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FRANZ WERFEL

L'IMPERO AUSTRIACO




I.

 

Questo libro comprende alcune novelle più o meno ampie, o brevi romanzi, che, in senso profondo, costituiscono un'unità. Non certo l'unità di una modesta Comédie humaine, che nel corso delle sue storie presenta figure cicliche e vicende incatenate; e neppure l'unità della coscienza postuma, che strappa dal passato gli avanzi della vita sconnessa e li collega nuovamente. L'unità di questo libro è il mondo, non tanto di cui tratta, quanto in cui si svolge. Un mondo singolare e memorabile, il nome del quale corse sulla bocca di tutti e che pure solo pochissimi conobbero, forse soltanto quelli che ne sperimentarono su se stessi il bene e il male, i suoi figli consapevoli dunque.
Questo mondo è scomparso per sempre. La sua morte, dopo il lungo crepuscolo della vecchiaia, non fu lieve, ma travagliata da una dolorosa agonia. Moltissimi dei suoi figli però vivono ancora e parecchi di loro sono figli consapevoli. Essi appartengono a due mondi, a quello morto, non ancora estinto in loro, e al mondo nuovo degli eredi, che li ha rilevati come si rileva la merce di una liquidazione. Appartenere a due mondi, abbracciare con un'anima sola due età, è una condizione veramente paradossale, che si ripete di rado nella storia, ed è imposta solo a poche generazioni umane. Quando Roma decadde e nuovi stati germogliarono sul suolo d'Italia, forse allora vissero generazioni a cui toccò un simile destino.
Tutti i presenti mortali, nati nel secolo scorso, appartengono a due età, di qualunque paese siano. Essi debbono tendere violentemente le loro forze, per dominare questa difficile condizione. Chissà se tante miserie interiori dell'epoca non siano da attribuirsi a questa duplice esistenza segreta! Ma a due mondi appartengono forse soltanto i figli di quel mondo estinto, di cui fra poco riveleremo il nome.

 



 

L'autore delle storie di questo libro è uno di loro. Egli le scrisse senz'alcuna intenzione storica. Non si propose di catturare entro le fitte reti del linguaggio le ombre del mondo perduto per sempre. Non volle altro che narrare di persone e di cose della sua propria giovinezza. Queste novelle sono nate nel corso di parecchi anni. Alcune derivano proprio ancora dal «crepuscolo» di quel mondo. Sono frutto di quell'agonia. Può far meraviglia che sogno e morte ne siano il suggello?

 

II.

 

 

Quale mondo? Aveva un grande nome. Ma esso era ancora più grande del suo nome, che sonava così: «Impero austriaco», ovvero «Monarchia austro-ungarica»: quest'ultima designazione non è priva di un certo artificio e presagisce già, per gli orecchi più finì, la caduta del superbo Impero. Impero superbo davvero, non solo per la sua massa, ma più ancora per l'indescrivibile varietà dei suoi paesi e delle sue stirpi. Qui gli spiriti scettici domanderanno forse, stupiti: Come? Codesti variopinti paesi sono stati per caso distrutti dal terremoto, codeste molteplici stirpi sono scomparse dalle loro dimore? O non piuttosto montagne, valli e pianure sono sempre le stesse da secoli, e così pure le loro popolazioni? È possibile che ciò che avete chiamato un mondo s'increpuscoli e muoia? Queste affermazioni non celano forse l'esagerazione e l'irrealità della metafora? Muoiono i sistemi politici, le forme di governo, i regimi amministrativi, cioè anch'essi non muoiono propriamente, ma si trasformano in altri sistemi, in altre forme di governo, in altri regimi amministrativi. Gli ordinamenti politici del mondo si danno il cambio. Ma ciò che è ordinato, governato, amministrato, sia paese, sia popolo, sia individuo, sopravvive, con la sua natura congenita, a tutti questi svolgimenti.
Comunque sia la verità, ogni vecchio Austriaco replicherà a queste obiezioni:
«Può darsi che abbiate ragione, non so. Io ad ogni modo provo un'impressione molto strana, quando rivedo i paesi e le città, che una volta appartennero al mio vecchio mondo. Certo le Alpi del Tirolo, i laghi del Salzkammergut, i dolci orizzonti della Boemia, gli altipiani selvaggi del Carso, le rigogliose contrade dell'Adriatico, i palazzi di Vienna, le chiese di Salisburgo, le torri di Praga,

 


 

tutto questo è rimasto lo stesso, almeno nel suo aspetto esteriore. Eppure no, anche l'aspetto esteriore io stento molto a riconoscerlo immutato. Forse che non fa parte di esso lo spazio nel quale si sviluppa, l'aria che lo penetra, la luce che lo anima, e, più di tutto il resto, l'occhio che lo abbraccia? Ciò che si è mutato, che si è mutato anche al di fuori dell'elemento umano, è ben difficile da esprimere. Non voglio dire che tutte queste regioni e città abbiano perduto un determinato splendore. Forse è piuttosto un velo che hanno perduto, un velo benefico, un velo di Maia, che celava molte cose. Questo però io so con certezza: una volta, lì stava il mio mondo, col quale ero particolarmente legato. Col più lontano villaggio di pastori nei Carpazi io sentivo ancora una certa parentela, non so perché. Ora anche il luogo più vicino mi è estraneo, la mia propria città, la mia propria strada, la mia propria casa; non so perché. In un senso molto complicato sono diventato senza patria.»
Con queste parole il vecchio Austriaco descrive una realtà, se pur misteriosa. Solo le fallaci dottrine moderne, economiche e biologiche, sono tanto superficiali da misconoscere questa realtà. Esse pongono la spiegazione di tutta quanta la storia dell'umanità nel fatale incontro delle razze con determinati luoghi della terra, nella simbiosi del sangue e del suolo, nelle condizioni di nutrimento dei singoli terreni e nella necessità bellicosa di migliorarli e di estenderli. Secondo queste concezioni la storia di un popolo forma dal sorgere al tramontare di esso un'unica linea primitiva, determinata solo dalle forze materiali, terra, specie e bisogno. Per lo spirito non c'è posto, o meglio (anzi peggio) esso viene definito, con un timido strizzar d'occhi, come il frutto di quelle forze materiali. È necessario polemizzare sul serio con queste folli concezioni nazionalistiche, quando basta una domanda ad annientarle: sono stati il sangue e il suolo - che non vogliamo affatto negare come presupposto della vita - - a dar forma alla terra, a creare o distruggere i regni, a fondare o terminare le epoche? Non fu piuttosto il Cristianesimo, dunque una pura idea indipendente, a trasformare la faccia del mondo, fin nelle linee e negli aspetti del paesaggio? Oppure, per citare un altro esempio: l'Islamismo. Gli abitanti dell'antica Babilonia e dell'odierna Bagdad non sono rimasti, quanto a razza, press'a poco gli stessi, il sangue e il suolo non sono sempre quelli? E tuttavia gli antichi Babilonesi e i moderni Arabi non si riconoscerebbero fra di loro, da quando l'istituzione mondiale di Maometto si è inserita fra gli uni e gli altri.
Non vogliamo enunciare qui una teoria, ma esprimere un dato di esperienza. Solo nel segno di un'idea superiore si fondarono e si fondano i regni. Le nazioni possono costituire soltanto degli Stati. Gli Stati nazionali sono nella loro intima essenza unità demoniache; come tutto ciò che è demoniaco e idolatrico, sono suscettibilmente «dinamici», minacciosi e minacciati. I veri regni invece nascono quando alle unità demoniache naturali è aggiunto un elemento soprannaturale divino, che le trascina in alto al di sopra di se stesse: una rivelazione o un'idea superiore. Ogni vero regno è un tentativo, che fallisce, di fondare sulla terra il regno di Dio. Tale è almeno nell'ora della sua nascita.
Il vecchio Austriaco che parlava poc'anzi giudica che il suo mondo estinto, l'Impero d'Austria, fu precisamente uno di questi veri regni. Le città e le regioni si sono trasformate ai suoi occhi, egli è diventato, in un senso complicato, senza patria (quantunque possegga un passaporto in piena regola), perché il regno si è dissolto nelle sue unità demoniache, negli Stati nazionali. Quel vecchio Austriaco è ben lungi dall'idolatrare l'antico regno, dall'attribuirgli le virtù e le prerogative del Paradiso perduto: egli visse infatti soltanto nell'ultimissimo crepuscolo di un mondo, il cui vespro durò più di un secolo. Tuttavia egli soffre. Soffre, perché un ordine superiore è decaduto a un ordine inferiore. Soffre della perdita di una fine dignità personale, che, nonostante ogni comunanza nazionale, era scesa anche su di lui, minimo frammento, dall'idea sopraordinata di quel regno.

 

III.

 

Il regno è la sua idea! Come chiarire il significato di questa idea a un lettore lontano? Innanzi tutto: l'Impero d'Austria fu un grandissimo regno, il secondo in grandezza fra le grandi potenze d'Europa, se si misura dalla superficie del terreno, di antichissima civiltà. Chi ha avuto in mano una volta la carta geografica dell'Europa, come si presentava prima della guerra, non avrà certo dimenticato quell'immensa forma di animale col capo minacciosamente alzato, che, superba del suo possesso, troneggiava nel centro del continente. Quel regno abbracciava, all'ingrosso, ventiquattro paesi, o Länder, ancora ai giorni della sua caduta, e, quando era all'apogeo della sua potenza, comprendeva oltre a questi metà dell'Italia. Ventiquattro paesi, notate bene, non province, non dipartimenti governativi e amministrativi, tracciati con la riga, ma formazioni organiche originarie, la cui storia spesso risale fino all'emigrazione dei popoli e anche all'epoca romana. Molto più importante però della loro figura storica è da considerarsi la loro natura esteriore. Questi paesi sono meravigliosamente diversi gli uni dagli altri, anzi opposti. Il conoscitore, per non parlare dello scienziato, entra in un nuovo mondo a ogni due ore di strada ferrata percorsa con un diretto. L'Impero austriaco possedeva senza dubbio fra gli Stati europei la più grande e più estesa ricchezza di forme naturali. Pressappoco come gli Stati Uniti dell'America del Nord, ma in misura più moderata e più mite, esso univa entro i suoi confini il clima del Nord, con le sue pinete, e la flora meridionale del Mediterraneo, con alloro, ulivi e cipressi sparsi nei mille solchi dei pendii nudi e bruni. Univa i mondi artici dei ghiacciai del massiccio dell'Ortler e le vaste steppe asiatiche della Puszta, i pinnacoli tragicamente lacerati delle Dolomiti e le malinconiche colline della Boemia, le acque dagli occhi sognanti dei laghi alpini e il mare Mediterraneo col suo più bell'arcipelago davanti alla costa dalmata, gli alti pascoli dei Carpazi e i bassipiani del Danubio, con tutte le meraviglie del suo bacino fluviale, con le sue praterie selvagge ricche d'uccelli e le grandi isole popolose del suo affluente, il Tibisco. Tutto quello che esisteva in Europa di tesori e di meraviglie naturali, il crollato Impero lo riuniva in sé, in un unico spazio, ch'esso offriva per la vita comune a tutte le sue popolazioni, affinché vi trovassero la loro felicità terrena, servendo al tempo stesso a un'idea superiore.
Ciò che si è detto dei tesori naturali vale anche per gli abitanti dell'Austria. Essa non comprendeva tutte le stirpi del continente europeo, ma moltissime di loro, e in particolare le razze più importanti: Germani, Latini e Slavi.
Ai ventiquattro Länder corrispondevano tredici popolazioni. Oltre ai Tedeschi e ai Magiari, che avevano da secoli la prevalenza nella metà occidentale e orientale dell'Impero, questo comprendeva anche quattro popoli slavi settentrionali (Cechi, Slovacchi, Polacchi, Ruteni o Piccoli Russi), tre slavi meridionali (Croati, Serbi, Sbveni), tre latini (Italiani, Romeni e il singolare popolo montanaro dei Ladini). A questi dodici popoli si aggiungeva ancora come tredicesimo un nucleo assai numeroso di Ebrei, che a loro volta si dividevano in una stirpe occidentale e una orientale. L'orientale viveva nella Galizia polacca e nel lontano paese boscoso della Bucovina, l'occidentale in massima parte nella Boemia, nella Moravia e nella Slesia, i tre paesi ereditari della corona boema di Venceslao. Il centro di questa comunità ebraica occidentale era l'antichissimo ghetto di Praga, molo rinomato per i suoi dotti, i suoi mistici cabalisti e le sue leggende.
Abbiamo qui enumerato soltanto le popolazioni manifeste, tutt'oggi viventi. Ma non dobbiamo dimenticare le stirpi latenti, quelle stirpi il cui nome non compare nelle tabelle statistiche, ma il cui sangue continua ad agire. Taceremo dell'antichissima razza celtica, dimorante nelle Alpi e nei Sudeti, benché essa costituisca senza dubbio il fondo dell'essenza etnica dell'Austria. Così pure menzioneremo solo di sfuggita le legioni romane, che ebbero i loro accampamenti e i loro castelli dall'Elvezia al Mar Nero, lungo tutto il bacino del Danubio, introdussero la viticultura, lavorarono e procrearono figli. Ma l'Austria è stata sempre, fino al giorno d'oggi, un ideale paese di transito, una chiave, un tragico campo di battaglia, sul quale si compì il destino d'innumerevoli popoli. Longobardi e Gepidi, Unni e Avari, Tartari e Turchi. La marea dei popoli asiatici, che di tempo in tempo cercò d'inondare l'Occidente, s'infranse ogni volta sulla terra austriaca, l'ultima volta ancora duecentocinquant'anni orsono, quando Vienna fu assediata dai Turchi. Una parte di quelle razze impetuose di cavalieri, che avevano per lo più nel loro seguito le donne e i fanciulli, rifluì verso Oriente, l'altra parte rimase, fu domata e assorbita. Non soltanto le invasioni guerriere però causarono l'afflusso di sempre nuovo sangue e il trasformarsi sempre più sorprendente del caleidoscopio delle nazionalità austriache. Ciò avvenne anche per vie legali e pacifiche. Quando lo scettro absburgico dominò l'immenso impero spagnolo e romano-tedesco, non soltanto la politica spagnola e i costumi spagnoli penetrarono al di là dell'Alpi, ma anche il sangue spagnolo. Ancora oggi in villaggi sperduti fra i monti s'incontrano cognomi spagnoli.
La terra austriaca aveva una forza segreta, particolarmente adatta a costituire l'humus. Interi popoli e razze, di cui questa terra porta le orme, furono per essa come autunni trascorsi, come fogliame caduto dell'anno prima. Essa assorbì in sé tutti questi autunni etnici e li trasformò in qualcosa di nuovo. In che cosa? Qui ci avviciniamo all'idea.
Innanzi tutto un confronto: sebbene non perfettamente esatto. Citiamo un'altra volta gli Stati Uniti! Anch'essi sono un vero regno, perché non costituiscono un'«unita demoniaca» naturale, bensì il tentativo politico di dar forma a un'idea superiore, sopraordinata. Questa idea costitutiva degli Stati Uniti non è meno difficile da formulare di quella austriaca. Se la si definisce con queste parole: «la maggior libertà possibile della personalità entro una comunità supremamente responsabile», si dice qualcosa di banale, di sbiadito, che contrasta con la realtà e deve strappare ai conoscitori di questa un sorriso di compatimento. Ma le idee non sono concetti, non sono essenze del puro intelletto.
Le idee hanno la loro realtà sensibile. Platone stesso, quando diceva «idee», non si rappresentava delle astrazioni, bensì degli «archetipi», dei modelli di tutto l'essere creato. Immagini, ad ogni modo. Non si afferrerà mai un'idea reale, se non si può vedere, fiutare, gustare in essa ciò che vi è di figurativo, di corporeo anzi. Gli Stati Uniti hanno la loro idea, e la formula sopra enunciata non ne è che un vago indice.
L'antico Impero dell'Europa e la giovane Repubblica dell'America s'incontrano in certi presupposti. L'uno e l'altra sono, come si è detto, regni etnici e non Stati nazionali. Entrambi sono nati dall'unione e dal pareggiamento di razze e stirpi diverse. In entrambi una di queste stirpi ha raggiunto la superiorità e si è assimilata le altre. Nella Repubblica atlantica fu la stirpe anglosassone a imporre la propria lingua e il proprio tenore di vita, nell'Impero europeo fu la stirpe germanica, che però purtroppo nelle grandi ore decisive non si mostrò all'altezza del suo compito. Forse - questo bisogna concedere ai Tedeschi della vecchia Austria - nessuna appassionata nazione del mondo avrebbe potuto essere all'altezza di quel compito, infinitamente più arduo del problema risolto dalla stirpe anglosassone in America. Gli Stati Uniti sono un regno che non è nato, ma è stato creato; non in epoche oscure, ma alla più chiara luce della storia, e cioè mediante una violenta immigrazione, mediante una specie di esplosione dell'Europa. Furono paragonati spesso a un forno fusorio delle razze. E infatti una straordinaria e singolare forza del continente atlantico fonde nel giro di poche generazioni i popoli più diversi fra loro, convertendoli in Americani al cento per cento. Una nuova nazione in parte si è già formata, in parte si sta formando. Ma con essa si leva anche quel pericolo demoniaco, che minaccia l'idea superiore di questo regno.
Si manifestano ora i grandi contrasti, che pongono un limite al paragone. Essi sono caratterizzati dalle due immagini adoperate per l'America e per l'Austria: da una parte il forno fusorio che lavora con impetuosa violenza, dall'altra l'humus che mastica a poco a poco. Al processo meccanico si contrappone il processo organico.
Anche l'idea dell'antica Austria volle che l'uomo che l'abitava fosse trasformato e rifuso. Pretese da esso che non fosse soltanto un Tedesco, un Ruteno, un Polacco, ma qualcosa di più, qualcosa al disopra. Sarebbe un'esagerazione chiamare questo sacrificio richiesto dall'idea un vero e proprio 'sacrificium nationis'. Ma certo fu qualcosa di simile. Rinuncia a una comoda affermazione di se stessi, rinuncia all'eccitante abbandono agli istinti del proprio sangue, rinuncia all'indomito bisogno di trionfo della propria stirpe. Solo chi compiva questa rinuncia, chi era deciso a questo sacrificio, poteva ottenere la consacrazione superiore dell'idea, veniva ricreato, si trasformava, da Tedesco o Ceco che era, nell'uomo nuovo, nell'Austriaco. La grande idea destinava quest'uomo ricreato, questo Austriaco, a diventare un maestro. Egli doveva diffondere la luce della propria umanità provata dal sacrificio, affinché tutti quelli che erano ancora giovani, ancora barbari, ancora legati alla terra, fossero illuminati e convertiti da questa luce. Questa destinazione a diventare «maestri dell'Oriente» è tramontata col tramonto della vecchia Austria. Ma era già sepolta da un pezzo. Pochi soltanto ne avevano consapevolezza. [...]¨

 

IV.

 

Il primo che intuì l'idea «Austria» fu nientemeno che Carlo Magno.

 

 

Nel piccolo paese, il cui centro è costituito dalla città del vino, la città di Vienna, egli pose la prima pietra della cosiddetta Marca orientale. Fin dal momento della sua fondazione questa Marca orientale ebbe un duplice compito. Quello di difendere e quello d'insegnare. Doveva, come un'insormontabile barricata, proteggere l'Occidente dall'assalto dei barbari, e al tempo stesso domare quei barbari, incivilirli, trasformarli, educarli, da esseri naturali demoniaci e schiavi del proprio sangue a Cristiani occidentali. Questo compito dell'Austria nel corso della sua storia non si è mutato di un iota. Logicamente doveva fallire nel momento in cui l'umanità naturale demoniaca sotto forma del nazionalismo moderno e delle sue dottrine scientifiche aveva oscurato l'idea cristiano-occidentale del regno.
Nel primo Natale del secolo nono Carlo Magno riceveva dalle mani del Papa Leone la corona dei Cesari romani: uno dei più grandiosi avvenimenti che la nostra terra abbia vissuti. L'antico Imperium, la cui potenza aveva riposato per tanti secoli, era nato di nuovo. Di nuovo nel senso più vero. Poiché a differenza da Cesare Augusto, da Adriano o da Marco Aurelio, il nuovo Cesare non era più soltanto il simbolo del dominio terreno, non più il rappresentante di quel quiritismo, che con la sua altissima superiorità politica si era assoggettato il mondo antico, 'urbem et orbem'. Non c'era più un antico popolo sovrano, un erede del quiritismo, che avrebbe potuto esercitare l'imperium alla maniera dei Romani. Ma c'era la Croce, nelle cui due braccia s'incrociavano l'orizzontale terrena e la verticale sopraterrena. Il globo imperiale nella sinistra di Carlo, simbolo del globo terrestre, portava la croce. I due più profondi antagonisti, Cesare e Cristo, venivano avvicinati nell'idea del nuovo «Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca» alla maggior distanza possibile in regione terrena. Ma il punto del globo imperiale nella sinistra dell'Imperatore, dove s'innalzava la croce, avrebbe dovuto essere la Marca orientale.
E lo fu in realtà. Da principio ancora alla periferia, essa si spostò sempre più verso il centro. Simile a una potente calamita, attirava i giovani popoli come limatura di ferro. E poi venne la sua grande ora. Essa diventò il nucleo e la gemma del Sacro Romano Impero, quando assunsero il potere gli eredi spiritualmente più autentici e legittimi del Caesar Carolus Magnus. Fu la Casa d'Absburgo, che resse i paesi ereditari austriaci e da allora in poi, con poche interruzioni, conservò la dignità imperiale romana fino ai termine di questa.
Quando all'inizio del secolo decimonono: cominciò a salire l'ondata del nazionalismo tedesco, il sovrano absburgico allora regnante, Francesco I, sciolse il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca e non si chiamò più Imperatore romano, ma «Imperatore d'Austria».

 

 

Era un disperato tentativo di salvare la grande idea dell'unità dei popoli, una ritirata, un concentramento sulla posizione più forte. Di ciò approfittò la famiglia reale prussiana degli Hohenzollern, i nemici mortali dell'Austria e della sacra idea imperiale. Essa sferzò e stimolò energicamente i demoni del nazionalismo pangermanico. Dopo le vittorie sopra l'Austria e la Francia nell'anno 1870-71 riuscì a ridurre sotto il proprio dominio i piccoli Stati tedeschi, e in tal modo a unificarli. E allora avvenne uno dei più brutti scherzi di parole della storia mondiale. La grande Prussia si chiamò «Impero Tedesco», quando nel migliore dei casi non era che uno Stato nazionale, un'unità demoniaca, il contrario dunque di un regno unificatore di popoli nato da un'idea sopraordinata. Ma i re prussiani si conferirono il titolo di imperatori. Kaiser è la forma greca di Caesar. Ogni Kaiser è successore di Cesare, che fondò l'impero mondiale sopranazionale della civiltà occidentale. Il Cesarismo è l'opposto assoluto della regalità nazionale. Gli Hohenzollern furono fortunati re nazionali, che per odio contro i Cesari legittimi della Casa d'Absburgo usurparono un vuoto titolo imperiale.

Il primo Cesare absburgico si chiamò Rodolfo. Era nato in Argovia, nella Svizzera. E la sua origine svizzera non è priva di significato simbolico. In ogni caso era un richiamo alle virtù elvetiche della neutralità e della tolleranza nazionale. Se ci si può fidare delle fonti storiche e dei loro abbellimenti poetici, Rodolfo, indipendentemente dalla sua personale attività e coscienza dei propri fini, possedeva già certe qualità, che più tardi saranno attribuite al carattere austriaco. Nel suo tenore di vita egli era straordinariamente semplice, alieno da ogni infatuazione di se medesimo, da ogni enfasi parolaia, scrutatore dell'uomo, non freddo, ma fervido, perché ricco di umorismo, pio senza essere fanatico.
Tale carattere diede il tono, che, perdurando attraverso i secoli, poté diventare esemplare e mitico. Non tutti i Cesari absburgici assomigliarono a questo carattere, s'intende. Ci furono fra essi dei deboli, dei minorati, degli insignificanti, degli stravaganti, che rimasero molto al di sotto della sana misura di Rodolfo. Ci furono anche alcuni, che superarono assai tale misura. Ma né questi né quelli furono i giusti, furono la misura del carattere austriaco.
La serie degli antenati absburgici offre all'occhio indagatore figure seducenti in quantità. Ecco Carlo V, il cui regno si estendeva dal sorgere al tramontar del sole, compreso perfino il lontano Messico, e la cui anima tuttavia s'infranse, inducendolo a finir la vita in un convento di cappuccini. Ecco il suo tipo opposto, Rodolfo II, il cui regno era tutto chiuso entro le mura dell'antico castello reale di Praga, il Hradcany

 

 

regno cupo e bizzarro, nel quale centinaia di alchimisti fabbricavano oro e cercavano la pietra filosofale, mentre i negromanti volevano metter la morte alle strette, e gli astrologi leggevano nelle congiunzioni delle stelle: fra loro spiriti immortali come Tycho Brahe

 

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TYCHO BRAHE E KEPLERO

 

e Keplero. Ecco poi una forte e ferma figura di donna, Maria Teresa, la matriarca del Rococò. Ma non parleremo oltre di queste figure superiori alla media, parleremo piuttosto di una personalità mediocre, ma che ebbe la «misura», parleremo dell'Ultimo, che in parecchi tratti assomigliò al Primo, del Cesare che regnò nel crepuscolo di un mondo.

 

V

 

Dobbiamo soffermarci un poco sulla figura dell'Imperatore Francesco Giuseppe, perché la sua ombra si proietta su quasi tutto il libro. una delle vite e uno dei regni più lunghi che la storia conosca.

 

 

Tutto il vespro dell'Impero absburgico è occupato dalla figura di quest'uomo. Quando nel terzo dicembre della guerra mondiale egli morì, era giunta la notte, benché esistesse ancora un giovane e infelice successore, che doveva assistere al doloroso sfacelo dell'Impero.
Francesco Giuseppe raggiunse ottantasei anni e ne regnò circa settanta. La sua vita durò quasi tre generazioni, il suo governo più di due. Egli salì al trono durante la rivoluzione del 1848, diciottenne.

 

 

Il suo regno s'iniziò in una giornata di dicembre, terminò in una giornata di dicembre. La stagione, l'intonazione politica, la caratteristica umana di questo regno fu crepuscolo invernale, gelo invernale e vicinanza di morte. Quando Francesco Giuseppe nacque, vivevano ancora molti uomini dell'ancien régime, che spiritualmente stavano al di là del grande spartiacque della Rivoluzione francese e in Napoleone soprattutto vedevano uno sfacciato parvenu.

 

 

Quando giacque sul letto di morte nel castello di Schönbrunn, era in piena fioritura l'età trionfante dei gas velenosi, delle bombe incendiarie e delle masse martirizzate e martirizzanti.

 

 

La vita di Francesco Giuseppe unisce come un ponte di straordinaria portata due epoche storiche, lontane l'una dall'altra dieci volte più del secolo reale che le separa. Non poteva essere una natura fiacca quella che, stando per settant'anni sulla vetta di un mondo, resse a una simile portata senza crollare. La natura di Francesco Giuseppe si difese a suo modo contro l'immane destino. Non rintuzzò le armi avverse, ma si ritrasse, si chiuse in una solitudine veramente cesarea. Si corazzò con l'ininterrotta dedizione al concetto del «servizio».

 

 

(La penna vorrebbe scrivere «fanatica» dedizione. Ma nulla sarebbe meno vero della parola «fanatico» riferita a Francesco Giuseppe.) La prammatica del servizio - così sonava la vera espressione austriaca - regolò l'attività, i diritti e i doveri dell'Imperatore fin nelle minime sfumature. Dove essa cessava - ma in realtà non cessava mai - trovava la sua continuazione in una scrupolosissima esigenza di tatto, che vietava per esempio al sovrano di pronunciare, in occasione di un'esposizione d'arte o di una serata a teatro, un giudizio di carattere personale. Così nacque la frase spesso schernita nei giornali umoristici: «È stato molto bello. Mi ha fatto molto piacere». Ma non era da Cesare essere personale. Egli stava al di sopra di ogni personalismo, che giudica secondo il proprio gusto. In un'epoca in cui la personalità fu idolatrata con snobismo, in cui la contingenza e il disordine travestiti da libertà erano tutto, la natura originariamente impaziente e capricciosa di Francesco Giuseppe si superò costringendosi all'impersonalità, all'ordine e alla regola.

Questo fu possibile solo perché anche in lui, l'Ultimo, continuava ad agire l'antica forza della sacra idea imperiale. Ciò che vi era di universalmente umano in questa idea estorse all'anima dell'Imperatore una virtù, per la quale la parola obiettività è troppo debole. Egli, tedesco di sangue e di tradizione, cercò con estrema sincerità di soddisfare alle esigenze di tutti i popoli della monarchia. Egli, che proveniva da un'età feudale e dispotica, egli, che nel miglior dei casi aveva qualche scarso rapporto solo coi capi dell'alta nobiltà, negli ultimi anni del suo dominio, in tenace conflitto col proprio seguito, coi ministeri e col parlamento, riuscì a far trionfare la richiesta socialista del suffragio universale, uguale e diretto. E avvenne così l'inconcepibile. Un Absburgo, che era diventato grande ancora sotto Metternich, che all'inizio della sua carriera aveva rimesso in vigore le forze reazionarie vacillanti lo stesso Absburgo alla fine della sua carriera patteggiò con le masse odiate e temute, coi lavoratori, col proletariato rivoluzionario.

 

 

Questo fatto è davvero così paradossale come sembra a prima vista? Il Cesare cristiano era solo un sovrano dei ricchi e dei fortunati? In questo avvenimento straordinario, in questo atto sorprendente del vecchio Imperatore non ha parlato ancora una volta la grande, idea imperiale? Per questa i principi dei singoli governi, legati alle loro epoche, non rappresentavano nulla di categorico. Dall'inizio dell'Impero l'idea aveva percorso tutte le forme politiche ch'erano all'ordine del giorno: il feudalismo del Medio Evo, il dispotismo barocco, l'assolutismo illuminato, la democrazia liberale; perché non doveva rivestire anche la forma del socialismo, quando fosse giunta la sua ora? La lotta per il suffragio universale, condotta dalla Corona, fu un simbolo di questa disposizione. All'intenzione universalmente umana del pensiero austriaco non importava che le classi abbienti rappresentassero in eterno la loro parte. La guerra fra capitale e lavoro, comunque andasse a finire, non toccava nella sua intima essenza l'idea imperiale. La sua fronte di combattimento era su di un altro piano. Con forza estrema l'idea cercava alleati contro il grande nemico. E questa volta li trovò nella massa dei poveri e dei poverissimi. Il nemico comune era l'appassionato antagonista, 'ab antiquo', dell'idea austriaca di universalità: l'odio demoniaco, la vana presunzione delle parti sul tutto, la sfrontata idolatria del proprio Io, in una parola il fanatismo nazionale, sostenuto dal piccolo borghesismo arrabbiato di tutti quanti i popoli. Esso è rimasto vincitore.
Le generazioni austriache nate dopo ii 1860, quindi nonni, padri, figli e nipoti, non hanno più conosciuto Francesco Giuseppe che come un lontano vegliardo. Il vecchio signore solitario che - secondo una nota canzonetta patriottica - siede nel parco di Schönbrunn, la fronte carica di pensieri, questo vecchio signore dalla barba bianca spartita nel mezzo, familiare a tutto il mondo, questo generale curvo, bisognoso di pensione, in giubba grigio-azzurra, era l'Ultimo dei Cesari, Augustus senex, la stanca personificazione dell'idea imperiale universalmente umana e mondiale.

 

 

La sua vita, il suo volto, la sua gracile, elegante figura di vecchio erano diventati da un pezzo mitici. Essi occupavano la coscienza di ogni Austriaco dal giorno in cui questi entrava per la prima volta, a sei anni, nella scuola elementare. Accanto al Crocifisso sulla parete dell'aula scolastica pendeva l'immagine di Cesare. Questo volto dalla bianca barba imperiale - che la gioventù scolastica, i funzionari, i soldati avevano ogni giorno e ogni ora dinanzi a sé - emanava costantemente una pallida onda di familiare inavvicinabilità, alla quale nessuno si sottraeva. Su quei lineamenti non si notava una spiccata maestà, non uno sguardo da dominatore, neppure bontà, a mala pena una certa cordialità; tutt'altra era l'espressione che vi si leggeva: sembrava che quella testa di vegliardo, lievemente china da un lato, ascoltasse intenta un lamento quasi impercettibile. Forse, nella sua solitudine, l'orecchio coglieva il grido sordo dei popoli furenti, l'urlo soffocato delle masse? No! Francesco Giuseppe, la stanca testa reclinata, ascoltava la profezia della fine.
La familiare inavvicinabilità dell'effigie dell'Imperatore penetrò le anime delle generazioni, impregnandole fin dentro ai sogni. L'effigie diventò un modello. Le strade erano popolate di numerosi Franceschi Giuseppi. Dappertutto negli uffici si vedevano volti familiari e inavvicinabili, con la barba bianca spartita. Perfino i guardaportoni ai maestosi portali dei palazzi avevano la stessa maschera, tranne che la loro testa imperiale reclinata in ascolto usciva da uniformi ornate di pelliccia e di galloni, molto più splendide di quelle che Francesco Giuseppe indossava nei giorni solenni.

 

 

Per ogni figura mitica viene il momento in cui gli uomini cominciano a dubitare della sua esistenza reale. Nel caso di Francesco Giuseppe ciò avvenne ancora durante la sua vita. Circolò la leggenda che l'Imperatore fosse morto da un pezzo e sepolto a Vienna nella tomba di famiglia della cripta dei Cappuccini; e che la sua parte fosse poi sostenuta da uno dei tanti pseudo-volti impenali, da un funzionario cioè d'infima categoria. Questa leggenda fu diffusa dagli avversari della monarchia e fatta circolare come moneta umoristica. La sua verità simbolica faceva piacere: l'Impero è morto e la sua vita ormai non è più che un'apparenza fallace. Ma era necessario che l'Impero fosse morto, se dovevano cominciare a esistere le unità demoniache. E queste urgevano rabbiosamente.
Gli avversari di Francesco Giuseppe hanno odiato in lui non l'uomo, ma l'idea. Come uomo «non c'era nulla da ridire sul conto suo». Questa frase fatta ha qui un significato profondo. Il sacro compito di Cesare consisteva nel superare tutto ciò ch'era personale, nel trasformarsi, mediante un incessante dominio su se stesso, in principio, in legge per un Impero di popoli, che a loro volta si trasformavano e si sublimavano. Non essere personale, non essere umano era il dovere personale di Cesare. Egli lo ha adempiuto, tendendo inflessibilmente a trasformare la propria natura terrena in una specie di recipiente dell'idea imperiale. Francesco Giuseppe non fu un ingegno singolare e meno che meno filosofico. La sua condotta non risultò da una coscienza, da un riconoscimento dell'idea, bensì dalla logica dei fatti e da un'intima e fine sensibilità per la realtà malaticcia del suo regno. Non c'era nulla da ridire sul conto suo. È vero. Nei settant'anni del suo governo egli firmò meno sentenze di morte che non gli uomini oggi al potere in un mese. E tuttavia nessuno che l'abbia conosciuto a fondo gli attribuisce il merito di una singolare bontà. Egli conservava la distanza senza riguardi, anche di fronte a coloro che gli erano vicinissimi e lo servivano da parecchie decine d'anni. Si dice che solo in casi di estrema rarità egli abbia porto la mano a uno dei suoi sudditi (e i cinquantadue milioni d'abitanti della monarchia gli erano tutti sudditi). Eppure nei suoi occhi azzurri, sotto le folte sopracciglia bianche, non si leggevano certo freddezza e durezza.
All'uomo Francesco Giuseppe era toccata una sorte terrena ben poco felice. A diciott'anni perdette la sua giovinezza per la dignità imperiale. Sposò giovane una donna che amò davvero fino all'ultimo respiro di lei.

Ma Elisabetta si rivelò ben presto creatura eccentrica ed esaltata, incapace di amare, o che per lo meno non ricambiò l'amore di suo marito. L'Imperatore, che si era imposto come legge il superamento di ogni caratteristica personale, ebbe in moglie una spiccatissima «personalità», una «donna interessante e distinta», come veniva ufficialmente indicata con una definizione che ispirava rispetto ai letterati, ma doveva riuscire penosissima al monarca. Francesco Giuseppe, natura semplice, anelava a una idilliaca vita familiare. Elisabetta gliela negò. Ella si tenne lontana da lui, col corpo e con l'anima. Era sempre in viaggio. Passò anni e anni sul suo yacht, nel suo castello di Corfù, in metropoli e luoghi di cura. L'Imperatore tollerò questa compromettente irrequietudine di vita. Non esiste una sola testimonianza della sua disapprovazione, una sola prova della più lieve lagnanza o accusa. Ci sono invece innumerevoli lettere e telegrammi alla consorte lontana, che esprimono senza rimprovero la più tenera sollecitudine, fino al giorno dell'assassinio di Ginevra.

 

 

 

Francesco Giuseppe perdette di morte innaturale le tre persone che gli stavano più vicine. La prima fu Massimiliano del Messico,

 

 

carattere non meno ambizioso che fantastico, il quale in parte per follia romantica, in parte per la sua tragica posizione di fratello minore, si assunse una missione impossibile, di cui egli meno di ogni altro poteva essere all'altezza. Morì a Queretaro sotto le palle del plotone d'esecuzione messicano, dinanzi ai cui fucili l'aveva mandato Juarez, il dittatore nazionale.

 

 

Tre decenni dopo cadeva l'Imperatrice, questa donna eternamente lontana, assuerica e pure amata, vittima, a Ginevra, dell'assurdo attentato di uno sciocco anarchico, Luccheni.

 

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Ma il colpo più grave del destino fu l'oscura fine di Rodolfo, principe ereditario e unico figlio.

 

 

Fino ad oggi non è ancora stato chiarito in modo convincente se la coppia di Mayerling abbia chiuso la sua vita con un suicidio comune, o se sia avvenuto allora un misterioso assassinio, in cui s'intrecciarono propagandisticamente amore e politica. Fu l'Imperatore stesso a cancellare per sempre le tracce della verità. In questo caso egli si mostrò molto duro e diede un ordine, che avrebbe fatto onore a Filippo II di Spagna. Volle che il cadavere di Maria Vetzera, l'amante di Rodolfo,

 

 

fosse vestito, posto in una vettura di piazza e, sorretto a destra e a sinistra da due cavalieri, fatto passare di gran galoppo in mezzo a una spalliera di curiosi. Nessuno doveva mettere questa infelice fanciulla in relazione con la morte del principe ereditario, vittima di un incidente di caccia, come la leggenda dell'Altissimo voleva che si credesse.
Tre morti cruente e al tempo tesso tre «sensazioni» europee di prim'ordine. La morte di Rodolfo, truce scandalo, benvenuto bottino della stampa mondiale. La morte di Massimiliano, esecuzione di un Absburgo, di un principe imperiale, fallimento di un inetto, quindi episo dio profondamente compromettente per il fratello regnante. La morte di Elisabetta per il pugnale di un miserabile pazzo, fine simbolica di una «donna incompresa», eternamente in fuga dal marito troppo frigido, quale oggetto di compassionevole considerazione, d'importuna partecipazione, di strizzatine d'occhio da gente che la sa lunga, per i cronisti d'appendice! Cesare, il superatore di ogni elemento personale, il cui Io umano si era già quasi completamente risolto nel Noi maestoso, Cesare doveva diventare oggetto di «sensazioni» cruente nell'ambiente suo più privato. Pareva che il destino avesse congiurato di mettere continuamente alla prova la portata della sua imperiale impersonalità.
Francesco Giuseppe superò la prova. Non abbiamo nessun documento del suo dolore e della sua vergogna, nulla che sia uscito dalla sua mano o dalla sua bocca. Le uniche parole che si tramandano, stranamente lapidarie, sono quelle ch'egli avrebbe pronunciate dopo ricevuto il terribile telegramma di Ginevra: «Proprio nulla mi è risparmiato ».
Questo sobrio gemito fu tutto ciò che i popoli dell'Austria poterono udire del suo sentimento più profondo. Ma allora Francesco Giuseppe non sapeva ancora che questo suo sobrio gemito di uomo doveva ben presto valere anche per Francesco Giuseppe imperatore.
Per tutto il tempo interminabile del suo governo, egli aveva conservato l'Impero, aveva prolungato fino all'estremo limite il crepuscolo del suo mondo. Aveva superato un colpo via l'altro con calma tenacia: la perdita di Milano e di Venezia, la sconfitta di Sadova inflittagli dai Prussiani,

 

 

l'infausto scindersi dell'Impero dovuto all'impulso di predominio dei Magiari, gli attacchi sferrati dal fanatismo nazionale delle altre unità demoniache. A questa dinamica sferzata dall'odio egli contrappose una statica saggia e grandiosa, che si manifestò in una magistrale abilità di procrastinare le soluzioni, di scansare e lasciar sbriciolare i conflitti.

 

 

Questa statica nell'irriverente vocabolario dell'Austriaco fu caratterizzata col concetto classico del 'fortwurstein' [È una caratteristica espressione austriaca, che significa 'tirar avanti in qualche modo, tirare a campare. (N.d.T.)]. Francesco Giuseppe sapeva che bastava un passo a condurre nell'abisso. Ma egli, ottantenne, poteva sperare di non dover compiere questo passo.

 

 

Quando sarebbe venuta finalmente la morte liberatrice, per sciogliere l'anima di Cesare da sette decenni di spaventosa responsabilità? Se la sbrigasse poi il suo successore, quell'uomo avido di potere, iracondo, già, con narici tremanti, in agguato della tarda eredità.
Allora avvenne la catastrofe di Sarajevo. La coppia dei principi ereditari morì colpita dalle rivoltellate di un fanatico nazionale serbo.

 

 

Dopo un momento di costernazione, un'ondata d'isterica frenesia, di forza e di tracotanza pervase ben presto certi strati della monarchia. «Basta» si diceva «non possiamo aspettare oltre, dobbiamo dimostrare al mondo, prima che sia troppo tardi, che siamo una grande potenza.» Geniali generali di manovre videro giunto il loro «adesso o mai». Ministri reazionari, stanchi dell'abile procrastinare, si compiacquero di fare gli uomini forti alla maniera prussiana. Aizzatori reazionari d'ogni genere videro il miraggio di rosei risultati. Ma in fondo ardeva la speranza delle preminenti nazioni tedesca e magiara di sopraffare completamente mediante una guerra vittoriosa le altre razze dell'Impero.

 

 

È impressionante pensare che fra tutti quegli uomini politici e quei generali follemente illusi, in quella caldaia da streghe dell'opinione pubblica eccitata si trovasse un uomo solo, che vedeva, prevedeva tutto, un uomo che presentiva fino in fondo tutta l'amara verità. E quest'uomo aveva ottantaquattro anni. L'antichissima idea imperiale, l'idea dell'unificazione e del compito educativo, non viveva ormai più che in un vecchio cuore, nel cuore di Cesare. Questi sentiva chiaramente che l'idea non esigeva che per amore del principe ucciso si mettesse in gioco l'esistenza della monarchia. Anche l'eccitazione nazionalistica di un piccolo popolo non costituiva motivo di arrischiare la vita, poiché tutti i popoli, dentro e fuori dei confini, erano in preda a eccitazione nazionalistica. La sacra idea dell'Impero aveva superato in pace tutte le malattie della storia. Perché no anche questa? Ecco ciò che doveva sentire l'Imperatore. Ma egli sapeva che ogni passo, anche il più piccolo, era un passo nell'abisso.
E tuttavia che cosa poteva fare lui, ormai decrepito? La furia della guerra e l'entusiasmo della guerra si rovesciarono su di lui come una fiumana. Forse ci fu una volontà superiore, che volle la catastrofe. Ciononostante in Francesco Giuseppe non vacillò neppure un momento la definitiva consapevolezza della verità. Solo così si spiega la scena seguente, che viene riferita in modo degno di fede.
La dichiarazione di guerra sta sullo scrittoio dell'Imperatore.

 

 

Per giorni e giorni il capo di Stato Maggiore e i ministri lo hanno assediato di proposte, di memoriali, di ammonimenti, di minacce. Egli si è schermito, schermito fino all'ultimo resto della sua forza. Ora sono ricorsi a mezzi equivoci, hanno colorito rapporti, deformato notizie in modo che al monarca non può rimanere altra via che quella di firmare. Egli si schermisce ancora. Infine giunge la goccia sicura che deve far traboccare il vaso, un messaggio: i Serbi hanno aperto le ostilità...
Il vegliardo afferra la penna. Fissa la magnifica carta di lusso della dichiarazione di guerra, redatta in lingua francese. Poi lascia di nuovo cadere la penna, sogna per qualche tempo, mentre il suo sguardo vuoto erra fuori della finestra. Infine volge la testa all'aiutante di campo, che gli sta vicino ed è un vecchio curvo come lui, sebbene molto molto più giovane:
«Tutti costoro non sanno che cos'è la guerra... Io lo so... Da Solferino... »

 

 

Il vecchio generale tace. Il suo signore non gli ha chiesto di esprimere la propria opinione. Ma Francesco Giuseppe aspetta, aspetta a lungo, come se andasse a una risposta, a un'ultima salvezza. Nulla! Allora egli si accomoda gli occhiali cerchiati di corno, prende la penna, e in una scrittura lieve, quasi elegante, la sua firma danza sotto un testo che costerà la vita a dodici milioni di uomini.

 

 

Firmare, con un lieve slancio mettere sulla carta il nome Francesco Giuseppe, fu una funzione essenziale del suo servizio per sette decenni. Ora la terribile opera anche di questa firma è compiuta: egli solo sa che essa è una sentenza di morte per il suo regno. Allora l'Imperatore si alza e pronuncia le seguenti parole, testificate:
«Se dobbiamo andare alla rovina, sia almeno con decoro...»
Fuori invece, per tutte le strade, nei palazzi, nelle case borghesi, negli uffici, nelle banche e dovunque abitano e lavorano uomini ragionevoli, non regna che chiasso, entusiasmo selvaggio, anticipata ebbrezza di vittoria.

 

VI

 

Non fu l'ultima firma di Francesco Giuseppe. Per due anni ancora egli sedette instancabile al suo scrittoio dalle cinque del mattino, e firmò atti, decreti, ordini dolorosi del tempo di guerra. Lo scrittoio si trovava in uno studio abbastanza spazioso, che con l'attigua camera da letto costituiva l'appartamento dell'Imperatore d'Austria.

 

 

Questo appartamento era inserito come un corpo estraneo, cupo e borghese, nella grazia prodigalmente luminosa del diciottesimo secolo di Schönbrunn. Assomigliava alle sale d'aspetto delle stazioni, riservate per i membri della Casa imperiale. Un trionfo di impersonalità. Non vi si trovava alcuna traccia di quelle piccole cose personali, oggetti particolarmente cari, pii ricordi, di cui anche l'individuo più insignificante vuole adornare la stanza che abita. Cesare, che personificava l'Impero, non poteva personificare un Io individuale e contingente. Perfino il suo letto spartano, sul quale egli si stese nel sonno della morte, pareva preso in prestito dal fisco.

 

 

 

Per due anni ancora dunque egli continuò ad apporre la sua firma imperiale, in piena coscienza della vanità di ogni cosa e dell'inevitabilità della catastrofe. E continuò a essere solo con questa certezza. I grandi dell'Impero venivano a lui con notizie di vittorie e con autoillusioni ottimistiche. Egli li guardava e taceva. Ma un giorno non potè più. La mano tremante rifiutò l'eterna firma. Egli dovette coricarsi. La sonnolenza della morte era diventata più forte della sua volontà. Le ultime parole pronunciate dall'Imperatore furono rivolte al suo fedele cameriere, di nome Ketten. E ancora in queste parole ebbre di morte, che evitavano accuratamente un'apostrofe diretta, si poteva udire l'indescrivibile senso formale di Francesco Giuseppe per il suo ufficio e per il suo dovere:
«Ci sono molti lavori arretrati da finire...» mormorò il morente «...quindi prego di svegliarmi domani un'ora prima...»
Il due dicembre, in cui il morto Cesare e con lui l'Impero e la sua idea venivano deposti nella tomba, non fu una di quelle prime giornate invernali, pervase dalla chiarità asciutta del gelo recente. La grandiosa pompa funebre non venne punto favorita dalla grazia di un vero «tempo imperiale». Dal cielo tambureggiava fitta una pioggia inesauribile. In pieno mezzogiorno le strade di Vienna, capitale e residenza, erano invase dagli scrosci del diluvio universale e dai crepuscoli di un novembre apocalittico. Le lampade ad arco di tutta la città, velate di nero, ardevano con cupi sguardi dubbiosi, le fiamme a gas, accese, allargavano mani di fuoco tremanti. Lungo le strade e le piazze, su cui doveva svolgersi l'ultimo tragitto dell'Imperatore, stava schierata su molte file la spalliera delle truppe. Uomini in grigioverde, con l'elmo in testa, e brutte uniformi fradice: fra loro dei vecchissimi e dei giovanissimi. Rigidi, bronzei. Nonostante l'oscurità, la pioggia e il freddo, non desideravano che il tempo passasse più veloce. Molti di loro si aggrappavano a ogni minuto, poiché già l'indomani potevano essere di nuovo nelle trincee. Dietro la spalliera delle truppe si accalcava il popolo viennese, non più una folla gaudente, ma una massa grigia, oppressa. Cittadini vestiti di nero con la fascia da lutto e il cilindro spiccavano fra gli altri. Non si curavano della pioggia. Molti piangevano. Cesare era morto e si sentiva nell'aria un terribile risveglio. Ma vi erano anche i combattenti feriti, con immense fasciature, con grucce e bastoni, che animavano variamente, come macchie desolate, il grigiore generale. Chi li vedeva aveva subito alle nari l'odore della guerra, che gravava sopra l'Impero con le sue invisibili esalazioni, l'odore di terra fangosa, di suppurazione e di tintura di iodio. Questa fu la cornice in cui si svolse la pomposa opera barocca delle esequie imperiali, quale un tempo era stata composta dal famosissimo cerimoniale di corte spagnolo. La sublime e spettrale apparizione passò, dileguandosi nel crepuscolo della catastrofe di un mondo, davanti agli occhi attoniti del popolo. Ancora una volta si videro le pelli di leopardo e le guarnizioni d'oro dei magnati ungheresi, ancora una volta i candidi mantelli cavallereschi delle guardie del corpo e degli arcieri, ancora una volta i pennacchi sull'elmo dei gendarmi del castello, ancora una volta l'ondeggiare delle verdi piume sui cappelli di gala dei generali. Ma il mostro dell'immenso e torreggiante convoglio funebre non si vide quasi. Neri cavalieri con gigantesche fiaccole crepitanti lo circondavano da vicino.

 

 

 

Il convogio con la salma di Cesare sostò al Mercato Nuovo davanti al convento dei Cappuccini, che custodiscono nella loro cripta le spoglie mortali dei sovrani absburgici. La bassa porta del convento è chiusa, come se oggi fosse un giorno simile a tutti gli altri. Allora si avanza il primo intendente di corte dell'Imperatore e col suo bastone delle cerimonie bussa imperioso alla porta di legno. Dall'interno echeggiante dell'atrio del convento risuona la voce di un monaco:
«Chi chiede di entrare?»

 

 

L'intendente di corte si rizza nella persona e risponde chiaro e reciso, accentuando ad alta voce ogni sillaba del seguente «Gran Titolo»:
«Sua Maestà apostolica imperiale e reale Francesco Giuseppe, Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, Re di Boemia, Re del Lombardo-Veneto, Re di Galizia e Lodomeria, Re di Croazia e Slavonia, Re di Gerusalemme, Granduca dell'Austria superiore e inferiore, Duca di Stiria, Salisburgo, Carinzia, Carniola e della Marca slovena, Duca di Slesia, Duca di Bucovina, Margravio di Moravia, Conte principesco del Tirolo, Signore di Trieste. »
Ancora una volta l'Impero fiammeggia, nei nomi dei paesi indicati dal Gran Titolo, in tutta la sua grandezza e la sua gloria. Ma la voce del monaco invisibile risponde:
«Non conosco costui.»
L'intendente di corte bussa per la seconda volta! Seconda domanda del monaco! L'intendente risponde col cosiddetto «Piccolo Titolo», che è una modesta concentrazione del Grande. Ora l'Impero viene ristretto ai nomi e alle dignità più importanti. E di nuovo la voce del monaco:
«Non conosco costui.»
L'intendente batte per la terza volta! Terza domanda del monaco! Terza risposta:
«Un povero peccatore!»
«Conosco costui!»
La porta del convento si apre. Alla luce fumosa delle fiaccole l'Imperatore e il suo Impero scendono vacillando entro la cripta dei padri. Il crepuscolo ha ceduto alla notte.

VII

L'autore di questo ampio prologo sull'Austria e delle seguenti storie nate senza intenzione dall'Austria, è spaventato della vastità di materiale che dovrebbe padroneggiare, se volesse tracciare anche solo fugacemente uno schizzo dell'Impero e della sua idea. Il compito sarebbe troppo grande. Egli si limita dunque a dipingere con queste pagine un lontano paesaggio di sfondo per le sue novelle. La sua speranza è che il lettore straniero, proveniente da un altro mondo, possa così comprendere più a fondo certe cose, che altrimenti gli apparirebbero soltanto come un lontano mondo esotico.
La figura di Francesco Giuseppe, l'ultimo Cesare, è stata posta al centro della trattazione, perché essa fu la grande figura del crepuscolo. Ma anche i suoi tratti su questo affresco non potevano risultare che grossolani e imprecisi. Da Francesco Giuseppe prende il nome un'epoca, che è più povera, ma non meno nobile di quella vittoriana. Lo stile di vita dell'Imperatore, con la sua tendenza all'impersonale, determinò lo stile di vita del mondo ufficiale fin dentro alla lingua letteraria. Ci fu un caratteristico tedesco austriaco, considerato lingua da documenti, o ibrida, solo da coloro che non avevano orecchie. Il canevaccio di questa lingua era costituito dallo stile burocratico, che derivava ancora dal formalismo «curiale» della cancelleria di corte barocca, ma le cui tortuosità e combinazioni si adattavano singolarmente a velare moti di sentimento, intenzioni nascoste e astuzie. Un modo di esprimersi asciutto, pieno di fascino e di malizie, che pareva creato per facilitare alle autorità e ai privati il consacrato «fortwursteln». Ma dal canevaccio si sviluppò il più fresco e più variopinto ricamo linguistico, in cui tutti i popoli della monarchia tesero i loro fili colorati. Un'inesauribile, ricchezza di idiomi e di dialetti, di delicatezza e di collera, di malinconia e di spirito, che esprimeva l'anima di tutto l'Impero.
In questo tedesco austriaco, seppure nella sua forma trasfigurata, scrissero i grandi poeti Franz Grillparzer [*], Ferdinand Raimund, Nikolaus Lenau, Adalbert Stifter.

 

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FRANZ GRILLPARZER E ADALBERT STIFTER

 

Poiché vissero nel diciannovesimo secolo dell'Austria, furono anch'essi figure dei crepuscolo e uomini infelici tutti quanti. Raimund

 


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FERDINAND RAIMUND E NIKOLAUS LENAU

 

e Stifter finirono coi suicidio, Lenau in manicomio. Il più amaro di loro, perché possedeva la coscienza più acuta e riconosceva più profondamente l'idea imperiale compromessa, fu il drammaturgo Grillparzer. Egli intraprese per tempo la lotta per questa idea. Con giovanile ambizione tentò di creare il grande dramma storico di tutti i popoli della monarchia. Mise al centro della serie delle sue opere non solo gli Absburgo, ma anche gli eroi nazionali degli Ungheresi e dei Cechi. I suoi bei versi giambici e trocaici agiscono con sacro fuoco per la buona causa, pieni di caustica e inesorabile critica alla presente realtà. Ma gli stolti amministratori di questa realtà, gli ignari sgherri intellettuali della polizia politica misconobbero la nobile volontà di Grillparzer. L'autorità della censura attaccò con ostilità il più ardente propugnatore dell'unità austriaca e del compito educativo austriaco, lo attaccò con tutta la malizia degli asini subalterni contro un cervello superiore.
Egli divenne la vittima favorita della censura. E poiché era l'essere più sensibile del mondo, non resistette a queste vessazioni e all'indifferenza del pubblico. Grillparzer diventò vecchio, sempre più vecchio e non lavorò più. Cioè, nella sua abitazione nel centro di Vienna scrisse montagne di epigrammi mordaci e di aforismi avvelenati, che dopo la sua morte furono trovati nel suo scrittoio. Molti di essi divennero celebri. Ma il motto più felice, ch'egli foggiò circa cent'anni fa sul mondo di oggi, nacque dalla coscienza dell'idea imperiale. Esso suona così: «Dall'umanità attraverso la nazionalità alla bestialità».
Tutti i grandi Austriaci possedettero questa caratteristica dell'amarezza, dai generali celebri giù giù fino ai commedianti celebri. Come si spiega ciò? I Viennesi per citare ad esempio il popolo della capitale non erano famosi per la loro vita gaudente, per il loro comodo feacismo? L'Impero non aveva conosciuto soltanto un eterno crepuscolo, bensì anche un luminoso meriggio! Sì, è vero! Dal luminoso meriggio dell'Impero, quando il sole dell'epoca barocca era allo zenit, emerge alta la figura di un genio politico e militare, il cui ricordo non è tramontato. E tuttavia anche il Principe Eugenio - a riprova ella precedente affermazione - fu un uomo pieno di amarezza, sebbene conquistasse i più grandi successi e la più alta gloria che mai sia toccata a un Austriaco. Donde questa amarezza? Due ragioni sono palesi.

 

IL PRINCIPE EUGENIO VINCITORE SUI TURCHI

 

Eugenio fu uno spirito forte, la cui visione politica penetrava non solo il suo secolo, ma anche quello venturo. Nessuno come lui ha compreso così nettamente l'idea imperiale e l'ha così potentemente promossa con le opere. Ma al tempo stesso quello spirito forte dovette riconoscere che la tragicità di questa idea stava nel suo destino d'infrangersi contro gli uomini e le cose, dovette riconoscere che tutto ciò ch'egli era riuscito a strappare alla stupidità del mondo incarnata in governatori, uomini politici, funzionari, militari, si sarebbe ben presto dissolto in nulla. E poi la seconda ragione. Eugenio di Savoia era di sangue italiano e nato in Francia. Solo dopo aver ricevuto un rifiuto da Luigi XIV, entrò al servizio degli Absburgo. Il Principe Eugenio è l'esempio più alto di quello che nella monarchia si soleva chiamare un «Austriaco diplomato». Chi comprende l'idea nella sua profondità viene alla conclusione che il vero Austriaco non poteva essere che un Austriaco diplomato. Poiché essere Austriaco significava appunto aver superato tutto ciò che era legato al sangue, all'istinto, tutto ciò che era demoniaco, significava essere stato trasformato in un occidentale universalmente umano, alla scuola dell'Impero.
Nessun Austriaco ha compiuto il 'sacrificium nationis' in modo più chiaro di Eugenio di Savoia. Ma Dio ha conferito a ogni sacrificio un segreto, che si rivela in una duplice influenza sull'uomo. Il sacrificio ci libera da dolorosi accecamenti. Questa è la sua azione benefica. Ma tarpa anche l'impulso vitale della nostra natura. Questa è la sua azione nociva, la conseguenza logorante di ogni spiritualizzazione. Forse l'amarezza di tutti i grandi Austriaci sta nel segreto del sacrificio che essi dovettero compiere.
Ma l'impero non era costituito soltanto di grandi uomini, e l'amarezza non fu la caratteristica del suo popolo e dei suoi popoli, nemmeno nel crepuscolo. Al contrario! La mescolanza organica aveva già sviluppato una razza, che si poteva chiamare generalmente austriaca, una razza che, cosa strana, univa in sé la lieta spensieratezza e non la malinconia delle stirpi. L'Austriaco era un uomo del momento, della contemplazione, del sentimento, nemico giurato di ciò che un'espressione forte chiama «serietà brutale». Il suo temperamento irrequieto respingeva la dottrina tetra, puritana e capitalistica, che intanto aveva conquistato il mondo, secondo la quale tutto il senso dell'esistenza sta nel lavoro, o, in termini più chiari, lo scopo della vita voluto da Dio è la produzione di viveri e la sua ingiusta distribuzione. «Tempo è denaro», questa concezione energica, nella quale tutti gli uomini seri dell'epoca si trovavano d'accordo, non corrispondeva affatto alla sospetta vita sentimentale dell'Austriaco. Questi era abbastanza depravato da credere che il denaro è tempo. Contrariamente agli altri, non voleva fruire del tempo per guadagnar denaro, bensì guadagnar denaro per fruire del tempo. Perché nel tempo che gli era concesso per la vita stavano gli unici beni della sua povertà: guardare, udire, fiutare, gustare, tastare, pensare e sentire e amare.
Si capisce quindi che una tal razza d'uomini non fosse adatta alla ricchezza, quantunque la terra della monarchia celasse tutti i tesori naturali che esistono. Essa era, se si può dir così, troppo realistica, per essere materialistica. Nella natura austriaca s'incrociavano nel modo più curioso il borghesismo formale e la bohème nemica di ogni forma. (Del resto la designazione «bohéme», che significa senza ragione «Boemia», mentre corrisponde a «vita zingaresca», è un richiamo al mondo austriaco.) Questa razza d'uomini, che non brillava per lo sfruttamento delle ricchezze naturali ad essa affidate, era in compenso un fulgido baluardo di tutti i valori estetici e musicali. Non parleremo qui dei grandi artisti creatori ch'essa donò al mondo, ma della straordinaria ricchezza di talento rappresentativo, ch'essa celava in sé. Se nel mondo artistico di tutti i paesi si facesse una statistica per stabilire dove siano nati tutti i più o meno famosi musicisti, direttori d'orchestra, violinisti, pianisti, cantanti, registi, attori, astri cinematografici ecc. degli ultimi decenni, la proporzione dei popoli e paesi austriaci sarebbe sorprendente, quasi sconcertante.
Ma la cosa più sacra, prodotta dalla mescolanza di tutti gli uomini e dal lungo lavorio dell'humus nell'Impero, il linguaggio universale, il linguaggio di tutti i linguaggi nella confusione babilonica, è
la musica. L'Austria fu il punto d'incrocio di tutte le strade, lo spartiacque di tutte le correnti, il luogo di scarico di tutte le merci, che costituiscono la musica dell'Europa. Situata fra l'Italia e la Germania, essa completò l'una e l'altra nella sua anima. Basta evocare un nome solo: Mozart! Il povero giovane salisburghese, questo eroe del lavoro più poderoso, per quantità e dimensioni, che sia mai stato compiuto, scrisse opere italiane e sinfonie tedesche. Consunto, malato di petto, in eterne strettezze finanziarie, al lavoro giorno e notte con forza titanica, egli fu però al tempo stesso un uomo indescrivibilmente sereno e piacevole, amò, rise, giocò, suonò per la danza e danzò sopra il suo proprio abisso. Morì giovane e fu sepolto come un cane.
Wolfgang Amadeus Mozart è il luminoso cherubino della melodia pura e l'oscuro cherubino dell'intreccio polifonico. Quale inesauribile Orfeo dell'umanità cristiana e antica, egli emerge sopra la sua epoca e vivrà fin tanto che viva la musica. Egli è l'idea dell'Austria divenuta musica.

Come conclusione delle sue osservazioni l'autore vorrebbe fare ancora una confessione.
Egli non ha riconosciuto sempre, anzi ha riconosciuto solo tardi ciò che qui viene definito «idea imperiale». Le storie di questo libro non ne hanno ancora chiara consapevolezza, forse ne hanno solo il vago presentimento. Nel crepuscolo del proprio mondo, quando l'Austria esisteva ancora, tramontava e non esisteva più, era forse quanto mai difficile accostarsi all'idea. Per l'aria del crepuscolo svolazzavano pipistrelli, farfalloni «teste di morto», ombre e mostri. Le furie della guerra erano scatenate. Non solo una coraggiosa rassegnazione al destino si trovava in tutte le classi, ma regnavano altresì ansia, odio e terrore, giustizia militare, arrivismo e mania delatrice. La guerra mondiale mise i popoli austriaci in un'insanabile contraddizione con se stessi. L'Austria doveva rappresentare la pacificazione e non la discordia. Non avrebbe dovuto far guerra né per l'egemonia germanica né per quella slava. Francesco Giuseppe, nel momento in cui ordinava la mobilitazione, intuì questo con spaventosa chiarezza, senza poterlo evitare. Quando la guerra scoppiò, l'Austria non era più l'Austria.
Perché l'Impero rinunciò a se stesso, il mondo è ancor oggi in preda alla febbre. I metodi di scatenati difensori dello Stato insultarono l'idea. Anche nell'umana Austria si vissero con terribile crescendo le parole di Amleto su «gli insulti del potere e io sfregio che arreca al paziente merito chi non ne è degno». Per la prima volta dopo settant'anni nei paese s'innalzarono di nuovo le forche.
Tutto questo è ormai esaurito e dimenticato da un pezzo. Un mondo è tramontato. Ma a noi uomini,è toccata la sorte di non comprendere mai ciò che sta accadendo, anche se spieghiamo volentieri ciò che è accaduto, la storia. Solo il fatto compiuto, ossia estinto, si chiarisce per noi. Noi cominciamo a intuire la verità, quando essa si è separata dalla sua forma fenomenica terrena. Se fosse altrimenti, quel mondo non sarebbe stato distrutto.
L'Austria era una meravigliosa patria, una patria universalmente umana, senza riguardo a sangue e a confessione, all'origine e alla mèta dei suoi figli. L'Austriaco nato ancora nel vecchio Impero non ha più patria. O forse il più sicuro possesso dell'uomo non consiste in ciò ch'egli ha perduto?

 

Locarno, aprile 1936