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MAX BROD

LA MORTE È UNO STATO
DI DEBOLEZZA PASSEGGERO


La gita didattica degli studenti danesi fece il suo ingresso nella clinica psichiatrica.
L'ispettore Rottky dette loro il benvenuto. Li condusse per stretti corridoi. Alcuni dei ricoverati passavano loro accanto con secchi e scope, in camici blu scuro che arrivavano sino ai malleoli. L'ispettore condusse gli studenti nella stanza da ricevimento del docente Höberlein. Là dovettero aspettare un po' mentre lui andava a cercare di persona il docente.
Era una stanza grande, elegante, con poltrone di pelle, pareti rivestite di legno, librerie. Dalla finestra aperta vista sul verde rigoglioso giardino del manicomio. Gli studenti stranieri, sei per l'esattezza, avevano fatto giusto in tempo a guardarsi intorno e a mettersi comodamente seduti, quando entrò un uomo magro, con una fronte sorprendentemente alta e ben tornita, che si lisciava nervosamente il pizzetto grigio. «Professor Jastrau», disse sulla porta e accennò un leggero inchino. Al suono del nome illustre, gli studenti danesi balzarono in piedi rispettosi dalle profonde poltrone imbottite.
«Prego, state pure seduti», disse il professor Jastrau con una cortesia indolente e un po' incurante. Si guardò intorno. «Il collega Höberlein si fa attendere». Il suo sguardo era non privo di severità, tuttavia ora neanche privo dell'affascinante indifferenza o piuttosto della distrazione che c'era in ognuno dei suoi gesti misurati e nella voce sommessa sino ad essere fioca. «Inizieremo il giro solo quando sarà arrivato il collega». Quindi offrì delle sigarette da un astuccio che era sulla scrivania.
«Dove siete stati finora, signori? Che cosa avete visto?» disse il professore.
Il portavoce della gita didattica, che si era appena seduto, si rialzò. «A Berlino, a Breslavia...».
«Ma prego, prego...», il professor Jastrau sorrise e risospinse, per così dire da lontano, sollevando sullo scuro ripiano della scrivania la mano bianca e affusolata con la sigaretta, risospinse con grazia di suggestiva efficacia l'ospite nella sua poltrona. Un uomo di mondo. L'amabile spigliatezza del professore, d'altra parte, risaltava visibilmente in mezzo al rigido e goffo formalismo dei suoi ospiti. «Orbene, e le vostre esperienze successive?» «Poi abbiamo visitato la quanto mai eminente università di Göttingen. Ed ora qui studiamo le esemplari istituzioni».
«Macché... è dappertutto lo stesso».
Lo studente di Copenhagen Axel Mundt arrossì, si spaventò. «Se il signor professore permette, s'impara sempre qualcosa di nuovo e d'interessante. Qui, ad esempio, ... ci ha subito colpito», si voltò verso i suoi accompagnatori come per assicurarsi la loro approvazione. «Lei, signor professore, indossa lo stesso abito dei malati di mente. Un'idea straordinariamente geniale. La gente non deve essere intimorita, i confini tra medico e paziente non devono essere inutilmente sottolineati».
Di sfuggita, solo per una frazione di secondo e molto distrattamente, il professore gettò uno sguardo sul suo camice blu, poi, con un sorriso di superiorità, volse nuovamente la propria attenzione all'uditorio. «Se questo voi lo chiamate "imparare qualche cosa in più" ...una stupidaggine del genere! No, no, signori miei, se davvero volete vedere e imparare qualcosa di nuovo, allora dovete andare un po' più lontano... Nel sud della Francia, ad esempio. Ad Arles, in Provenza. In realtà non ho mai saputo che ad Arles ci fosse una vecchia università. Né della sua attività si è mai sentito dire niente di particolare. Nemmeno voi, signori, non è vero? E proprio il caso di dire che là c'è solo un piccolo istituto di ricerca annesso al vecchio museo provinciale. O meglio, un unico docente ... Sì, uno solo, ma uno studioso davvero unico nel suo genere, il professor Debaudy. Sconosciuto? Bene, potrei giusto raccontarvi di lui. Il collega Höberlein oggi non sembra particolarmente puntuale...».
Il professore si accese un'altra sigaretta, fumava a rapide boccate, come intenzionalmente aveva distolto la testa dalla porta d'ingresso, per quanto così desse le spalle anche ad alcuni studenti. Sul suo volto c'era il riflesso verde del giardino. «Come ho già detto, di questa università prima non avevo mai sentito dire niente. Così fui tanto più stupefatto di trovare proprio accanto alle sale delle collezioni di antichità di questo museo (che a proposito è più trascurato di quanto possa figurarsi la più ardita fantasia) un luogo dove si lavorava. Sì, il professor Debaudy era seduto là, nella semioscurità di una sporca stanza d'angolo piena di polvere, accanto ad una mummia egiziana sbendata, e leggeva ad alta voce degli esercizi articolatori. Frasi con A sonore, poi frasi dove predominavano altre vocali, frasi simili alle formule con cui gli attori affinano la loro dizione. Non volevo disturbare l'illustre psichiatra di cui avevo studiato con profitto gli scritti, ma i miei stivali ormai avevano già scricchiolato, si accorse di me e ci scambiammo il saluto; tutti e due ci eravamo riconosciuti grazie alle foto comparse in una qualche rivista specializzata. Dopo le prime frasi subentrò un certo imbarazzo; o meglio, mi accorsi che Debaudy si stava irritando e avrebbe preferito spingermi fuori dalla stanza. Preso da una singolare penosa curiosità mi avvicinai sebbene egli, con gesti confusi, lo volesse impedire e volesse per così dire scacciarmi. "Cosa sta facendo di bello, caro collega?" dissi senza mezzi termini, come se fosse questo il mio proposito. Guardammo tutti e due nella cassa aperta della mummia. Il morto era là, disteso, quasi essiccato, tanto che quel corpo terreo sembrava essere quello di un fanciullo, benché, probabilmente, appartenesse ad un uomo maturo. La pelle era simile alla pergamena, tesa sulle ossa sporgenti come se stesse per lacerarsi. Debaudy alzò con ostilità i suoi occhi verdi: "Mi dedico all'igiene dei morti". Volete sentire anche il resto, signori?»
Gli studenti danesi non risposero, non osarono nemmeno schiarirsi la voce, attenti com'erano ad ascoltare; il professor Jastrau sorrise loro un po', rallegrandosi bonariamente per l'effetto della sua autorità. Ma poi volse di nuovo il volto intensamente concentrato e rugoso verso la luce del giardino, e questo verde intenso che gli sbiancava le guance e per così dire gli scavava le orbite, si adattava in modo stranamente spettrale e languido a ciò che doveva riferire.
«"Igiene dei morti", disse dunque Debaudy poi proseguì: "Gli Egizi ne hanno capito l'arte. Ma anche altri popoli, i Maori, i Birmani, gli abitanti delle Marchesi. Solo da noi è andata perduta l'antica scienza secondo cui i morti... non sono affatto morti. Secondo cui si deve solo aver cura e occuparsi di loro. Ed essi poi, con un trattamento adeguato ma anche molto difficoltoso, giungono ad uno stato che non può certo essere definito vita, non ancora, almeno non secondo i nostri odierni concetti, ma che pure non è morte. Ciò che noi definiamo con inesattezza morte, infatti, è dimostrato dalle mie ricerche non essere niente di più che un semplice stato di debolezza passeggero. Certo, una lesione profondamente grave dell'organismo. Ma niente d'incurabile, come noi, nella nostra impazienza, crediamo quando impacchettiamo e sotterriamo semplicemente il defunto come se fosse un animale. Credo che anche in noi qualcosa opponga resistenza a questo brutale seppellimento. Quando muore una persona cara non ha forse notato che poi si avverte una protesta, che ogni zolla, ogni pietra che cade nella fossa fa l'effetto di una grande ingiustizia con cui si maltratta il cosiddetto morto? Ora, questi sono senz'altro sentimenti soggettivi che non hanno niente a che fare con la scienza. Anche i sogni che vanno in questa direzione della morte non definitiva, naturalmente, non contano niente. Ma gli esperimenti, caro signore. La morte è curabile, le dico. Io curo la morte. In modo certo... cum grano salis, beninteso. Una cosa per me è inconfutabile: il corpo del morto può riprendersi nuovamente. Ho condotto postumamente a guarigione persino ferite, focolai bacillari, cancro. Basta solo non cessare le cure quando la persona muore. E una cosa, naturalmente, non ci si può aspettare: che cioè, dopo, anche col trattamento più specialistico, la persona possa ancora comunicare con noi nella maniera consueta. Voi gettate il morto in un buco, tanti e tanti metri sottoterra, detriti tra i denti, che schifo. Poi quando si risveglierà, dovrebbe capire ciò che gli si dice, infine persino parlare. Troppo chiedere. Certo, gli Egizi, che componevano i loro cadaveri imbalsamati, purificati da tutte le sostanze decomponibili in ventilate cavità nella roccia, con aria asciutta e salubre..."».
Il professor Jastrau, visibilmente eccitato dal racconto, era in piedi vicino alla finestra sul giardino, respirava profondamente il vento che muoveva le verdi chiome degli alberi. Ed anche i suoi ascoltatori, totalmente in suo potere, facevano profondi respiri come se, oppressi, dovessero pompare fuori dai polmoni una tetra atmosfera sepolcrale e cadaverica.
«Sì, e per finire», Jastrau si rivolse di nuovo agli studenti con un tono vistosamente secco e cattedratico, «il professor Debaudy mi mostrò un'altra mummia, essa si trovava dietro una tenda, in una grande teca di vetro, in posizione seduta. "Questo è uno scolaro migliore", la presentò e fece con la mano un gesto sprezzante all'indirizzo della mummia distesa. Poi s'infilò egli stesso nella teca di vetro, si accomodò su un'altra sedia che era li pronta e cominciò a parlottare all'orecchio dell'assiso. "Adesso ascolti, risponde". Io però non sentii assolutamente niente o solo poco. Un lieve fruscio fu tutto. In ogni modo nessun suono intellegibile. E il fruscio era forse anche solo dovuto al fatto che Debaudy sfiorava con la mano la mummia seduta come per accarezzarla e per usarle rispetto, temendo che essa potesse frantumarsi in mille pezzi. "Pubblicherà presto i suoi lavori?" lo interruppi. "Non ho letto niente a proposito di questi studi, eppure lei se ne occupa già da...". "Trentacinque anni", proseguì lui. "E non una sola parola pubblicata?" "Io non sono uno di quelli che mirano innanzitempo alla pubblicità con scoperte sensazionali. Io disprezzo i professori che vendono fumo coi loro metodi di ringiovanimento, con le loro teorie sugli ormoni e così via. Per me ciò che conta non è tanto fama e denaro, ma la fondamentale scoperta delle complicate relazioni biologiche; di trovare la formula divulgativa, lo slogan per il mio lavoro, di questo si occuperà dopo un altro. Non è più affar mio". Ero irritato e allora capii per la prima volta ciò che intende un poeta, credo Rimbaud, quando definisce la scienza "troppo lenta". Mi scagliai contro il velenoso sguardo verderame del professore. "Ma non capisce che qui non si tratta di lei e della sua personale onestà. Lei potrà forse aspettare, ma l'umanità no. Proprio ora, dopo la guerra, con i suoi molti milioni di cadaveri! Sì, forse non le è chiaro - nel caso che le sue ricerche siano seriamente sulla traccia di una verità che con ciò cambierebbe l'intera immagine del mondo, l'intera politica. Che i morti, come diceva lei, avrebbero solo bisogno di un trattamento specialistico". Lo sguardo di Debaudy si chiuse come dietro un coperchio: "Al contrario. La guerra dopo i risultati delle mie ricerche appare ancor più terribile di quanto non sia comunemente considerata. Il mio metodo, infatti, riguarda solo i cadaveri ben conservati. Le nostre mine, le nostre granate però... i corpi sono stati dilaniati in mille pezzi. Allora naturalmente non c'è più alcuna resurrezione. Allo stesso modo la resurrezione è impotente contro la cremazione, con chi è bruciato non funziona. Allora non c'è medico, non c'è Dio che serva. Ed io dovrei davvero dare all'umanità la consapevolezza di aver rubato ai caduti, ai muti 'ignoti' come a quelli noti, non solo alcuni anni, ma addirittura la vita eterna?" "Certo, lei deve fare più in fretta possibile per impedire altri crimini di questo tipo". Signori miei!» Jastrau balzò inaspettatamente fuori dal suo racconto come da un nascondiglio, «non mi è mai giunta più terribilmente a consapevolezza questa responsabilità che grava su noi scienziati. Lavoro in filigrana preciso sino alla fine oppure geniale intuizione con indovinata anticipazione della forse non ancora sufficientemente fondata applicazione pratica? Chi poteva decidere? E mi capirete, signori», Jastrau tremava, «se vi confesso che il diverbio che stava ora scoppiando tra me e Debaudy ... no, dovete credermi. Lo pregai, lo scongiurai di pubblicare subito i suoi risultati, di non ritardare di nemmeno un istante la loro utilizzazione pratica. Nella sua fredda risposta non c'era semplicemente la presunzione del dotto, no, molto peggio: disprezzo per gli uomini, sì, odio degli uomini. Tuttavia non mi sarei fatto trascinare a questa terribile azione. Ma nel preciso istante in cui ero in ginocchio davanti a lui, - sì, a tanto mi ero abbassato, in ginocchio davanti a lui - entrò qualcuno. Il suo assistente. E gli disse qualcosa. Il professore andò in una stanza attigua completamente buia. Lo seguii, non vedevo ancora niente. Ma il messaggero annunciò che aveva appena aperto una tomba, che aveva disotterrato la bara della tal persona - nome oscuro - inumata ieri. Adesso vedevo. La bara era là, nella stanza, aperta. Una ragazza, pallida come la cera, con scintillanti capelli biondo rossicci. Le labbra serrate e negli occhi spalancati una sorta di rimprovero, un rimprovero per ciò che le stavano facendo, il rimprovero dell'angusta tomba tenebrosa nei suoi occhi che stavano or ora risvegliandosi, che cominciavano appena appena a capire. Il fatto che sarebbe successo sempre e poi sempre così, che l'uomo che era in grado di evitare ciò tacesse, tutto questo mi mandò in collera. E allora colpii Debaudy. Consolatevi signori!» gridava ora ad alta voce Jastrau agli studenti i quali, terrorizzati dal resoconto che diventava sempre più confuso e forse già insospettiti, si avvicinavano sempre più alla scrivania. «Consolatevi, ho ricevuto la mia punizione. Sul testamento di Debaudy c'era scritto: cremazione. Non potei impedire l'esecuzione della clausola. È divenuto cenere. E così non c'è alcun modo di riportarlo in vita e con lui sono scomparse per sempre le sue tecniche. I suoi scritti, chi potrebbe decifrarli... ». Jastrau tirò fuori dalla manica del suo camice blu pezzetti di carta, vecchi giornali, resti di sacchetti che distese sul piano della scrivania.
Con le sue gote rosse, grosso, il docente Höberlein entrò nella stanza. «Lor signori scusino... Ma Klas, si è infilato dentro un'altra volta? Che cosa le è saltato in mente?» Inveiva contro il presunto professor Jastrau che nel frattempo non indietreggiava dalla scrivania. «Signori, vi ha detto molte cose sconclusionate. Dov'è l'ispettore Rottky?» Suonò il campanello. «Il paziente spesso si spaccia per il professor Jastrau, il nostro ordinario, oppure per il professor Debaudy. Eppure non è mai stato in Francia. Impiegato in una legazione di questa città. Non avete mai sentito parlare del suicidio della stupenda ballerina dai capelli rossi Diana Hyams? Era la sua amante. Da allora queste macabre fantasie... Orsù, Rottky, siete qui finalmente. Come permettete che Klas scorrazzi per i corridoi e importuni i visitatori! ...Signori, iniziamo il giro. Uno dei casi più interessanti lo avete appena visto».
Mentre gli ospiti si accingevano ad uscire, l'ispettore Rottky si avvicinò a Klas. «Le mie sigarette!» gridò ad un tratto il docente Höberlein. Con un gesto violento l'ispettore strappò il pacchetto di mano al paziente. Jastrau-Klas aveva sempre mantenuto un certo contegno, ora però questo movimento lo faceva finire per essere un povero diavolo. Di colpo era diventato piccolo e insignificante. Lo studente di Copenhagen Axel Mundt, un buon ragazzo, che, ancora sulla porta, lo vedeva, aveva le lacrime agli occhi.