GINO AGNESE

IN RUSSIA CON AUGUSTA

Una città in allarme, già colorata di autunno, pattugliata e presidiata, spaventata ma pronta ancora alla rivolta, fiera ma sempre attratta, la sera, dalle luci e dalle seduzioni della via Marszalkowska, la regina delle sue strade. Ecco Varsavia quando Boccioni vi fa tappa durante il viaggio verso Tzaritzin. [...]
Boccioni e i coniugi Augusta e Sergej Berdnicoff scendono alla Dworzek Wiedenski, la stazione dove arrivano i treni provenienti dall'Ovest, proprio nel giorno in cui vengono celebrati i funerali del generale Nikolai Wonlarlaski, governatore di Varsavia, ucciso a revolverate da un rivoluzionario rimasto sconosciuto. [...] In compagnia dei Berdnicoff e di una signora ebrea conosciuta a Parigi, che tutti li ospita, Boccioni assiste alle esequie del generale Wonlarlask. [...]
Il viaggio poi riprende dalla Dworzac Petersburski, la stazione al di là della Vistola, da dove partono i convogli diretti verso l'Oriente. [...] Tzaritzin, cioè la città della zarina, è ridente di giardini e di piazze, e si distende per parecchi chilometri, con i suoi sobborghi, sulla riva destra del Volga, là dove il grande fiume si divide in due imponenti bracci. [...] E <nella via dedicata alla zarina Anastasia> giunge Boccioni assieme ad Augusta e a Sergej Berdnicoff, dopo sette giorni di treno. Infatti, tra le case allineate lungo la Anastasiewskaya c'è la dimora di Michenin, residenza della famiglia originaria di Augusta, presso la quale il pittore italiano abiterà per poco più di un mese.
È una famiglia numerosa, con dei quarti di nobiltà, ma appartenente alla borghesia, il ceto decisivo di Tzaritzin, centro agricolo e porto fluviale, di circa sessantamila abitanti. Il padre di Augusta, Pietro T. Popoff, è un importante funzionario. Sua moglie, Sofia Germanovna, è una donna alta, austeramente vestita di scuro, come tutte le signore d'una certa età, con i capelli grigi e raccolti all'insù. E i loro figli costituiscono una piccola, simpatica brigata che, ora per un'occasione e ora per un'altra, si rallegra di parenti, amici e conoscenti. Il maggiore ha lo stesso nome del padre, Pietro, ed è ormai più vicino ai quaranta anni che ai trenta. Poi c'è Paolo. Quindi seguono Nicola, Augusta, Nadejda e l'ultimo nato, Boris, che è sui vent'anni. Sei figli, sei distinti universi e una ricca varietà di vocazioni, di passioni, sotto lo stesso tetto: da quella per la caccia, che avvince Pietro a quella per la politica, che ha messo nei guai Paolo; e fino a quella per gli studi, che impegna Boris.
Boccioni viene accolto dai Popoff con familiare cordialità; e da quest'accoglienza, oltre che dall'insieme delle altre esperienze, trarrà la convinzione che i russi hanno «temperamento aperto» e «sono ammirevoli». E la Russia? La Russia deve apparirgli come appare alla gran parte degli europei d'Occidente: un pianeta sterminato e incomprensibile, in cui gli avvenimenti seguono una logica oscura, ammesso che ne seguano una. Brilla la dinamite, ma per mano di chi? I nichilisti? I socialisti massimalisti? Gli agenti segreti dello zar? Anche a Tzaritzin si odono spari nella notte. Sono le Bande Nere? O sono colpi esplosi da chi non vuole subire un saccheggio? Né sono univoci gli eventi che scuotono l'impero. Pochi giorni prima del viaggio di Boccioni, una bomba è scoppiata a San Pietroburgo nella dacia di Stolypin, il capo del Governo, e lo ha risparmiato, ma le schegge hanno investito una trentina di persone. Chi sono i mandanti? E gli esecutori? Mistero. In un mese e mezzo - dicono i giornali - 173 uomini, tra poliziotti e soldati, sono stati uccisi o feriti. E nello stesso periodo -1° luglio -16 agosto - circa 300 pubblici impiegati o borghesi sono rimasti vittime di attentati, vendette, rivolte. Eppure questo tributo di sangue non è neppure lontanamente paragonabile alla falcidia compiuta l'anno scorso, tra i dimostranti della capitale e di Mosca, dalle truppe di Nicola II; falcidia della quale, proprio pochi giorni fa, ha pagato il prezzo, con la vita, il generale Minn, comandante di un reggimento che si distinse nella repressione delle manifestazioni operaie.
Insomma, la Russia sembra stretta in una morsa: tra la rivoluzione che avanza e la reazione che contrattacca, avviando adesso la terribile macchina dei Tribunali Militari da campo, che non andranno per il sottile nel giudicare e condannare. E in questa morsa, i soggetti sociali paiono talvolta impazziti; sicché rampolli di famiglie aristocratiche tramano - anche all'estero - contro lo zar e i liberali ora pensano di difenderlo, dopo averlo awersato l'anno scorso, quando secondarono più o meno sottobanco le proteste di piazza; sicché i moderati si voltano all'estremismo, com'è il caso dei socialisti democratici, accusati a torto di aver mano negli attentati, e gli estremisti si convertono alla moderazione, temendo di aver tirato troppo la corda.
Se si eccettua Astrakan, che è sulla foce a delta ed è raggiunta dalla salsedine del Caspio, Tzaritzin è la più meridionale delle città bagnate dal Volga e fa parte del Governatorato di Saratov, altro porto fluviale, nonché centro di cultura e di commerci, situato a oltre 350 chilometri lungo il corso del fiume, verso nord. Fin qui, il vento della rivoluzione non ha spirato con speciale forza sulle 'òblast' del Volga, anche se alcuni settori della borghesia e della nobiltà di queste regioni non mancarono di far giungere allo zar assordanti prove della loro ostilità. Ma corre la voce - raccolta dai giornali - di prossime, imminenti insurrezioni nelle città del fiume; ed ecco perché le Bande Nere, ossia i gruppi armati filozaristi e antisocialisti, sono passate preventivamente all'azione, anche a Tzaritzin. Boccioni, che vive in una famiglia sospettata di nutrire simpatie per i rivoluzionari, si procura perciò un altro revolver in aggiunta a quello che già portava con sé a Parigi; e così, talvolta doppiamente armato, accompagna Augusta e Nadejda a passeggio tra le aiuole del lungovolga o in giro per i negozi della piazza maggiore, la Alexandrovskaya. Non si sa mai, qualcuno potrebbe far del male alle due sorelle del giovane Popoff arrestato in giugno sotto l'accusa di aver fabbricato bombe e poi sfuggito ai poliziotti nel modo che in queste settimane è stato ripetuto dal famigerato Belenzof, rapinatore e rivoluzionario, dall'affarista Savin e da altri: buttandosi dal treno in marcia.
Chi si accorge che il pittore italiano dal volto affilato e dai capelli lunghi, quasi alla nazarena, è l'amante di Augusta Popoff, moglie di Sergej Berdnicoff? In apparenza nessuno. Boccioni è considerato da tutti come un simpatico amico di famiglia dei Popoff, che gioca con i due segugi di Pietro, che incanta il giovanissimo Boris col racconto delle sue esperienze romane e che, soprattutto, ha il dono della pittura. No, Boccioni non dipinge 'Visioni del Volga', il quadro che aveva immaginato un giorno a Parigi mentre era al Luxembourg; ma senza entusiasmo, già agli inizi del suo soggiorno a Tzaritzin, mette mano a un grande ritratto della madre di Augusta, alto due metri e largo quasi un metro. Lo esegue come lo avrebbe eseguito Balla, cioè ponendo la figura nella luce della finestra e trattandola con tecnica divisionista. Però nel concluderlo, dopo parecchi giorni, quanti ne chiede un'opera di tali dimensioni, subisce uno dei soliti assalti della malinconia. Il ritratto, ammirato dalla signora Sofia e da tutta la famiglia Popoff, a lui non piace. «Basta, basta, non voglio più dipingere così!» sbotta nel suo francese a tratti abborracciato, dinanzi agli astanti esterrefatti. E nel dir questo, afferra un pennello, lo intinge nel nero e traccia una scritta in russo alla metà del quadro: «Non finito».
Poi, come sempre, il nuvolone scuro della sfiducia se ne va, e torna a scoppiettare l'allegria di Boccioni; il quale riconosce uno dopo l'altro, giorno dopo giorno, i luoghi, le scene di vita, le persone descrittegli da Augusta durante gl'intimi tete-à-tête di Parigi: la cattedrale in costruzione, i teatri dove sono stati applauditi tenori come Sobinov, bassi come Saljapin e musicisti come Cajkovskij; i capi guardinghi del Partito socialdemocratico operaio; gli ormeggiatori dei battelli, che somigliano ai trascinatori di barconi dell'alto corso del fiume, curvi alla fatica nel famoso quadro di Il'ja Repin: i compagni d'infanzia dei ragazzi Popoff e il Ginnasio dove studiarono lei e Nadejda; la grande azienda molitoria Gergard e il colore degli omnibus, il piroscafo che va a Saratov e le campagne dei dintorni; dove, durante una gita, a Boccioni càpita di suscitare sorpresa e meraviglia, ma non per la sua arte, bensì per la sua patria.
Dunque, un giorno, il pittore italiano e i suoi amici Popoff partono in un paio di carrozze per una proprietà agricola della famiglia di papà Pietro poco oltre la periferia. Si fa merenda, si beve del buon vino di quelle alture e s'intonano canti, accompagnati dalle note d'una chitarra. A un certo punto, Augusta nota che dei contadini parlottano tra loro, in disparte, e s'incuriosiscono a Boccioni: non tanto perché è uno straniero, ma perché ha i capelli che gli arrivano fin quasi sopra le spalle. «È un italiano» dice lei a quei 'mugik'; ma essi restano indifferenti, finché Augusta, precisando, non pronuncia la parola Roma. «È un pittore italiano, di Roma. Avete capito? Roma». A questo punto i mugik restano attoniti per qualche istante, durante il quale gli mulinano, gli saettano in mente i princìpi della loro fede di cristiani ortodossi: e subito poi s'illuminano di riverenza, uno di essi giungendo persino a piegare il ginocchio, mormorando «Roma, Roma...», dinanzi a quel giovane dalla capigliatura così insolita; dinanzi a Boccioni, a sua volta stupefatto, meravigliato d'aver destato tanto devoto rispetto tra quegli uomini della gleba, che gli sembrano giunti direttamente dal Settecento infiammato di Pugacev.
Un'altra gita, quando ormai si è fatta pungente l'aria di settembre, porta Boccioni molto più lontano: non più nei fertili colli Ergeni della riva destra del Volga, ma nella steppa oltre la grande ansa del fiume; nella steppa che più spesso si piega al vento d'oriente, talvolta sabbioso, del Kazachstan. Augusta gli aveva promesso che lo avrebbe condotto tra i pastori calmucchi, che vivono poco diversamente da come vivevano agli inizi del Seicento, quando vennero qui dalla Mongolia, dopo una marcia durata secoli. E la promessa è mantenuta. In cinque - Boccioni, Augusta, Nadejda, Pietro e Boris, che ha con sé una macchina fotografica - lasciano Tzaritzin all'alba del 6 settembre e dopo alcune ore arrivano alla mèta: un piccolo gruppo di 'kibitka', come si chiamano le tende cilindro-coniche, coperte di feltri, di quei nomadi fieri e gentili. Sempre timoroso del freddo, Boccioni è fin troppo vestito, con la sua giubba lunga, accollata, e col berretto. Pietro Popoff, il cacciatore, è stavolta in abito e copricapo da funzionario, mentre le due signore mostrano di non curarsi delle brezze: e sfoggiano infatti grandi cappelli con decorazioni floreali, su camicette dalle maniche ampie, «a cosciotto di agnello», come impone la moda di Parigi. Dai fratelli Popoff il pittore italiano apprende molte cose sui calmucchi: che sono buddisti, che furono buoni soldati di Pietro il Grande, che si raccolgono in tribù capeggiate da un khan e che quella specie di caffettano colorato, indossato da alcuni di loro, si chiama 'bescmet' ed è forse una memoria, filtrata dal tempo, d'una remota contiguità con le tinte della Cina. Infine, Boris scatta la foto-ricordo della gita; ed eccoli tutti e quattro in posa dinanzi a una 'kibitka': Pietro appoggiato al suo bastone da passeggio, il calmucco padrone della capanna di feltri, Augusta e Nadejda sedute e sulla soglia, Boccioni in piedi accanto ad esse e poi la mamma calmucca, dalle lunghe trecce distese sul petto, con i suoi due bambini. Non entrano nella fotografia le greggi, i cavalli e i cammelli; sui quali si sono specialmente soffermate l'attenzione e l'immaginazione di Boccioni.
Comincia ottobre e Boccioni prepara le valigie. Sul fondo della più grande distende, ben piegato, una sorta di scialle bellissimo, dalle proporzioni inusitate, lungo addirittura tre metri e alto un'ottantina di centimetri: un dono per Amelia, una lavorazione somigliante al tulle, impreziosita da ricami a piccole placche d'argento, eseguita forse nell'Azerbajdzan islamico. Ma con quale animo Boccioni lascia Tzaritzin per andare a Mosca, poi a San Pietroburgo e quindi in Italia? È soltanto un'avventura che volge alla fine? E un addio che contiene un segreto arrivederci? È una catena che si spezza? Ormai Augusta è incinta di quattro mesi ed è affettuosamente complimentata dalle amiche e dal parentado per questa sua prima maternità, già abbastanza evidente. Ma Boccioni se ne va senza rivelare per lei, nella concitazione festosa e commossa della partenza, alcun sentimento speciale. Come se non sapesse che la vita pulsante nel grembo di Augusta viene da lui. Anzi, come se ignorasse che Augusta è sulla via di diventare madre. Ed ecco perché, alla stazione, non avviene nulla che alteri il quadro previsto, del simpatico amico che se ne va. Il treno si muove, la brigata dei Popoff lancia per aria evviva e cappelli; e Boccioni porta con sé un'ultima immagine: Augusta, nel gruppo, stretta alla sorella Nadejda, che in russo vuol dire speranza.
AGNESE, pp. 109-116, con tagli e senza note. Per il testo integrale si rinvia il lettore al magnifico volume.