Carlo Maria Cella
IL SORRISO DI WAGNER
Venezia, novembre 1861. Cielo grigio e umore malinconico. «...Wesendonck, armato di uno smisurato binocolo, si teneva sempre pronto a visite artistiche; non riuscì tuttavia che una volta a trascinarmi con sé all'Accademia, che, nel mio precedente soggiorno veneziano, m'ero sempre limitato a guardare dall'esterno. Devo dire che, nonostante tutta la mia indifferenza, l'Assunzione della Vergine del Tiziano

mi diede un'emozione estetica di straordinaria elevatezza, cosicché dopo questa esperienza mi sentii improvvisamente rianimare in tutta la mia energia vitale. Decisi di comporre i Maestri Cantori». Wagner dice, e Cosima, l'amanuense «creativa» di Mein Leben, l'autobiografia ferma all'incontro con Luigi II di Baviera, annota per noi.
La mistica della «scintilla creativa» sembra la ricorrente eppur perdonabile debolezza di ogni autore che parla di sé: nella comprensibile preoccupazione di mettere in maschera la casualità, la sorpresa, il prestito altrui o la normale fatica del creare, vista spesso come una colpa. Quanto a Wagner, che trattava la parola con la confidenza di cui era capace con la musica, la prudenza nell'accostarsi alla sua aneddotica autografa scatta automatica. Eppure è forte, nel caso dei Maestri Cantori, la tentazione di allentare le maglie della cautela. Die Meistersinger von Nürnberg sono il sorriso di cui pochi pensavano e ancora penserebbero capace il musicista di Tannhäuser, di Lohengrin, di Tristano, dell'Anello del Nibelungo, di Parsifal. Sulla carta, i Meistersinger giocano a presentarsi al wagneriano imperfetto come un «episodio».
Ma l'unico, pianificato esercizio di ironia del musicista dell'avvenire, non deve far pensare al gesto isolato di un autore elettivamente tragico colto da raptus, oppure giunto al disincanto dell'ultimo capitolo, come Verdi con Falstaff.
Quanto più si guarda alle spalle e dentro questa colossale opera «di mezzo», che forse per il suo gigantesco sorriso il pubblico pone in cima alle sue preferenze, tanto più siamo costretti ad accorgerci che anch'essa non sfugge alla pianificazione planetaria di temi, simboli e mezzi narrativi. Anche più intimamente di altri titoli mitici, I Maestri Cantori rappresentano un sistema complesso di segnali e si stagliano come una stella nel sistema solare wagneriano, in relazione stretta con almeno due opere: con Tannhäuser, di cui dovevano essere il «doppio» leggero, e con Tristano e Isotta, nonostante o proprio per l'apparente vicinanza cronologica. Ma anche al progetto e alla composizione dell'Anello del Nibelungo i Meistersinger s'intrecciano, e la cosa non è senza conseguenze.
Che i Maestri Cantori siano una commedia non legittima nemmeno l'aspettativa che si tratti di un'opera semplice o comunque meno ricca di segni per la sensibilità e la riflessione contemporanea, che per l'indulgere al gioco e all'ironia (non alla parodia, Wagner vi lancerebbe un fulmine) risulti meno profonda e stimolante per le discussioni 'a latere'. Anzi, sotto l'aspetto delle valenze accessorie - Wagner il totale non chiede, pretende di dilagare nella vita - i Maestri Cantori sono l'opera forse più ideologicamente inquietante. Di sicuro la più sinistramente, o destramente, strumentalizzata.

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«Dopo aver pranzato ancora una volta al San Marco insieme alla mia vecchia conoscenza Tessarinn e ai Wesndonck, che avevo voluto riunire in quest'invito, e dopo aver rivisto Luigia, la mia ex governante nel Palazzo Giustiniani, ed essermi rallegrato della sua amicizia», leggiamo ancora in Mein Leben, «abbandonai improvvisamente Venezia, con grande stupore degli amici, dopo quattro giorni veramente assai malinconici, e feci un lungo, scialbo viaggio di ritorno a Vienna, seguendo la deviazione ferroviaria dell'itinerario per terraferma. Durante il viaggio ebbi la prima ispirazione musicale dei Maestri Cantori, del cui poema non avevo ancora in testa che il primissimo progetto; concepii subito con la massima precisione la parte principale dell'ouverture in do maggiore.» La scintilla veneziana e ferroviaria doveva restare per molto allo stadio di scintilla. La combustione fu lunga e fitta di spegnimenti. Per Wagner i tempi erano durissimi: se Parigi era stata un teatro delle sofferenze per il fiasco di Tannhäuser, Vienna stava diventando il non meno esasperante teatro delle attese per la messa in scena di Tristano e Isotta, che mille inciampi - malattie a ripetizione dei cantanti e difficoltà organizzative di ogni genere, non esclusa una congiura di palazzo, secondo Wagner -impedivano con frustrante puntualità di andare in scena. I problemi economici stavano per rotolare a valle con una valanga di 'pagherò'. L'opera più armonicamente e strumentalmente avanzata che non solo Wagner avesse fino ad allora scritto, l'opera dell'Eros assoluto, aspettava nell'anticamera delle pastoie burocratiche e dell'incomprensione. Il viaggio a Venezia, su misterioso invito di Otto e Mathilde Wesendonck, non aveva che calcato i toni del grigio: era stato convocato per prendere atto di una fine. A Venezia, più che una scintilla da estatica visione, Wagner aveva dovuto prendere una decisione per la cura dei suoi affetti malati, la salute della sua creatività e il riscatto delle sue finanze. Doveva scrivere un'opera nuova. Immediatamente. L'unica possibilità per tradurre in atto la decisione era sviluppare un progetto in embrione. La prima idea dei Maestri Cantori era infatti del 1845, materializzata per incanto ai bagni di Marienbad, tra le pieghe di Lohengrin.
«In seguito alla lettura di poche notizie nella Storia della letteratura tedesca di Gervinus», racconta Wagner in Mein Leben, «i Maestri Cantori di Norimberga, tra cui Hans Sachs,

avevano acquistato per me una evidenza di vita. Mi divertiva specialmente il marcatore, sia per il suo stesso nome, sia per la sua funzione nelle riunioni di canto dei maestri. Senza conoscere null'altro ancora su Sachs e i poeti suoi contemporanei, inventai, durante una passeggiata, una bizzarra scena in cui il calzolaio, picchiando col martello sulla forma, dava una lezione, nella sua qualità di poeta artigiano e popolare, al marcatore e lo costringeva a cantare per penitenza delle pedanti molestie da lui esercitate. Tutto ciò si sintetizzava davanti a me nel modo in cui i due rivali si segnalavano reciprocamente gli errori poetici; da una parte il marcatore additava la sua lavagna coi segni fatti col gesso, dall'altra Hans Sachs brandiva in aria un paio di stivali anch'essi costellati di segni. Attorno alla scena mi costruii rapidamente uno stretto e torto vicolo di Norimberga, con vicini, tafferuglio e rissa per strada, come finale di un second'atto, e improvvisamente tutta la commedia dei Maestri cantori mi stette davanti con estrema evidenza...»
Era l'anno di Tannhäuser, andato in scena a Dresda il 19 ottobre, e forse l'idea, pur momentanea e naturale, di trasferirsi dal mondo medioevale dei Minnesänger alla Norimberga dei Meistersinger, cioè al cuore geografico e simbolico del trapasso dal medioevo all'età borghese (Hans Mayer), suggerisce un piano storico poi scompaginato dagli eventi e dall'evoluzione del pensiero di Wagner. (Il ciclo, con il Ring, si sarebbe sviluppato sul piano più alto e universale del Mito). Sarebbe venuto Lohengrin - testo finito nel 1845, partitura completata fra il '46 e il '48, prima esecuzione a Weimar nel '50 - a chiudere una sorta di trilogia, comprendendo L'Olandese volante, in cui Wagner combinava in diverse proporzioni storia e leggenda, mostrando però subito ai contemporanei, suoi e nostri, la sua vocazione a chiamare il teatro fuori dal naturalismo e una concezione del palcoscenico come spazio del più rischioso immaginario.
Ma il finale di Lohengrin a sua volta apre a qualcos'altro: fa già intuire la strada verso l'assolutezza del Sogno, là dove sogno non significa nebulosa visione ma luogo in cui far coesistere realtà e immaginazione, passato e presente, storia e leggenda, retorica e dolore con freudiana libertà di accostamenti; in una smaterializzata compresenza di tutto, che fa l'attualità senza tempo del Gesamtkunstwerk wagneriano. In parallelo, la soluzione idealistica del poema sinfonico, con Berlioz e Liszt,

trovava una via concettuale e non formalistica per uscire dai dilemmi del dopo-Beethoven, dagli schemi della Sinfonia con le sue norme dialettiche e concluse, dalle angosce del dopo-Nona (di Beethoven), che in quegli anni Richard Wagner direttore non smetteva di eseguire nei concerti pubblici con cui tentava di far conoscere la musica già scritta di opere non ancora eseguite, e di far tacere i creditori.
Tristan und Isolde, scritta fra il 1854 e il 1857 a Zurigo, per lo più nell'asilo dorato di casa Wesendonck,

con davanti agli occhi e nel cuore la signora Mathilde, trentenne sposata con figli, musicata a Venezia e Vienna fra il settembre 1858 e il 16 luglio 1859, lancia la musica di Wagner in un'orbita così lontana dalla terra del teatro da sorprendere, in apparenza, l'autore stesso. «Ancor sempre persuasi che il Tristano avrebbe costituito un buon affare teatrale», racconta ancora Wagner, «gli editori Härtel stamparono diligentemente la partitura del second'atto, mentre io lavoravo al terzo. Un effetto straordinario, quasi allarmante, mi fece la correzione delle bozze, mentre ero in pieno travaglio per la composizione del terz'atto, così completamente estatico; perché fin dalla prima scena del second'atto mi resi finalmente conto, con la massima chiarezza, ché proprio in quest'opera, considerata, per uno strano errore di calcolo, facile da rappresentare, avevo riversato la musica più insolita e più ardita che mai avessi scritto. Mentre lavoravo alla grande scena di Tristano, ero spesso costretto a chiedermi, mio malgrado, se non fossi pazzo a voler consegnare una roba simile a un editore che la stampasse per i teatri.»
Anche qui occorre scrostare la verità sotto la patina della finzione letteraria, ma il velo è forse meno consistente che altrove. In accordo con le sue premesse maggiori - secondo cui la musica doveva seguire le idee drammaturgiche inventandosi passo passo gli strumenti necessari a realizzarle - non è troppo letterario pensare che Wagner si sia accorto di aver volato, musicalmente, armonicamente, in conseguenza del soggetto e delle parole del Tristano, dopo aver scritto l'opera almeno in parte. La spia di questa sorpresa è nello stesso passo di La mia vita: «...considerata, per uno strano errore di calcolo, facile da rappresentare ...».
Perché un errore di calcolo? Qual era l'idea originaria di Tristano? Il corredo di mistica e aneddotica wagneriana vuole sempre, per le grandi opere, grandi giustificazioni altrettanto «originarie». Che le opere di Wagner potessero nascere «piccole» e diventassero, anzi siano tutte inconfutabilmente diventate grandi strada facendo, specie in Germania, si è molto restii a prenderlo in considerazione.
E invece Tristan und Isolde fu proprio concepita come un'opera da finire in fretta, in un anno circa, e in modo tale da poter esser rappresentata anche nei teatri minori. Poi diventò l'esatto contrario e questo non toglie nulla all'impresa. Anche l'opera successiva, la cui stesura si sovrappone ossessivamente ai tentativi di mettere in scena Tristano, fu un «errore di calcolo».
Quando nel 1861 riprende in mano, dopo sedici anni, il primo «scenario» dei Maestri Cantori, Wagner ha in mente di scrivere - e questa volta giura di riuscirci - un'opera «pratica», senza primi tenori e nessun grande soprano tragico, in cui qualunque buon basso o baritono avrebbe potuto cantare la parte di Hans Sachs, e che qualunque teatro avrebbe potuto mettere in scena. Un'opera, insomma, che entrasse finalmente in repertorio. (E in tale prospettiva, una commedia.) Per Tristano era stato programmato un anno di lavoro; ne richiese il doppio. E per sei anni, dopo, fu un calvario farlo rappresentare. Die Meistersinger von Nürnberg dovevano essere composti in un anno, e ne richiesero sei. Ma ebbero miglior fortuna, perché vennero eseguiti solo un anno dopo essere stati finiti, il 21 giugno 1868, al teatro di corte di Monaco, davanti al re Luigi di Baviera, caduto dal cielo a togliere dalle angustie terrene il dio Wagner.

C'è chi usa anche i Maestri Cantori per sostenere che il metodo di lavoro di Wagner procede da una cellula germinale, che è sempre nella musica, per poi costruire con quella e su quella tutto l'edificio di un'opera. A questo scopo dà credito completo alla solita scintilla creativa del 1861, in cui Wagner avrebbe concepito la parte principale dell'ouverture in do maggiore «prima di aver scritto un sol verso poetico» (Curt von Westernhagen). Peccato che poche pagine più avanti, dopo aver parlato della stesura del testo sulla scorta del materiale storico in parte procuratogli dall'amico Cornelius - Von der Meistersinger holdseligen Kunst di Wagenseil, Mastro Martino il bottaio di E.T.A. Hoffmann, gli Hans Sachs di Deinhardstein e Lortzing - dopo aver accennato allo strano effetto che gli faceva scrivere dell'antica Norimberga e dei suoi artigiani poeti avendo davanti le Tuileries, il Louvre e i ponti sulla Senna della bella e odiata Parigi, Wagner si contraddica. «Durante un magnifico tramonto», scrive nell'autobiografia, «contemplando dal mio balcone la splendida vista della città d'oro di Magonza, col Reno che le scorreva davanti maestoso in un fiammeggiare di luci, sentii formarsi improvvisamente nell'anima, nitido e preciso, il preludio dei Maestri Cantori, che una volta m'era apparso con oscuri contorni a guisa d'un lontano miraggio. Lo notai tale e quale come ora sta nella partitura, racchiudente in sé, con la massima precisione, i motivi principali dell'intero dramma.»
Ma su quel treno per Vienna non era stato concepito «con la massima precisione»? Il secondo e più probabile momento germinale del nucleo tematico dei Meistersinger risale alla primavera del 1862, diversi mesi dopo che, nell'albergo sul Quai Voltaire, Wagner dichiara finito il poema dell'opera. In marzo ne dà la prima lettura pubblica a Karlsruhe, davanti ai granduchi di Baden.
I Maestri Cantori nascono prima come opera letteraria, e lunga è la loro tournée nei salotti e nelle corti, letti all'editore Schott, in casa di Minna, al tè della granduchessa Elena a Pietroburgo. (Wagner ammetteva di avere come cantante una voce «incolta», tale da far scappare tutti i maestri cantori, ma Cosima testimonia che fosse lettore toccante, quando ricorda quasi in lacrime gli ospiti a una serata veneziana con Romeo e Giulietta di Shakespeare.)
Anche I Maestri Cantori ci appaiono come un work-in-progress che, sotto la spinta della musica, trasfigurano l'idea originale. Il che corrisponde molto più concretamente ai principi di colui che nel saggio sull'Applicazione della musica al dramma scriveva: «A chi finora si è formato sulla nostra più recente musica strumentale classico romantica vorrei soprattutto consigliare, nel caso voglia fare dei tentativi nel campo della musica drammatica, di non mirare agli effetti armonici e strumentali, bensì di pazientare finché ognuno ditali effetti abbia una sua causa sufficiente, altrimenti essi non hanno alcuna efficacia». E la causa sufficiente d'una modulazione o di un effetto strumentale, per Wagner era sempre nella parola, nella situazione psicologica, nel momento narrativo, nella poesia.
Dopo l'opera in cui aveva riversato la musica più insolita e ardita, comporre per i Meistersinger una partitura che si apre e si chiude in do maggiore non ha alcun significato «correttivo» né di pentimento, come suggeriscono alcuni (Gutman). Certo, il preludio è quanto di più affermativo Wagner abbia mai scritto, e il coro finale del Popolo («Ehrt eure deutschen Meister»), su un ancor più trionfante do maggiore, sigilla con l'inno all'arte germanica un'opera in cui Wagner si proclama, insieme a Omero, Dante, Shakespeare e Goethe, un «profeta» del suo gruppo etnico. Racchiudere un'opera fra parentesi poggiate sulla più positiva delle tonalità, ha un valore programmatico. E ancora si affaccia il rischio di concepire Die Meistersinger von Nürnberg come un episodio «neoclassico» inserito in un momento di grandi effrazioni alle regole della musica consegnata dalla tradizione. Ma la prima ragione per una scrittura più rispettosa delle consonanze, in cui la melodia si presenta più limpida, in cui la tecnica del Leitmotiv è usata con più chiarezza a identificare personaggi e situazioni, sta nella coerenza del drammaturgo. In una giocosa commedia in cui ritorna alla luce un'antica Germania di cui Wagner riscopre e onora il popolo poeta, indulgere alla modulazione e al cromatismo sarebbe stato fuori luogo. Non c'era ragione drammaturgica ancor prima che stilistica; non gli appigli psicologici e «d'inquadratura».
Nello stesso saggetto Sull'applicazione della musica al dramma, identificandosi con il moderato Hans Sachs, Wagner ha parole di rifiuto verso i suoi acritici seguaci, più realisti del re, e d'ironia per i suoi critici sistematici. I primi li chiama «pasticcioni che modulano in modo brusco e strano senza che ve ne sia la necessità», gli altri li dice «senatori, che invece non si accorgono del bisogno di prendersi delle apparenti licenze in quel campo». E questo è esattamente il tema interno dell'opera, il più attuale.
Quando Wagner lavora all'idea dei Maestri Cantori, ha già scritto Rienzi, Tannhäuser, Lohengrin, Tristano e Isotta e quasi due terzi dell'Anello del Nibelungo (L'oro del Reno, Valchiria e due atti di Sigfrido). A se stesso non deve dimostrare nulla, ma agli altri ha qualcosa da dire.
I Maestri Cantori sono anche la sua personale vendetta contro gli avversari di retroguardia; bersaglio principale è il critico Eduard Hanslick,

l'autore del Bello musicale, il sostenitore di Brahms (una cui composizione di circostanza, Wagner avrebbe definito «Händel, Mendelssohn e Schumann rilegati in pelle»).
Hanslick, che anche nella recensione dei Maestri Cantori non tratterrà le parole, capitò anche, Wagner dice per caso, a una delle tante letture poetiche del testo, in casa Sandhartner. E anche qui la versione autografa è quanto mai elusiva e maliziosa: Wagner dice solo che Hanslick stette ad ascoltare immobile, divenne di tutti i colori e se ne andò senza dire una parola. Richard omette che l'odioso Beckmesser, il pedante marcatore di errori, nella prima stesura del testo si chiamava Hans Lick.
Ma, appunto, I Maestri Cantori diventarono dal 1861 al 1867 qualcosa di molto diverso da un libello satirico. Nella gara di composizione poetico-musicale davanti alle autorità corporative dell'antica Norimberga, si celebra in metafora il contrasto fra Tradizione ossificata e nuove istanze dell'arte. Dal flebile spunto autobiografico, Wagner trova modo di coinvolgere un problema della nuova musica in ogni tempo. E si produce in una sorta di trasposizione teatrale e musicale insieme. Per rendere conto allo spettatore di quanto siano condannate dalla storia le resistenze dei conservatori verso le sue «disarticolazioni» armoniche, Wagner trasferisce in uno scenario passato alcuni esempi di innocenti, e per l'orecchio dei suoi contemporanei ben assimilate, effrazioni alle regole.
L'esempio cardine è la «lezione» di canto fra Walther von Stolzing, il giovane emergente, creativo e impulsivo, in cui amava riconoscersi Luigi di Baviera, e Hans Sachs, il calzolaio assennato che funge da aperto mediatore fra tradizione e novità. Sachs mette al corrente Walther delle regole dei Meistersinger, le presenta nella giusta veste di «garanti» contro ogni licenza, e poi segue il giovane mentre questi improvvisa sul suo sogno la canzone da presentare alla gara. Deryck Cooke analizza perfettamente la scena: Walther canta una prima strofa di undici battute, interamente centrate sulla tonalità di do maggiore. Sachs gli dice che dovrà aggiungerne un'altra identica, secondo le regole canoniche. Walther canta una seconda strofa di undici battute, con la stessa melodia, ma conclude alla dominante (sol maggiore). A Sachs piace l'idea di modulare (un artificio wagneriano e moderno, dal momento che il vero canto dei Meistersinger era monodico, senza accompagnamento che coinvolgesse processi armonici), ma avverte il giovane che la cosa irriterebbe i Meistersinger. A questo punto le regole chiedono una terza strofa simile alle prime due, ma con rime e melodia diverse. Walther canta la «coda» della canzone rispettando queste regole e rimanendo nella tonalità di do maggiore, ma in ventitré battute; più della prima e della seconda strofa insieme. Le auree simmetrie sono infrante.
Wagner, che non aveva ovviamente né coscienza né intenzioni «filologiche» tardomedievali, focalizza in un gesto alcuni caposaldi della sua «rivoluzione»: la libertà «pensata» della modulazione e la dilatazione orizzontale della melodia e del tempo. La formula è quella della parabola, comprensibile a tutti dopo Beethoven, che a chi gli domandava perché non avesse scritto un terzo tempo alla Sonata op. 111, rispondeva tra l'irritazione e il compatimento, «perché non avevo tempo»; e a chi gli chiedeva un piccolo pezzo di circostanza su un tema dato, consegnava tra le mani le Variazioni Diabelli.
Nell'un caso per apparente sottrazione, nell'altro per smodato accrescimento, la Forma stava già per rimanere a terra con il ventre aperto, molle e ingranaggi all'aria. Ma più avanti, con la versione definitiva della canzone di Walther, sottoposta a ulteriori e ancor più wagneriani rimaneggiamenti (nuova modulazione a si maggiore nella seconda strofa, raddoppio di lunghezza delle prime due; aumento di metà dell'ultima), Wagner, come dice Cooke, si rivolge direttamente ai suoi detrattori con l'aria di dire: così non è anche meglio?
Dopo l'era tristanica delle grandi scoperte sonore, entrati in quella più affascinata dagli esercizi di stile, forse sono proprio i Maestri Cantori, nel gran teatro di Wagner, l'opera che un compositore dei nostri anni Novanta vorrebbe aver scritto o riscrivere oggi.