compimento della tetralogia in ogni sua parte, nel 1874: ventisett anni di lavoro. Molti di questi dedicati alla composizione di altre opere, e tutti turbati, sempre, da preoccupazioni e da difficoltà materiali, da crisi, sentimentali - è di questo periodo il romanzo con Matilde Wesendonck - dalle delusioni dei viaggi a Parigi e a Londra, intrapresi con tante speranze, e riusciti del tutto inutili così materialmente che moralmente, dalla catastrofica caduta del Tannhäuser a Parigi, dalla necessità di mutare spesso residenza.
Ma nulla bastava a distogliere l'artista dalla mèta e a fargli dimenticare lo scopo che si era prefìsso. Il fabbro non abbandonava l'opera sua; per cara che gli costasse; lo squillo dell'incudine era sempre più ostinato delle più ostinate avversità.
Qualche cosa di ineluttabile era nella volontà di Wagner, anche quando egli cercasse di transigere col suo sentimento più profondo e col suo istinto, anche quando si di cedere alle ragioni delle necessità esteriori. Senza richiamare alla mente i fatti più noti, e che rappresentano quasi il bagaglio obbligatorio ogni volta che si parli deil'artista lipsiense, si può ricordare il momento critico attraversato nel 1849 da Wagner quando, ritornata a lui che si trovava a Zurigo, la moglie Minna, egli dovette:cedere alle insistenze di lei, e prometterle, almeno, di accettare una proposta che gli veniva da Liszt: di scrivere un'opera per Parigi: il solo modo per realizzare qualche guadagno, nell'assoluta indigenza presente. La moglie, scontentissima del soggiorno zurighese le sembrava meschino, e privo di ogni possibilità; mal disposta verso gli amici del marito; sdegnosa degli aiuti finanziari ai quali Wagner era costretto a ricorrere continuamente per tirare avanti la vita; sfiduciata, invecchiata, stanca, sosteneva che il maestro dovesse far tacere i suoi scrupoli artistici, e lanciarsi nella più brillante carriera parigina. Scrivesse, dunque, l'opera che avrebbe potuto sollevarlo dalla miseria e aprirgli le vie della fortuna: un'opera del tipo Rienzi, che non presentasse pericoli né difficoltà
Wagner si adatta all'imposizione; ma non nasconde a se stesso che non solo l'idea di questo viaggio e il progetto di un tale melodramma gli riescono antipatici; confessa, altresì, di essere sul punto di commettere una specie di disonestà, perchè sa perfettamente che le sue intenzioni non sono serie, né lo saranno;mai. E... si immerge negli studii di filosofia e d'arte; e, sempre incerto del pan e lottando contro il freddo della sua piccola camera, scrive L'opera d'arte dell'avvenire, e prepara così, nel momento stesso in cui la sua ragione accoglie i suggerimenti pratici di Minna, le basi del gigantesco edificio che avrebbe costruito più tardi, pura espressione di elevatissimi ideali artistici; e nel momento stesso in cui si piega apparentemehte all'idea di scrivere un melodramma secondo le buone regole della tradizione e del tornaconto, concreta, nell'animo inflessibile, la rivoluzionaria riforma.
È vero che, nelle ultime pagine del suo stesso libro di filosofia e di estetica L'opera d'arte dell'avvenire, egli trova poi la leggenda di Wieland il fabbro, utilizzabile per l'opera da scrivere a Parigi. Ma questo Wieland è un fabbro finto che, coi suoi colpi sull'incudine di legno, deve far tacere le impazienze e le preoccupazioni di Minna. Il fabbro vero lavora in segreto e prepara, nella sua fucina dei miracoli, la Tetralogia, il Tristano, i Maestri cantori, il Parsifal.

«Ogni mattina, prima di pormi al lavoro, leggo un canto di Dante. Sono ancora immerso nell'Inferno; le sue orride bellezze mi si spiegan dinanzi mentre compongo il secondo atto della Walkiria. Frika è partita or ora e Wotan sta per dar sfogo alla piena del suo dolore. In nessun modo potrò, qui, andar oltre il secondo atto: procedo nel mio lavoro con molta lentezza e debbo poi superare, quotidianamente, nuove disorientanti contrarietà.»
Così, nel '55, da Londra, a Matilde Wesendonk. E questo è il ritornello doloroso delle sue lettere e dei suoi diarii. Una concezione gigantesca da realizzare - e ben si compende che la tetralogia sia nata sotto l'influsso di Dante - e meschine; sempre nuove difficoltà di vita pratica da superare. Qualche volta un grido di angoscia: «Amico mio carissimo, (a Liszt, nel '49) tu prendi a cuore il mio interesse, l'anima ma,la mia arte; salvami:per la mia arte!»; ma non mai la stanchezza vera e mortale; mai la rinuncia a quella che sentiva essere la sua missione. Da poco tempo giunto a Venezia, già preso nell'incantesimo di Tristano che gli sarebbe costato «ancora molte fatiche», scriveva nel settembre del '58 nel Diario destinato alla Wesenclonk: «Perfino per continuare il mio diario mi è conteso il tempo, tante lettere seccanti, minuziose, irte di incombenze, debbo scrivere mio malgrado. Che follìa, a pensai bene, questa mia! Una incessante, volgare preoccupazione della vita - e in fondo, una così profonda ripugnanza per la vita; sì che io sono costretto a costruirmela sempre più artiflciosantente per non vedermela costantemente dinanzi nei suoi aspetti repulsivi! Chi saprà mai quel che si frappone fra me e la tranquillità, della quale ho bisogno per il mio lavoro! Ma voglio resistere, poichè lo debbo. Io non appartengo a, me stesso, e le mie pene, le mie preoccupazioni, sono i mezzi per conseguire uno scopo che si ride di esse e le sfida. Animo, dunque, animo! è necessario.»
Da qualche giorno le teorie di Schopenhauer avevano colpito la mente di Wagner ma non tanto profondamente da riuscire ad allontanarlo dal lavoro. È del '54 la lettera a Liszt, nella quale Wagner, richiamandosi all'idea madre del filosofo, la negazione della volontà di vivere, l'annientamento liberatore, confessa all'amico che, quando ripensi alle tempeste scatenatesi nel suo cuore, e all'energia disperata con la quale esso si aggrappava alla speranza di sopravvivere; quando senta il temporale divenire uragano furioso, egli conosce un solo calmante che lo aiuti a trovare riposo nelle sue notti d'insonnia: il sincero, ardente desiderio di morire. «Vorrei l'incoscienza totale, il nulla assoluto, la fine di tutti i sogni, la liberazione unica e definitiva». È «la ripugnanza per la vita» di cui parlerà alla Wesendonk; e sulla quale ritornerà col pensiero con le opere con gli scritti, tante volte.
Ma nella stessa lettera a Liszt, subito dopo lo sfogo doloroso e l'abbandono al pessimismo, la volontà eroica riprende il suo dominio sull'animo dell'artista: la Tetralogia dovrà essere condotta a termine «per amore del giovane Sigfrido»; Tristano dovrà essere compiuto «perchè io non ho goduto mai, nella vita, la vera felicità d'amore, e voglio erigere a questo sogno, il più bello di tutti i sogni, un monumento nel quale la sete d'amore possa completamente saziarsi. Compiuta l'opera, mi coprirò della vela nera, per morire.» Anche l'idea della morte dopo compiuta l'opera si dileguerà più tardi, al calore rovente della passione di Tristano e Isotta. Wagner è tutto avvolto e infiammato dall'amore del suoi eroi, nei quali riflette, il tumulto doloroso e sublime del suo stesso cuore. Schopenhauer, che gli aveva appreso essere l'amore il più grande inganno della natura; che gli aveva suggerito - o aveva rafforzato - l'idea dell'annientamento liberatore, è ben lontano quando Wagner confida nel suo diario alla Wesendonk queste grandi parole di entusiasmo e di volontà: «...mi occupo ancora del Tristano. Sono ancora al secondo atto. Ma questa, sì, che sarà musica! Io potrei, tutta la vita intcra, lavorare soltanto a questa musica. Oh, diventa profonda e bella, e le meraviglie più elette si fondono, in essa, facilmente con l'idea. Mai, finora, ho fatto qualcosa di simile, ma io mi esaurisco, in questa musica, tutto... ».
Sempre intento a sorvegliarsi - timoroso, quasi, di avere in sé un nemico occulto che insidii la ferrea tempra dell'animo - dubita, una volta, lavorando Tristano, di essere affetto da ipocondria e di dovere a questa il senso di sofferenza e di fatica insopportabile che gli dà il lavoro. Tutto ciò che ha abbozzato gli pare così orribile, che perde ogni desiderio di fare dell'altro e di proseguire. Tenta più volte di ricopiare una parte sommariamente tracciata, e non riesce, e finisce col credere di dover rifare quasi tutto. Finalmente, «si impone» uno sforo; «mette in bello» le pagine gli avevano causato tanta pena, le eseguisce al pianoforte: e si avvede che vanno benissimo, e che sarebbe stato vano cercar di meglio.
«Voglio trarre un ammaestramento, conclude, dalla mia esperienza d'oggi, e fare in modo di non mostrarmi così diffidente, un'altra volta, verso i miei abbozzi. Alla fine, battendo questa via, ritornerò agile di spiriti e saprò dar forma a quel che mi balenerà nella mente ».

Anche in questa crisi tutta intima, la volontà lo aveva salvato. Nell'opera di Wagner, del resto, la volontà -meditata e irremovibile dell'artista è sempre presente ed attiva: essa è, col genio, la grande ordinatrice delle sue architetture, essa è lo strumento necessario a compiere e ad imporre al mondo riluttante, parole così vaste di significato e così nuove...
Wagner aveva accettata - forse perchè la sentiva già in sè - la distinzione schopenhaueriana, così chiaramente precisata da Nieztche, fra le arti plastiche come apollinee e l'arte musicale come dionisiaca nel senso che la pittura e la scultura, arti di riproduzione o di riflesso di fenomeni, non possono avere e non hanno la stessa origine della musica, che è «il riflesso immediato della stessa volontà, e dunque rappresenta in tutta l'apparenza fisica del mondo l'essenza metafisica». Ed era riuscito, mirabilmente, a fare della sua musica non una copia di fenomeni naturali; ma una interpretazione sonora tanto vicina, come effetto, alla causa, da identificarsi quasi con la causa stessa e da sembrare quasi una autentica voce della Natura.

A tanto è giunto Wagner musicista, da rendere se non necessario, spontaneo, a chi attraversi un bosco, il ricordo del «mormorio della foresta» non come «musica», ma come commento e rivelazione di quello che è significato e fascino della vita boschereccia; a chi pensi una notte di primavera, la canzone di Sigmondo; a chi soffra d'amore, quello di Tristano; a chi sogni la pace, il sonno di Brunilde.
Ma c'è anche, nelle proporzioni dell'opera sua, il segno della volontà che sdegna il «piacere per le belle forme» come fine a se stesso ed effetto della musica; di una volontà che tutto subordina - misure, ragioni del teatro secondo i concetti tradizionali, esigenze del senso, ben altrimenti avvezzo - alla verità dell'opera d'arte come è stata primamente intuita, e come dev'essere compiutamente espressa.
L'artista che, salendo sulla più alta guglia del Duomo di Milano, aveva esclamato: «grandioso fino alla noia», non si preoccupava che dell'opera sua si potesse dire altrettanto. Così l'aveva voluta; così doveva essere. Come una montagna, essa aveva le sue vie malpraticabili, e i suoi panorami stupefacenti. Pensassero gli altri, a superar quelle e guadagnarsi questi.
Senza una così superba volontà, il genio di Wagner noi avrebbe dato all'arte quello che ha dato. Ii ritmo delle incudini, che sembra l'imagine musicale di questa volontà indomabile, molto narra, e molto insegna.