FRIEDRICH NIETZSCHE


COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA

PARTE QUARTA

L'UOMO PIÙ BRUTTO


E di nuovo passarono mesi e anni sull'anima di Zarathustra, e lui non ci badava; ma i suoi capelli diventavano bianchi. Un giorno, mentre stava seduto su un masso fuori della sua caverna e guardava in silenzio davanti a sé - guardava là fuori sul mare e andava oltre i tortuosi abissi - i suoi animali, dopo aver girato a lungo intorno a lui, alla fine gli si fermarono dinanzi.
O Zarathustra - dissero - stai forse guardando per la tua felicità? Che cosa importa la felicità! egli rispose. Già da tempo io non miro più alla felicità: miro solo alla mia opera. O Zarathustra - dissero ancora gli animali - tu dici queste cose come uno a cui le cose vanno anche troppo bene. Non giaci forse in un ceruleo lago di felicità? Pazzi burloni - rispose Zarathustra ridendo - come avete ben scelto la similitudine! Voi sapete anche che la mia felicità è pesante e non è come un'onda fluente: mi incalza e non vuole lasciarmi, e assomiglia alla pace liquefatta.
Allora gli animali fecero ancora pensierosi un giro intorno a lui e gli si fermarono di nuovo dinanzi.
O Zarathustra - dissero - per questo dunque avviene che tu diventi sempre più giallo e scuro, anche se i tuoi capelli cercano di apparire bianchi di lino? Vedi dunque, che tu siedi nella tua sfortuna! Che cosa dite mai, animali miei? - disse Zarathustra, e ne rise. In verità, ho bestemmiato quando ho parlato della pace. Come accade a me, così avviene a tutti i frutti che divengono maturi. C'è il miele nelle mie vene, che rende il mio sangue più spesso e anche più quieta la mia anima. Sarà così, o Zarathustra - risposero gli animali, e gli si strinsero intorno - ma non vuoi oggi salire su un alto monte? L'aria è pura, e si può scorgere più mondo che non mai. Sì, animali miei - rispose - voi mi consigliate di cuore ottimamente: voglio oggi salire su un alto monte! Ma badate che lassù il miele mi sia a portata di mano, giallo, bianco, buono, aureo miele fresco di favo. Perché sappiate che io voglio compiere lassù il sacrificio del miele.
Ma quando Zarathustra fu sulla vetta, mandò a casa gli animali che lo avevano accompagnato e si trovò solo: allora rise di tutto cuore, si guardò attorno e parlò così:
Che io abbia parlato di sacrificio e del sacrificio del miele, è stata soltanto un'astuzia del mio discorso e, in realtà, un'utile follia! Quassù m'è permesso parlare più liberamente che davanti alle caverne degli eremiti e agli animali domestici degli eremiti.
Sacrificare che cosa! Io voglio prodigare ciò che mi è stato donato, io prodigo dalle mille mani: come potrei dunque chiamare questo un sacrificio!
E anche quando ho richiesto del miele, ho desiderato soltanto un'esca, un dolce miele, un succo verso cui tendono anche gli orsi e gli strani cattivi uccelli brontoloni: l'esca migliore, come occorre ai cacciatori e ai pescatori. Poiché se il mondo è come un'oscura foresta di animali e un giardino di delizia per tutti i selvaggi cacciatori, a me sembra piuttosto un mare ricco e imperscrutabile, un mare pieno di pesci variopinti e di crostacei, dei quali avrebbero tanta voglia anche gli dèi, da farsi pescatori e gettatori di reti: così ricco è il mondo di strane cose grandi e piccole!
Specialmente il mondo degli uomini, il mare degli uomini: in cui io lancio ora il mio amo dorato e grido: apriti, abisso umano!

Apriti e gettami i tuoi pesci e i tuoi crostacei scintillanti! Con la mia migliore esca voglio oggi prendere all'amo i più strani pesci umani!
La mia stessa fortuna io getto via per ogni larghezza e lontananza, tra l'oriente, il mezzogiorno e il ponente, per vedere se ad essa non impareranno ad attaccarsi molti pesci umani, finché, abboccando al mio amo aguzzo e nascosto, dovranno lasciarsi tirar sù alla mia altezza, i variopinti abitatori degli abissi; sù, fino al più malvagio di tutti i pescatori di uomini.
Questo infatti sono io fin dal fondo e dal principio, trascinante, attirante, sollevante, un attivatore, un educatore, un allevatore e un correttore, che una volta non disse invano a se stesso: 'Divieni colui che tu sei!'
.Così possano gli uomini venire d'ora in poi quassù da me: poiché io aspetto ancora il segno che è il tempo della mia discesa; non ancora discendo io stesso, come debbo fare una volta, tra gli uomini.
Aspetto qui, astuto e beffardo sulle alte montagne, né impaziente, né paziente, anzi, come uno che abbia disimparato anche la pazienza, perché non è più uno che 'sopporta'.
Il mio destino infatti mi lascia tempo: mi ha forse dimenticato? O se ne sta seduto dietro un grande masso, all'ombra, a chiappare le mosche?
In realtà, io sono grato per questo al mio eterno destino, che non mi insegue e non mi incalza, ma mi lascia tempo per le sciocchezze e le malignità: tanto che io oggi sono salito su questo alto monte per fare addirittura una pesca.

Ha mai un uomo preso pesci su un alto monte?
E anche se è una follia ciò che io voglio compiere quassù: meglio questa follia piuttosto che divenire laggiù solennemente verde e giallo per l'attesa; uno che recalcitra e freme di rabbia per l'attesa, una santa mugghiante bufera sulle montagne, un impaziente che grida a valle: 'Ascoltate, o vi frusterò con il flagello di Dio!'
Non che io me la prenda per questo con tali iracondi: essi sono tanto buoni da farmi addirittura ridere! Ma debbono essere impazziti, questi grandi strepitanti tamburi, che oggi potranno parlare o mai più!
Sennonché, io e il mio destino non parliamo all'oggi, non parliamo neanche al giammai: noi abbiamo pazienza e tempo in abbondanza per parlare. Poiché una volta quegli dovrà ben venire e non potrà
aver fine.
Chi dovrà un giorno venire e non potrà aver fine? Il nostro grande Hazar, il nostro grande lontano regno dell'Uomo, il regno millenario di Zarathustra.
Quanto può essere lontana questa 'lontananza'? Che m'importa! Non è perciò meno sicura, con entrambi i piedi io sto saldo su questa base, su un'eterna base, sulla dura pietra originaria, questa altissima e durissima montagna primordiale, su cui convengono tutti i venti come su uno spartivento, e chiedo dove? Donde? Verso dove?
E tu ridi, ridi, mia chiara, schietta malvagità! Dagli alti monti rovescia giù il tuo crepitante riso di ironia! Ed attirami con il tuo luccichio i più begli uomini-pesce!
E ciò che in tutti i mari mi appartiene, ciò che è in sé e per sé mio in tutte le cose, pescamelo fuori, conducimelo sù: lo attendo, il più maligno di tutti i pescatori.
Fuori, fuori miei ami! Dentro, giù, esche della mia felicità! Vedi la tua più dolce rugiada, o miele del mio cuore! Mordi, mio amo, il ventre di tutta la nera tribolazione!
Fuori, fuori, mio occhio! Oh, quanti mai mari intorno a me, quali crepuscoli di umani tempi a venire! E sopra di me, quale rosea calma! Qual silenzio senza nubi!

IL GRIDO DI DOLORE

Il giorno seguente sedeva di nuovo Zarathustra sulla sua pietra davanti alla grotta, mentre gli animali là fuori se ne andavano per il mondo, per portare a casa nuovo cibo, ed anche nuovo miele: poiché Zarathustra aveva consumato il vecchio miele fino all'ultimo grano. Ma mentre in tal modo stava seduto con uno stecco in mano, e tracciava sul terreno il contorno dell'ombra della sua figura, meditando non certo su di sé e la sua ombra, sobbalzò d'un tratto ed ebbe un brivido: perché vide accanto alla sua anche un'altra ombra. E come d'un tratto si guardò intorno e si levò in piedi, ecco che vide accanto a sé l'indovino, quel medesimo che egli un giorno aveva accolto, nutrito e dissetato alla sua tavola, l'annunciatore della grande stanchezza, il quale insegnava: Tutto è uguale, nulla vale la pena, il mondo è senza senso, il sapere strozza. Ma il suo volto si era frattanto trasformato; e quando Zarathustra lo guardò negli occhi, il suo cuore ne ricevette di nuovo spavento: tanti cattivi preannunci e grigi lampi percorrevano quel volto.
L'indovino, che si accorse di ciò che trascorreva nell'animo di Zarathustra, si passò la mano sulla faccia, come se volesse levar via le tracce; e la medesima cosa fece anche Zarathustra. E quando entrambi in tal modo si furono in silenzio ripresi e furono per così dire tornati in sé, si diedero la mano, in segno di volersi veramente riconoscere.
Sii benvenuto - disse Zarathustra - tu, profeta della grande stanchezza, non devi essere stato invano un giorno ospite alla mia tavola. Mangia e bevi anche oggi con me e perdona se un vecchio uomo allegro e contento siede con te! Un vecchio uomo allegro e contento? rispose l'indovino, tentennando il capo. Ma ciò che tu sei lo vuoi essere, o Zarathustra, lo sei stato da infinito tempo quassù; il tuo vascello tra breve non starà più in secca. Sto forse in secca? chiese Zarathustra ridendo. Le onde intorno alla tua montagna - rispose l'indovino - salgono e montano, le onde del grande dolore e della grande contrizione: presto solleveranno anche la tua barchetta ,e ti trascineranno via. Zarathustra tacque a quel punto, e si meravigliò. Non senti ancora nulla? continuò l'indovino. Come vien sù rumore e mormorio dall'abisso? Zarathustra continuò a tacere e si mise ad ascoltare: allora udì un lungo, lungo grido, che gli abissi si rimandavano l'un l'altro perché nessuno lo voleva trattenere: tanto suonava malvagio.
O malvagio annunciatore - disse infine Zarathustra - questo è un grido di dolore, il grido di un uomo che certamente giunge da un nero mare. Ma che cosa importa a me del dolore dell'uomo! Il mio ultimo peccato, che mi rimase risparmiato, sai tu come si chiama?
Compassione! rispose l'indovino dalla pienezza del suo cuore, e sollevò entrambe le mani. O Zarathustra, io vengo per condurti verso il, tuo ultimo peccato!
Appena ebbe dette queste parole, risuonò di nuovo echeggiando il grido, più a lungo e più angoscioso che mai, e molto più vicino.
Senti? ascolti, o Zarathustra? gridò l'indovino. Il grido è per te, te chiama: vieni, vieni, vieni! è tempo, è giunto il momento!
Zarathustra tacque, confuso e scosso; infine chiese, come uno che indugia in se stesso:
E chi è colui, che mi chiama?
Ma tu lo sai già - rispose subito l'indovino. - Perché simuli? È l'Uomo Superiore, che ti chiama!
L'Uomo Superiore! gridò Zarathustra, preso da orrore. Che vuol costui? Che vuol costui? L'Uomo Superiore. Che vuole qui? e la sua pelle si copriva di sudore.
L'indovino non - rispose allo spavento di Zarathustra, ma continuava ancora ad ascoltare, tendendo l'orecchio verso l'abisso. Ma dopo che ebbe taciuto per un pezzo, rivolse lo sguardo e vide Zarathustra che stava in piedi e tremava.
O Zarathustra - cominciò con voce mesta - tu non stai in piedi come uno che la sua felicità fa danzare: tu dovrai danzare, attento a non cadere morto!
Ma se tu anche volessi danzare davanti a me e saltare tutti i tuoi capricci, nessuno mi deve ancora venire a dire: 'Ecco, è l'ultimo uomo contento che danza!'
Invano giungerebbe qualcuno a questa altitudine per cercarlo: troverebbe grotte e retrogrotte, nascondigli e nascondigli, ma non miniere di gioia né camere di tesori né nuove vene d'oro di felicità.

Felicità: come potrebbe trovarsi la felicità presso sepolti vivi e solitari di questo genere! Devo forse andare a cercare l'ultima felicità nelle Isole Felici e lontano fra dimenticati mari?
No. Tutto è uguale, nulla vale la pena, non serve alcun cercare, non ci sono neanche più Isole Felici!
Così sospirava l'indovino; ma al suo ultimo sospiro, Zarathustra divenne di nuovo lucido e sicuro, simile ad uno che da una profonda caverna vien sù alla luce.
No! no! no! - gridò con voce forte, carezzandosi la barba. Questo lo so meglio io! Vi sono ancora Isole Felici! Non parlare di ciò, tu, tristo sacco di sospiri!
Smetti di chiacchierarne, tu nuvola di pioggia antimeridiana! Non ci sono io qui, bagnato della tua tribolazione, fradicio come un cane?
Ora io mi scuoto e me ne vado, per asciugarmi: non sorprenderti per questo! Ti sembro forse scortese? Qui è la mia corte.
E per quanto riguarda il tuo uomo Superiore: bene! Lo cerco subito in quelle foreste: di là giunse il grido. Forse lo spaventa un animale malvagio.
È nel mio regno: e qui non mi deve far del male! Davvero ci sono molti cattivi animali presso di me.
Con queste parole Zarathustra si voltò per andarsene. Allora disse l'indovino: O Zarathustra sei un briccone! Lo so già: ti vuoi liberare di me! Faresti meglio a correre nei boschi e dar la caccia ai cattivi animali!
Ma che cosa si può fare con te? A sera dovrai pur ristare con me; nella tua caverna verrò a sedermi, paziente e pesante come un macigno e ti attenderò!

E sia! gridò Zarathustra di nuovo, nell'atto di andarsene. Ciò che è mio nella mia caverna appartiene anche a te, ospite e amico mio!
Ma tu dovresti trovarvi ancora del miele, bene! E allora leccalo, tu brontolone, e addolcisci la tua anima! Stasera vogliamo esser bene disposti l'uno con l'altro, cordiali e lieti, perché il giorno sarà finito! E tu stesso devi danzare sui miei canti come il mio orso ammaestrato.
Non ci credi? Scuoti la testa? Bene! Bene! Vecchi orso mio! Ma anche io sono un indovino.

Così parlò Zarathustra.

CONVERSAZIONE CON I RE

1

Zarathustra non era ancora da un'ora in cammino pei suoi monti e boschi che ad un tratto vide uno strano corteo. Proprio per la via per la quale era incamminato, giungevano due re adorni di corone e di cinture purpuree, variopinti come fenicotteri: e spingevano davanti a sé un asino carico. Che vogliono questi re nel mio regno? disse Zarathustra sorpreso al suo cuore, e si nascose subito dietro un cespuglio. Ma quando i re gli passarono davanti, esclamò, a mezza voce, come uno che parla soltanto a se stesso: Strano! strano! Ma come possono stare insieme queste cose? Due re, vedo, e solo un asino!
Allora i due re si fermarono, sorrisero, volsero l'occhio verso il punto da cui proveniva la voce, e si guardarono reciprocamente in volto. Cose di questo genere le pensiamo anche fra di noi, disse il re che stava alla destra - ma non le diciamo.
Il re che stava alla sinistra scosse le spalle e rispose:
Può essere un pastore di pecore oppure un solitario che ha vissuto troppo tempo fra alberi e rocce. Non avere nessuna compagnia guasta anche i buoni costumi.
I buoni costumi? ribatté di mala voglia e amaro l'altro re. Ma da chi vogliamo fuggire? Non forse appunto dai 'buoni costumi'? dalla nostra 'buona società'?
Meglio in verità vivere tra eremiti e pastori che in mezzo alla nostra falsa plebe dorata e azzimata, anche se si dice 'buona società'; anche se si proclama 'nobiltà'. Perché tutto è in essa falso e marcio, e prima di ogni cosa il sangue, grazie a vecchie, brutte malattie e più brutti guaritori.
Il migliore e più gradito oggi è per me un sano contadino, rozzo, astuto, tetragono, caparbio: questa è oggi la specie migliore.
Il contadino è oggi l'uomo migliore; ed è la razza dei contadini che dovrebbe dominare!
E invece domina la plebe; ma io non mi faccio ingannare. Plebe significa: guazzabuglio.
Guazzabuglio plebeo: tutto vi è sottosopra, una confusione di santi e di imbroglioni e di nobilotti e di giudei e d'ogni altra specie del bestiame dell'arca di Noè.
Buoni costumi! Tutto da noi è falso e marcio. Nessuno sa più adorare: proprio costui sfuggiamo. Sono dolciastri cani appiccicosi, e indorano le foglie di palma.
Lo schifo mi assale per il fatto che anche noi re siamo divenuti falsi, carichi di paccottiglia e travestiti col vecchio lusso ingiallito dei vecchi nonni, coperti di medaglie false per i più sciocchi e per i più furbi e per tutti coloro che oggi comunque mercanteggiano con la forza!
Non siamo i primi, eppure dobbiamo rappresentare: di questa impostura ne abbiamo piene le tasche.
Alla massa siamo sfuggiti, a tutti questi starnazzatori e scribacchiatori, mosche noiose, puzzo di mercatura, smanacciate d'orgoglio, cattivo fiato; pfui, vivere tra la massa, pfui, far la parte dei primi tra la massa! che schifo! che schifo! che schifo! Che cosa rimane a noi re!

Ecco che ora ti riprende la tua vecchia malattia - disse a questo punto il re di sinistra - ti sopraffà lo schifo, mio povero fratello. Ma tu sai bene che uno ci sta ascoltando.
Subito Zarathustra, che aveva aperto tanto d'orecchi e d'occhi a questi discorsi, si alzò dal suo nascondiglio e si presentò ai re:
Chi vi ascolta, e vi ascolta volentieri, o voi re, si chiama Zarathustra.
Io sono Zarathustra che una volta disse: 'Che rimane ancora ai re?' Perdonatemi, ma io mi sono rallegrato quando dicevate tra di voi: 'Che cosa rimane a noi re?'
Sennonché, qui è il mio regno e la mia signoria: che state cercando nel mio regno? Forse però avete trovato per strada ciò che io vo cercando: l'Uomo Superiore.

Quando i re udirono questo, si batterono il petto ed esclamarono ad una voce:
Siamo scoperti!
Con la spada di questa parola tu squarci la notte scura del nostro cuore. Tu hai scoperto la nostra angoscia, perché, vedi, siamo in cammino per cercare l'Uomo Superiore; l'uomo che stia al di sopra di noi: anche se noi siamo re.
A lui vogliamo condurre quest'asino. L'Uomo Superiore deve essere appunto sulla terra anche il più alto signore.

In tutti i destini umani non c'è peggiore disgrazia che se i potenti della terra non sono anche i primi tra gli uomini. Tutto in tal caso diventa falso, distorto e mostruoso.
Ché se sono gli ultimi, e più bestie che uomini, ecco che la plebaglia aumenta di prezzo, e infine la virtù plebea si leva ad affermare: 'Io soltanto sono la virtù!'
Che ho udito mai? rispose Zarathustra. - Quanta saggezza nei re! Sono estasiato, e proprio mi fa piacere farci sopra una rima; anche se verrà fuori una rima non adatta alle orecchie di ognuno. È già da tanto tempo che ho perduto la stima per le orecchie lunghe. Bene! Avanti!
(Ma a questo punto successe che anche l'asino prese a parlare: e disse chiaramente e di cattiva voglia: I-A.)

Un giorno - nell'anno uno di salute
la sibilla parlò piena di vino:
Guai, tutto va a rovescio!
Male! Il mondo non scese mai più in basso!
Puttana è Roma, e nido di puttane;
Bestia è l'imperatore, e Dio un giudeo!

2

All'udire queste rime di Zarathustra i re si divertirono molto; ma il re di destra disse: O Zarathustra, come abbiamo fatto bene a metterci in cammino per vederti!
I tuoi nemici, infatti, ci mostrarono la tua immagine nei loro specchi: dove tu apparivi con la maschera di un demonio e con un'aria canzonatoria: così che noi avevamo paura di te.
Ma a che cosa è giovato! Sempre ci pungevi le orecchie e il cuore con le tue sentenze. E alla fine dicemmo: che cosa ci importa il suo aspetto!
Noi dobbiamo ascoltare lui, lui che insegna: 'Voi dovete amare la pace soltanto come mezzo per nuove guerre, la pace breve più che la lunga!'
Nessuno pronunciò mai parole più guerriere:
'Che cosa è buono? Essere valorosi è buono. La buona guerra è ciò che santifica ogni cosa'.

O Zarathustra, il sangue dei nostri padri si mescolò a queste parole nel nostro corpo: fu come la voce della primavera per le vecchie botti di vino.
Quando le spade si intrecciavano simili a serpi dalle macchie rosse, allora i nostri padri trovavano bella la vita; ogni sole di pace sembrava loro debole e tiepido, e la lunga tregua faceva loro vergogna.
Come sospiravano, i nostri padri, quando alle pareti vedevano scintillare le lucide spade asciutte!
Come esse, erano assetati di guerra. Una spada infatti scintilla dal desiderio di bere sangue.

Mentre i re in tal modo parlavano e chiacchieravano con fervore della felicità dei loro padri, Zarathustra fu preso da una gran voglia di prendere in giro quel loro accalorarsi: poiché quei re davanti a lui erano chiaramente pacifici, con i loro volti vecchi e raffinati. Ma si trattenne.
Bene! disse. - La strada conduce lassù dove si trova la caverna di Zarathustra; questo giorno deve avere una lunga sera! Senonché, ora un grido di aiuto mi chiama lontano da voi.
Sarà onorata la mia caverna, se voi re vorrete sedervi in essa ed aspettarmi: ma, certo, dovreste aspettare a lungo!
Ciò nondimeno, che importa! Dove oggi si impara meglio ad aspettare che a corte? E tutta la virtù che è rimasta ai re, non si chiama oggi: 'saper attendere'?

Così parlò Zarathustra.

LA SANGUISUGA

E Zarathustra proseguì pensieroso più oltre, addentrandosi nei boschi e passando per terreni paludosi; e come accade a coloro che riflettono su cose gravi, pose il piede senza accorgersene su un uomo. Ed ecco che ad un tratto un grido di dolore e due bestemmie e venti parole ingiuriose gli spruzzarono in viso: così che lui, spaventato, alzò il bastone e picchiò colui che già aveva calpestato. Poi subito riflette; e il suo cuore rise della sciocchezza che aveva fatto.
Perdona - disse al calpestato, che rabbioso si era rialzato e seduto - perdona; e ascolta anzitutto una similitudine.
Come un viandante che sognando cose lontane, all'improvviso in una strada solitaria inciampa in un cane che dorme, un cane che giace al sole: come allora entrambi sono presi da rabbia e si assalgono, come nemici mortali, tutti e due spaventati a morte: così è accaduto a noi.
E tuttavia! Tuttavia, quanto poco mancò che non si accarezzassero, quel cane e quel solitario! Non sono forse entrambi solitari?
Chiunque tu possa essere - disse sempre rabbioso il calpestato - mi calpesti ora anche con la tua similitudine, e non soltanto con il tuo piede! Guardami, sono forse un cane? Così dicendo si sollevò ed estrasse dalla palude il suo braccio nudo. Prima infatti giaceva allungato al suolo, nascosto e irriconoscibile, simile a coloro che spiano la selvaggina palustre.
Ma che cosa stai facendo? gridò Zarathustra spaventato, poiché aveva visto che dal braccio nudo fluiva molto sangue. Che cosa ti è successo? Ti ha morso, infelice, una bestia malvagia?
Il sanguinante sorrise, ma sempre furioso.
Che cosa ti importa! esclamò, e fece per andarsene. Qui sono a casa mia e nei miei confini. Mi può interrogare chi vuole: ma difficilmente risponderò a uno sciocco.
Ti sbagli - disse Zarathustra pietosamente, e lo tenne fermo; - ti sbagli: qui non sei a casa tua, bensì nel mio regno, e non voglio che nessuno, qui, subisca danno.
Ma comunque chiamami come vuoi; io sono colui che devo essere. E mi chiamo Zarathustra.
Vedi! Lassù la strada conduce alla caverna di Zarathustra: essa non è lontana; non vuoi curare presso di me le tue ferite?
Ti è andata male in questa vita, o infelice: prima ti ha morso la bestia, e poi ti ha calpestato l'uomo!

Come colui che era stato calpestato udì il nome di Zarathustra, si mutò in volto.
Che cosa mi accade! esclamò. Di chi mi importa ancora in questa vita, se non di questo solo, di Zarathustra, e di un animale che vive di sangue, la sanguisuga?
P
er amore delle sanguisughe, io giacevo qui in questa palude come un pescatore, e già il mio braccio era stato esposto per dieci volte al morso, quando la più bella sanguisuga è venuta a succhiare il mio sangue, Zarathustra stesso! O felicità! O meraviglia! Sia lodato questo giorno che mi ha attirato in questa palude! Sia lodata la miglior ventosa vivente, sia lodata la grande sanguisuga della coscienza, Zarathustra! Così parlò il calpestato; e Zarathustra si rallegrò delle sue parole e del modo fihe e rispettoso con cui le aveva proferite. Chi sei? domandò, e gli porse la mano. - Tra noi due rimangono da chiarire e rasserenare molte cose: ma già, mi sembra, spunta un chiaro, luminoso giorno.
Io sono il coscienzioso dello spirito, - rispose l'interrogato, - e nelle cose dello spirito non c'è nessuno più severo, scrupoloso e duro di me, tranne colui a dal quale io ho appreso, Zarathustra stesso. Meglio non sapere che sapere molte cose a metà!
Meglio essere un pazzo di propria testa, che un saggio a discrezione altrui! Io vado al fondo: che cosa importa se esso è grande o piccolo? Se si chiama palude o cielo? Mi è sufficiente un fondo largo una mano: purché sia proprio fondo a dovere! Un fondo largo come una mano: anche su di esso si può stare in piedi. Nella giusta coscienza del sapere non c'è né grande né piccolo.
Così tu sei forse il conoscitore della sanguisuga? domandò Zarathustra. - E segui la sanguisuga fino nel fondo estremo, o coscienzioso?
O Zarathustra, rispose il calpestato - questa sarebbe un'enormità: come potrei osare ciò? Io sono maestro e conoscitore di ciò che è il cervello della sanguisuga: questo è Il mio mondo! Ed è certo un mondo! Ma permetti che qui il mio orgoglio prenda la parola, poiché in ciò io non ho miei pari. Per questo ho detto che qui sono a casa mia.
Da quanto tempo vado dietro a quest'unica cosa, il cervello-della sanguisuga, perché la viscida verità non mi scivoli più di mano! Qui è il mio regno!
Per questo ho gettato via tutto il resto, per questo tutto il resto m'è divenuto indifferente; accanto alla mia saggezza giace la mia nera ignoranza.
La mia coscienza delle cose dello spirito esige questo da me, che io sappia una sola cosa e ignori tutto il resto: mi fanno schifo tutti i mediocri dello spirito, tutti i vaporosi, i vacillanti, gli esaltati.
Dove la mia lealtà cessa, io sono cieco e voglio anche esser cieco. Ma dove voglio sapere, voglio essere anche leale, cioè duro, severo, limitato, crudele, inesorabile.
Ciò che tu dicesti un giorno, o Zarathustra:
'Spirito è la vita, che incide se stessa nella vita', questo mi attrasse e mi condusse verso la tua dottrina.
E in realtà è con il mio stesso sangue che ho accresciuto il mio sapere!

Come infatti si vede - lo interruppe Zarathustra; - poiché il sangue fluiva ancora dal braccio nudo del coscienzioso. Dieci sanguisughe vi si erano attaccate.
O tu, strano compagno, quante cose mi insegna questo spettacolo, cioè la tua presenza! Non tutto forse potrei riversare nei tuoi orecchi severi!
Ebbene! Separiamoci qui! Ma desidererei volentieri ritrovarti. Lassù la strada conduce alla mia caverna: questa notte tu devi essere il mio ospite gradito!

Volentieri desidererei fare del bene al tuo corpo, poiché Zarathustra ti ha calpestato con il piede: ci sto pensando. Ma ora un grido di dolore mi chiama lontano da te.
Così parlò Zarathustra.

IL MAGO

1

Ma quando Zarathustra ebbe girato intorno ad una rupe, allora vide, non lontano sotto di sé, sulla sua stessa strada, un uomo che si dibatteva come un ossesso e infine cadde bocconi a terra. Alto là! disse Zarathustra al suo cuore. Quello deve essere proprio l'Uomo Superiore, dal quale mi giungeva quel tristo grido di dolore; voglio vedere se posso aiutarlo. Ma come arrivò sul luogo dove l'uomo giaceva, trovò un vecchio tremante con gli occhi sbarrati; e per quanto Zarathustra si affaticasse per sollevarlo e metterlo di nuovo in piedi sulle sue gambe, i suoi sforzi furono vani. L'infelice neppure si accorse che qualcuno era accanto a lui: continuava a guardarsi intorno con atteggiamento disperato come uno abbandonato da tutto il mondo. Ma alla fine dopo molto tremare, scuotersi e smaniare, cominciò a lamentarsi così:

Chi mi riscalda, chi ancora mi ama?
Datemi calde mani!

Date un braciere al cuore!
Allungato al suolo, assalito da brividi,
simile a un moribondo cui si scaldano i piedi,
scosso e percosso, ahimè! da ignota febbre,
e tremando di acute punte e gelo,
da te inseguito, pensiero!
Occulto! innominabile! tremendo!
Tu, cacciatore in corsa dietro le nubi!
Folgorato da te,
occhio sprezzante, che guata dal buio: così io giaccio qui,
mi piego, mi torco, e sono tormentato

dagli eterni martiri,
colpito io sono ormai
da te, tremendo cacciatore Iddio,
da te, mio ignoto Nume!

Colpisci ancora più a fondo!
Colpisci ormai per bene!
Fora, frangi il mio cuore!
A che questo martirio
mio con frecce spuntate?
Ché torni tu a guardare,
e sempre a tormentare
coi tuoi divini occhi lampeggianti?
Non uccidere vuoi,
solo martirizzare?
A che sacrificarmi,
o tu, maligno, sconosciuto Iddio?

Ah! dunque vieni fuori?
In questa mezzanotte
che vuoi tu dunque?
parla! Tu mi spingi e comprimi,
sei già troppo vicino!
Va' via! Va' via!
Senti tu ch'io respiro,
ascolti il cuore mio,
tu, geloso, perché dunque geloso?
Va' via! Perché la scala
porti? vuoi tu lì dentro,
nel fondo del mio cuore
discendere, e laggiù, nei più segreti
pensieri penetrare?
Tu, spudorato! sconosciuto! ladro!
Che vuoi tu trafugare?
Che vuoi tu qui ascoltare?
Che vuoi tu tormentare,
tormentatore mio,
tu, carnefice-Iddio?
O debbo io, pari al cane,
rotolarmi a te innanzi?
Ebbro, fuori di me,
scodinzolarti amore?

Invano! Colpisci ancora,
orrendo pungiglione!
Non un cane; tua selvaggina io sono,
crudele cacciatore!
Tuo prigione più altero,
o predone che stai
dietro le nubi!
Parla! Che vuoi tu, grassatore, mai da me?
Tu nei fulmini avvolto! Ignoto! Parla:
che vuoi qui mai, tu, sconosciuto Iddio?

Come? Un riscatto?
Che vuoi tu per riscatto?
Pretendi molto - questo ti consiglia il mio orgoglio -
e parla breve, ancora!
Ah, ah! Vuoi tu Me?
Me, tutto me?

Ah, ah!
E mi torturi, folle che tu sei,
martirizzi il mio orgoglio?
Dà amore a me; chi ancora mi riscalda?
Chi m'ama ancora? Dammi calde mani!
Dammi bracieri al cuore,
dona a me, solitario,
a cui anche il ghiaccio, un settemplice ghiaccio,
insegna già ad amare,
ad amare persino i suoi nemici,
dona, sì, dona,
terribile nemico, te a me!

Via dunque!
È fuggito anche lui,
il mio ultimo e solo mio compagno,
il mio grande nemico,
lo sconosciuto mio
carnefice-Iddio!

No! Torna indietro,
con tutti i tuoi martìri!
All'ultimo eremita
ritorna tu ancora!
Tutti i torrenti del mio pianto corrono
a fiotti verso te!
E l'ultima fiammata del mio cuore
fiammeggia per te!
Oh, torna ancora,
mio sconosciuto Iddio! Mio dolore! Ultima mia felicità!

2

Ma a questo punto Zarathustra non poté trattenersi più a lungo, prese il bastone e colpì a tutta forza colui che si lamentava. Basta! gli gridò con un riso corrucciato. Basta, commediante! Falsario! Bugiardo! Io ti conosco bene! Io ti voglio riscaldare le gambe, o malvagio mago, so bene come si fa a riscaldare tipi come te! Smetti ribatté il vecchio e si tirò sù da terra; non picchiare più, o Zarathustra! Ho fatto così solo per gioco! Cose di questo genere appartengono al mio mestiere; volevo metterti alla prova, quando ti ho dato questo saggio! E, in realtà, tu hai visto bene in fondo ame! r
Ma anche tu non mi hai dato una non piccola prova di te: tu sei duro, o saggio Zarathustra! Colpisci duramente con le tue 'verità'; il tuo bastone mi strappa questa verità!

Non adulare rispose Zarathustra, ancor sempre eccitato e accigliato; tu, commediante da capo a piedi! Sei falso: che cosa parli di verità!
Pavone dei pavoni, mare di vanità, che cosa hai recitato davanti a me, o malvagio mago, a chi dovevo credere mentre tu ti lamentavi in tal forma?

Io recitavo la parte del penitente dello spirito, disse il vecchio uomo: tu stesso inventasti un giorno questa parola; il poeta e il mago che infine volge contro se stesso il suo spirito, il trasfigurato che muore assiderato per la sua cattiva sapienza e coscienza.
E confessa dunque, o Zarathustra: c'è voluto tempo finché tu giungessi a scoprire la mia arte e la mia bugia! Tu hai creduto nel mio bisogno, quando mi tenevi sollevata la testa con entrambe le mani, ti udivo gemere: 'Lo si è amato troppo poco, troppo poco!' Che io ti avessi ingannato fino a tanto, di ciò si rallegrava la mia malvagità.
Tu potrai avere ingannato anche dei più astuti di me, disse duro Zarathustra. Io non sto in guardia contro gli ingannatori, devo evitare la prudenza: così vuole il mio destino.
Invece tu devi ingannare: per quanto ti conosco! Bisogna interpretarti in due, tre, quattro e cinque modi! Anche ciò che tu ora hai confessato, non è secondo me né abbastanza vero né abbastanza falso!
Malvagio falsificatore, come potresti fare altrimenti! Truccheresti anche la tua malattia, se dovessi mostrarti nudo al tuo medico.
Così hai truccato la tua menzogna quando hai detto: 'L'ho fatto soltanto per gioco!' No, invece c'era anche della serietà, tu sei - fra l'altro anche un penitente dello spirito!
Io indovino quel che tu sei: ti sei mostrato a tutti come un incantatore, ma per te non hai più né bugie né astuzia; per te sei un disincantato!
Come tua unica verità hai raccolto schifo. Nessuna parola in te è schietta, ma solo la tua bocca: cioè lo schifo che è attaccato alla tua bocca.
Chi sei dunque? gridò allora il vecchio mago con voce arrogante. Chi può parlare così a me, il più grande di coloro che oggi vivono? E dai suoi occhi lanciò un lampo verde su Zarathustra. Ma subito si trasformò, e disse tristemente:
O Zarathustra, io sono stanco, ho schifo delle mie magie, non sono un grande; perché fingere a me stesso? Ma tu lo sai: io ho comunque cercato la grandezza!
Ho voluto rappresentare la parte di un grande uomo e ho convinto molti: ma questa menzogna ha finito per vincere le mie forze. Contro di lei mi sono infranto.
O Zarathustra, tutto è menzogna in me, ma che io sia infranto, questo è vero!

Ti fa onore - disse Zarathustra cupo e chinando lo sguardo a terra di lato - ti fa onore aver cercato la grandezza, ma anche ti tradisce. Tu non sei un grande.
Vecchio mago malvagio, questa è la tua cosa migliore e più onesta, ciò che io onoro in te, che tu ti sia stancato di te e abbia confessato: 'Io non sono grande'.
Perciò ti onoro come un penitente dello spirito: e anche se soltanto per il soffio di un attimo, per quel solo attimo tu sei stato onesto.
Ma dimmi, che cosa cerchi qui fra le mie foreste e rocce? E quando mi ti sei posto sul cammino, quale prova volevi da me? in che cosa mi volevi tentare?

Così parlò Zarathustra, e i suoi occhi scintillavano. Il vecchio mago tacque un momento, poi disse:
Ti ho tentato! Io cerco soltanto.
O Zarathustra, io cerco un sincero, un giusto, un semplice, un univoco, un uomo di tutta rettitudine, un vaso di saggezza, un santo della conoscenza, un grande uomo!
Non sai dunque, o Zarathustra? Io cerco Zarathustra.

A questo punto si sospese un lungo silenzio tra i due: Zarathustra si immerse profondamente in se stesso, così che chiuse gli occhi. Ma poi, ritornando al suo interlocutore, afferrò la mano del mago e disse, pieno di gentilezza e malizia:
Ebbene! Lassù la strada conduce dove si trova la caverna di Zarathustra. Là tu puoi cercare chi desideri trovare.
Domanda consiglio ai miei animali, alla mia aquila e al mio serpente: essi possono aiutarti a cercare. Ma la mia caverna è grande.
Io stesso, in verità, non ho ancora visto un uomo grande. Per tutto ciò che è grande, anche l'occhio dei più raffinati oggi è grossolano! È il regno della plebe.
Ho incontrato già più d'uno che si allungava e si gonfiava, e il popolo gridava: 'Ecco un grand'uomo!' Ma a che cosa servono i mantici! Alla fine il vento scappa fuori.
Alla fine scoppia la rana che si è troppo gonfiata: e il vento sfugge. Bucare la pancia di un presuntuoso, ecco un bel trastullo. Ascoltate, ragazzi!
Questo è il giorno della plebe: chi sa ancora ciò che è grande e ciò che è piccolo? Chi ha cercato la grandezza con fortuna! Un pazzo soltanto: solo i pazzi sono fortunati.
Tu cerchi i grandi uomini, o pazzo bizzarro? Chi ti ha insegnato? E oggi tempo per questo? O malvagio cercatore, perché mi tenti?

Così parlò Zarathustra, sollevato - nel cuore, e ridendo andò avanti per la sua strada.

FUORI SERVIZIO

Ma non molto tempo dopo che Zarathustra s'era liberato del mago, scorse di nuovo qualcuno che sedeva lungo la strada per la quale andava, e precisamente un uomo alto e nero con un volto pallido e smunto: e francamente ne rimase molto turbato. Guai - disse al suo cuore: ecco che là sta seduta l'inquietudine mummificata; mi sembra quasi della specie dei preti: che vogliono essi nel mio regno?
Come! Appena sono sfuggito a quel mago: ed ora deve venirmi a tagliare la strada un altro artefice d'arti magiche, una specie di maestro di stregoneria e guaritore, un oscuro facitore di miracoli da parte di Dio, un unto del Signore, un rinnegatore del mondo, che se lo possa prendere il diavolo!
Ma il diavolo non è mai al posto dove dev'essere: giunge sempre troppo tardi, questo maledetto nano e diavolo zoppo!
Così malediva Zarathustra, impaziente nel suo cuore, e stava meditando come fare a sfuggire torcendo lo sguardo via dall'uomo nero: ma guarda un po', le cose andarono in un altro modo. Nel medesimo istante quell'uomo seduto l'aveva scorto; e non diversamente da chi si imbatte in una felicità inattesa, s'alzò e andò diritto come un razzo verso Zarathustra.
Sia chi tu sia, vagabondo - gli disse - porgi aiuto ad un disgraziato, un cercatore, un vecchio uomo, ché altrimenti gli capita qualche guaio!
Questo mondo mi è estraneo e lontano, e vi ho sentito anche ululare delle belve; e colui che mi avrebbe potuto offrire un rifugio non c'è più.
Stavo cercando l'ultimo uomo pio, un santo ed anacoreta, che, solo nella sua foresta, non abbia udito ancora nulla di ciò che oggi sa ognuno.
Che cosa sa oggi ognuno? - chiese Zarathustra.
Su per giù questo, che il vecchio Dio a cui un giorno ognuno credeva, non c'è più?
Tu lo dici - rispose turbato il vecchio. - E io che ho servito questo vecchio Dio fino all'ultima ora!
Ma ora sono fuori servizio, senza Signore, e tuttavia non sono libero, né allegro neanche per una ora, neppure se mi perdo nei ricordi.
Perciò sono salito su queste montagne, per farmi infine da me stesso una festa di quelle che garbavano ai vecchi papi e padri della chiesa: perché, se lo vuoi sapere, io sono l'ultimo papa! Una festa, dico io, di pie ricordanze e servizi divini.
Senonché, ora è morto anche lui, l'uomo più pio, quel santo della foresta che continuamente lodava il suo dio con canti e mormorii.

Non l'ho trovato più, quando ho ritrovato la sua capanna; però c'erano dentro due lupi che ululavano lamentando la sua morte, perché tutti gli animali lo amavano. Allora me ne sono andato.
Son dunque venuto invano in queste foreste e montagne? ho pensato. Allora il mio cuore si è deciso a cercarne un altro, il più religioso di tutti coloro che non credono in Dio; cioè a cercare Zarathustra!
Così parlò il vecchio, e guardò con occhio attento colui che gli stava davanti; ma Zarathustra afferrò la mano del vecchio papa e stette a lungo a guardarlo ammirato.
Vedi là, tu, santità - esclamò poi - che mano bella e lunga! È la mano di un individuo che ha sempre dispensato benedizioni. Ma ora la tiene stretta colui che tu cerchi, cioè io, Zarathustra.
Io stesso sono l'ateo Zarathustra, che parla, e chi è più ateo di me che io possa rallegrarmi di quanto egli mi dice?
Così parlò Zarathustra e penetrava con i suoi sguardi i pensieri e i segreti interiori del vecchio papa. Infine questi incominciò a dire:
Chi più lo amava e possedeva, ecco che più lo ha perduto: ecco, sono forse ora io stesso di noi due il più ateo? Ma chi potrebbe di ciò rallegrarsi?
Tu l'hai servito fino in fondo - chiese Zarathustra pensoso, dopo un profondo silenzio. - Sai tu come morì? È vero ciò che si dice, che sia morto di compassione, per aver visto come l'uomo pendeva sulla croce, e non aver sopportato che l'amore per l'uomo divenisse il suo inferno e infine la sua morte?
Il vecchio papa non rispose, ma guardò obliquo con un'espressione dolorosa e cupa.
Lascialo andare - disse Zarathustra dopo una lunga meditazione, durante la quale sempre teneva l'occhio fisso nell'occhio del vecchio.
Lascialo andare; ormai non c'è più. E anche se ti fa onore che tu non dica se non bene di questo morto, tuttavia sai altrettanto bene quanto lo so io chi egli era, e che percorse degli strani sentieri.
Detto a tre occhi - disse argutamente il vecchio papa (perché era cieco da un occhio) - nelle cose di Dio ne so più io dello stesso Zarathustra; e può ben essere così. Il mio amore ha servito a lui per tanti anni, la mia volontà ha fatto sempre quanto lui voleva. Un buon servitore sa tutto, e sa anche le cose che il suo padrone spesso nasconde a se stesso.
Era un Dio nascosto, pieno di segreti. Per dir la verità, ad avere un figlio ci arrivò per vie traverse. Alla soglia del suo Credo ci sta un adulterio.
Chi lo celebra come un dio d'amore non ha una grande opinione dell'amore. Non voleva forse questo dio fare anche il giudice? Ma chi ama, ama al di là del premio e della pena.
Quando era giovane, questo dio asiatico era duro e vendicativo e si costruì un inferno a tutto divertimento dei suoi cari.

Alla fine divenne vecchio e tenero e frollo e compassionevole, più simile ad un nonno che ad un padre, ma rassomigliante più di tutto ad una vecchia nonna tentennante. - Stava lì, cadente, nell'angolo della sua stufa, lamentandosi delle sue gambe deboli, stanco di tutto, senza più volontà, finché un giorno venne meno per la sua troppa compassione.
Tu, vecchio papa - insinuò a questo punto Zarathustra - hai visto tutto ciò con i tuoi occhi? Perché potrebbe essere andata così: così, ma anche in altro modo. Quando gli dèi muoiono, muoiono sempre di specie diverse di morte.
Tuttavia! Così o in altro modo, così o cosà, è finito! A me faceva schifo sia a sentirlo che a vederlo; non potrei dir niente di peggio su di lui.
Io amo tutto ciò che guarda e parla schietto e chiaro. Ma lui - tu lo sai, vecchio prete, perché qualcosa del tuo tipo, del tipo del prete, in lui c'era - era malfido.

Ed anche poco chiaro. E come se la prendeva con noi, quel borbottone, perché non lo comprendevamo bene! E allora, perché non parlava più chiaro?
E se la colpa era delle nostre orecchie, perché non ci aveva dato delle orecchie più adatte a cornprenderlo? E se dentro ci avevamo il cerume, chi ce l'aveva messo?

Troppe cose gli sono andate male a quel vasaio; si vede che non ci sapeva fare abbastanza!
Ma che poi si vendicasse anche sui suoi vasi e sulle sue creature, perché gli erano riusciti male, questo poi è proprio un peccato contro il buon gusto.
C'è il buon gusto anche nella pietà religiosa: alla fine, esso esclamò: 'Via, con un dio di questo genere! Meglio nessun dio, meglio crearsi il destino con le proprie mani, meglio esser pazzo, meglio esser noi stessi dio!

Ma che sento! disse a questo punto il vecchio papa aguzzando le orecchie. - O Zarathustra, tu sei più religioso di quanto credi, con la tua miscredenza! Qualche dio dentro di te ti ha convertito al tuo ateismo.
Non è la stessa tua religiosità che non ti lascia più credere ad un dio? La tua enorme schiettezza ti condurrà anche al di là del bene e del male!
Vedi un po' che cosa ti fu mai risparmiato? Tu hai occhi e mani e bocca, che sono predestinate a benedire dall'eternità. Non si benedice soltanto con la mano.
In tua prossimità, anche se tu vuoi essere il più ateo di tutti, io subodoro un sentore dolciastro d'incenso che proviene da lunghe benedizioni: e mi fa sentire bene e male insieme.
Lasciami essere tuo ospite, o Zarathustra, per una sola notte! In nessun luogo della terra potrò star tanto bene come con te!
Amen! Così sia! soggiunse Zarathustra con grande meraviglia. - Lassù è la strada che conduce alla caverna di Zarathustra.
Volentieri ti condurrei io stesso, santità, perché amo tutti gli uomini religiosi, ma ora un grido angoscioso mi richiama lontano da te.

Nel mio regno nessuno deve trovarsi male; la mia caverna è un buon porto. E mi è molto caro accogliere ogni essere triste rimettendolo in piedi e su saldo terreno.
Ma chi può togliere dalle spalle la tua malinconia? Sono troppo debole per questo. A lungo invero dovremmo aspettare, finché qualcuno ti risvegliasse il tuo dio.
Questo vecchio dio appunto non vive più: è definitivamente morto.

IL SACRIFICIO DEL MIELE

E di nuovo i piedi di Zarathustra corsero attraverso montagne e foreste, e i suoi occhi cercavano e cercavano, ma non potevano scorgere da nessuna parte colui che volevano vedere, il grande bisognoso e l'invocante aiuto. Tuttavia, per tutto il cammino, esultava in cuor suo e si sentiva soddisfatto. Quali buone cose - diceva - mi ha donato questo giorno, per compenso d'averlo cominciato male! Quali strani interlocutori ho trovato!
Voglio masticare a lungo le loro parole come fossero del buon grano; il tuo dente le macinerà, e le ridurrà in polvere, finché fluiranno come latte nella mia anima!

Come la strada girò di nuovo intorno ad una rupe, il paesaggio si mutò tutto ad un tratto, e Zarathustra si trovò nel regno della morte. Qui si ergevano verso l'alto scogli neri e rossi: non v'era erba, né alberi, né canti di uccelli. Era infatti una valle che tutte le bestie evitavano, compresi gli animali rapaci; soltanto una brutta specie di serpenti verdi e gonfi, quando diventavano vecchi, venivano lì a morire. Perciò essi la chiamavano: tomba dei serpenti.
Zarathustra fu preso da tetri ricordi poiché aveva l'impressione come di essere già stato un'altra volta in quella valle. E fu colto da una grande pesantezza: così che prese a camminare lentamente, sempre più lentamente, e alla fine si fermò. Allora vide, come alzò gli occhi, accovacciato sulla strada, qualcosa che aveva e non aveva aspetto di uomo, qualcosa di inesprimibile. E si sentì preso da grande vergogna per aver guardato con i suoi occhi una tal cosa: arrossendo fino ai suoi capelli bianchi, distolse lo sguardo e mosse il piede per allontanarsi da quel brutto posto. Ma ecco che quella mortale desolazione cominciò ad animarsi: dal suolo lievitò infatti un gorgoglio e un rantolo, come l'acqua che di notte gorgoglia e rantola attraverso tubi occlusi; infine il rumore si trasformò in una voce d'uomo e in un parlare umano, che diceva così:
Zarathustra! Zarathustra! Sciogli il mio enigma!
Parla, parla! Che cosa è la vendetta contro il testimonio?
Io ti attiro indietro, qui il ghiaccio è liscio! Bada, bada che il tuo orgoglio non si spezzi le gambe!
Tu ti credi saggio, orgoglioso Zarathustra! Sciogli dunque l'enigma, o duro schiacciatore di noci, l'enigma, che io sono! Parla dunque: chi sono io?

Ma come Zarathustra ebbe ascoltato queste parole, che cosa mai credete che accadesse allora alla sua anima? La compassione scese su di lui; e ad un tratto cadde a terra, come cade una quercia che abbia resistito a lungo a molti tagli, pesantemente, improvvisamente, tra il terrore di quelli stessi che volevano farla cadere. Ma subito si rialzò da terra e il suo volto si fece duro.
Ti conosco bene - disse con voce di bronzo: tu sei l'assassino di Dio! Lasciami andare. Non sopportasti colui che ti vedeva, che ti vedeva sempre e in fondo all'anima, bruttissimo uomo! Tu ti vendicasti di quel testimonio!
Così parlò Zarathustra, e voleva andar via; ma l'indescrivibile afferrò un lembo della sua veste e ricominciò a gorgogliare e a cercare le parole.
Resta! disse alla fine - resta! Non passare! Indovino quale scure ti ha atterrato. Salve a te, o Zarathustra, che stai di nuovo in piedi! Tu hai indovinato, lo so bene, come si sente nell'animo colui che lo uccise, l'assassino di Dio. Resta!
Siediti qui vicino a me, non sarà invano. Verso chi volevo andare, se non verso te? Resta, siediti qui! Ma non mi guardare! Rispetta la mia bruttezza! Essi mi perseguitano: soltanto tu sei il mio estremo rifugio. Non con il loro odio, hon con i loro aguzzini: oh, io riderei di tale persecuzione e ne sarei orgoglioso e contento! Il successo non è stato fino ad oggi di tutti i perseguitati? E chi perseguita bene, impara facilmente a seguire: viene a trovarsi dietro alla fine! Ma è la loro compassione, è la loro compassione, dalla quale io fuggo e cerco rifugio in te. O Zarathustra, proteggimi, mio estremo rifugio, l'unico che mi ha capito: tu hai compreso come si sente nell'animo colui che lo uccise. Resta! E se vuoi andare, o impaziente, non andare per la via per la quale io sono venuto. Quella è una via cattiva. Sei in collera con me, perché già da lungo chiacchiero a dritto e rovescio? Perché ti do consigli? Ma sappi, io sono l'uomo pìù brutto, che ha anche i piedi più grandi e più pesanti. Dove sono passato io, la strada è brutta. Io percorro tutté le strade morte e vergognose. Ma poiché tu mi sei passato davanti, tacendo: poiché ho veduto bene che tu sei diventato rosso: perciò ti ho riconosciuto per Zarathustra. Ogni altro mi avrebbe gettato la sua elemosina, la sua compassione, con sguardi e con parole. Ma per questo io non sono abbastanza mendicante, tu l'hai indovinato; sono troppo ricco, ricco di grandezza, di cose terribili, di cose brutte, di cose indicibili! La tua vergogna, o Zarathustra,mi ha onorato! A stento sono venuto fuori dalla ressa dei compassionevoli, per trovare l'unico che oggi insegna 'la compassione è molesta'; cioè te, Zarathustra!
Sia essa un dio, o cosa umana: la compassione va contro il pudore. E il non-voler-aiutare può essere più nobile che ogni virtù che subito scatta per recare aiuto.

Ma questa oggi è chiamata dalla piccola gente virtù per eccellenza, la compassione: la piccola gente non ha rispetto per la grande sfortuna, per la grande bruttezza, il grande esito infelice.
Io guardo al di là di tutta questa gente, come il cane guarda oltre il dorso delle pecore brulicanti. E piccola gente grigia, di buona lana e buona volontà.
Come un airone volge l'occhio disdegnoso oltre le piatte paludi, con la testa all'indietro: così spingo lo sguardo oltre il brulichìo delle piccole onde grige e delle piccole anime e volontà.

Troppo a lungo si è dato ragione a questa gente piccina: si è finito così per dar loro anche il potere, ed ora essi insegnano che 'è buono soltanto ciò che la gente piccina chiama buono'.
E 'verità' si chiama oggi ciò che disse il predicatore che sorse da loro stessi, quello strano santo e intercessore della gente piccina, che proclamò di sé:
'Io sono la verità'.
Quel presuntuoso già da lungo tempo ha fatto rizzar la cresta alla gente piccina, lui eire diffondeva un grande errore insegnando: 'Io sono la verità'.
Ad un presuntuoso è stato mai risposto più cortesemente? Ma tu, o Zarathustra, andasti oltre di lui e dicesti: 'No! No! Tre volte no!'
Tu ci mettesti in guardia dal suo errore, tu per primo ci mettesti in guardia contro la compassione; non tutti, né nessuno, bensì tu e quelli della tua specie.
Tu ti vergogni della vergogna del grande sofferente; proprio quando dici: 'Dalla compassione viene una grande nuvola; attenti, o uomini!'
Quando insegni: 'Tutti i creatori sono duri, ogni grande amore va oltre la loro compassione': o Zarathustra, come mi sembri conoscere bene i segni del tempo!

Ma tu stesso guardati dalla tua stessa compassione! Perché molti sono in cammino verso di te, molti sofferenti, dubbiosi, disperati, molti che stanno per annegare, molti che patiscono il freddo.
Ti dico persino di guardarti anche da me. Hai indovinato qual è il mio migliore e peggiore enigma, me stesso e ciò che ho fatto. Conosco la scure che ti abbatterà.
Ma egli doveva morire: egli vedeva con occhi che vedono tutto, egli vedeva il fondo e l'abisso dell'uomo, tutte le sue vergogne e brutture nascoste.
La sua compassione non conosceva vergogna: penetrò nei miei angoli più sporchi. Doveva morire quell'uomo troppo curioso, troppo insinuante, troppo compassionevole.
Mi vedeva sempre: volli vendicarmi di quel testimone, altrimenti sarei morto.
Quel dio che vedeva tutto, anche l'uomo, doveva morire! L'uomo non sopporta vivo un testimone di questo genere.

Così parlò l'uomo più brutto. Ma Zarathustra si alzò e si accinse ad allontanarsi: poiché si sentiva gelato fin nelle viscere.
O indicibile - disse - tu mi hai messo in guardia contro la tua strada. Per ringraziamento io ti raccomando la mia. Vedi, lassù è la caverna di Zarathustra. La mia caverna è grande e profonda ed ha molti angoli; colui che più si nasconde trova là il suo nasondiglio.
E lì vicino vi sono cento rifugi segreti e astuzie' per ogni animale strisciante, volante e balzante.

O ripudiato, tu che volesti essere ripudiato, non vuoi abitare tra gli uomini e la compassione umana? Ebbene, allora fa come me! Così anche tu imparerai da me; solo colui che fa impara.
E prima di tutto parla con i miei animali! L'animale più fiero e l'animale più astuto sono quelli che possono darci i migliori consigli!

Così parlò Zarathustra, e andò per la sua strada, più pensieroso e più lento di prima: poiché si domandava molte cose e a molti problemi non riusciva facilmente a rispondere.
Com'è misero l'uomo! pensava nel suo cuore. Com'è brutto, com'è rantolante, com'è pieno di nascosto pudore!
Mi si dice che l'uomo ami se stesso: ahimè, come deve essere grande questo amore per se stessi! Quanto disprezzo ha da vincere!
Anche quello là si amava, si disprezzava; per me è un grande amante e un grande dispregiatore.
Non ho ancora trovato nessuno che si sia disprezzato più profondamente: anche questo è elevatezza. Guai, costui era forse l'Uomo Superiore, del quale ho udito il grido?
Io amo i grandi dispregiatori. Ma l'uomo è qualcosa che deve essere superata.

IL MENDICANTE VOLONTARIO

Quando Zarathustra ebbe abbandonato il più brutto degli uomini, ebbe freddo e si sentì solo: sentì scorrere appuntò sulle sue membra molto freddo e solitudine, così che anche le varie parti del suo corpo si raffreddarono. Ma mentre stava sempre più salendo, e saliva, scendeva e poi risaliva lungo verdi pascoli e su deserte petraie, ove in altri tempi era forse scorso inquieto un ruscello: tutto ad un tratto ebbe di nuovo più caldo e si sentì cordiale.
Che mi va capitando? si chiese. - Qualcosa di caldo e di vitale mi rallieta, deve essere qui nelle vicinanze.
Sono già meno solo; inconsapevoli fratelli e compagni mi sfiorano, il loro caldo respiro tocca la mia anima.
Ma quando volse gli occhi intorno a sé e cercò i consolatori della sua solitudine, ecco: scorse delle vacche raggruppate su un'altura; era la loro vicinanza e il loro odore che avevano riscaldato il suo cuore.
Quelle vacche però sembravano tutte intente ad ascoltare un oratore e non fecero attenzione a chi sopravveniva. Come Zarathustra fu giunto in loro vicinanza, udì chiaramente che una voce umana parlava dal centro del gruppo delle vacche; e si vedeva che esse avevano voltato tutte le loro teste verso l'oratore.
Allora balzò con fervore avanti e penetrò tra gli animali, scostandoli l'uno dall'altro, nel timore che a qualcuno fosse capitata una disgrazia, a cui naturalmente la compassione delle vacche sarebbe servita a poco. Ma si era sbagliato; perché, guarda un po', c'era un uomo seduto per terra che sembrava parlare agli animali per convincerli che non dovevano avere alcuna paura di lui, un uomo pacifico, un predicatore della montagna, dai cui occhi sembrava parlare la bontà in persona.
Che cerchi qui? gli urlò Zarathustra con sorpresa.
Che cerco qui? rispose quello. - La medesima cosa che cerchi tu, seccatore! La felicità sulla terra. Vorrei appunto apprender qualcosa, in proposito, da queste vacche, perché, sai, è mezza mattina che sto parlando loro, e ora finalmente stavano per dirmi qualcosa. Perché le disturbi? Finché non ci convertiremo e diventeremo come le vacche, non giungeremo nel regno dei cieli. Una cosa dovremmo imparare da loro: il ruminare.
E in realtà, anche se l'uomò ottenesse tutto il mondo e non imparasse questa cosa, il ruminare: che gli gioverebbe tutto il resto? Non si libererebbe dalla sua inquietudine, dalla sua grande inquietudine: è questa che si chiama oggi schifo. Chi non ha oggi il cuore, la bocca e gli occhi pieni di schifo? Anche tu! Anche tu! Ma guarda queste vacche!
Così parlò il predicatore della montagna e poi volse l'occhio verso Zarathustra, perché finora l'aveva amorosamente tenuto rivolto verso le vacche; ma in quell'istante cambiò aspetto. Chi è colui con cui parlo? gridò spaventato, e balzò dal terreno. Questo è l'uomo senza schifo, è Zarathustra in persona, il superatore del grande schifo, è l'occhio, è la bocca, è il cuore stesso di Zarathustra.
E mentre parlava così, baciava le mani di colui al quale parlava, e i suoi occhi erano umidi, e si agitava come colui a cui sia caduto inattesamente un dono prezioso dal cielo. Le vacche guardavano tutto ciò e si meravigliavano.
Non parlare di me, tu, strana creatura! Caro! disse Zarathustra, e allontanò la sua tenerezza. Parlami prima di tutto di te! Non sei il mendicante volontario, che una volta gettò via da sé una grande ricchezza, che si vergognava della sua ricchezza e dei ricchi, e fuggì dai poveri per donare la sua ricchezza e il suo cuore? Senonché, essi non l'accettarono.
Senonché, - essi non mi accettarono - ribatté il mendicante volontario; - lo sai bene. Perciò ho finito per rifugiarmi dagli animali e da queste vacche.
Così hai imparato - lo interruppe Zarathustra - quanto sia più difficile dare sul serio che prendere sul serio, e che donar bene è un'arte, l'ultima e più astuta arte magistrale del bene.
Strana cosa oggi - rispose il mendicante volontario - proprio oggi che tutto quanto è basso si è sollevato in maniera a suo modo timida altera: per intenderci, in maniera plebea.
Perché, tu lo sai, è venuta l'ora della grande rivolta, della lenta, maligna lunga rivolta della plebe e degli schiavi: e come questa cresce sempre più!
Ora avviene che la gente bassa si arrabbia di ogni beneficenza e piccola prodigalità; e gli straricchi fanno bene a stare in guardia!
Coloro che oggi, simili a gonfie bottiglie, gocciolano da colli troppo stretti: sono bottiglie alle quali oggi si rompe volentieri il collo.
Bassa bramosia, gialla invidia, spirito amaro di vendetta, orgoglio plebeo: tutto questo mi è schizzato in faccia. Non è più vero che i poveri sono beati. Il regno dei cieli si trova fra le vacche.

E perché non fra i ricchi? chiese Zarathustra a scopo di indagine, mentre tratteneva le vacche che stavano annusando confidenzialmente il pacifico.
Che mi vai tentando? rispose questi. - Lo sai tu stesso meglio di me. Che cosa mi ha spinto verso i più poveri, o Zarathustra? Non era lo schifo per i nostri ricchi? Per i condannati alla ricchezza, che prendono i loro vantaggi da ogni spazzatura, con occhi freddi, acidi pensieri, per tutta questa marmaglia, il cui puzzo giunge fino al cielo, per questa falsa plebaglia dorata, i cui padri furono gente di mano lesta o avvoltoi mangiatori di carogne o collezionatori di stracci, con le loro donne facili, vogliose, obliose: c'è poca differenza tra esse e le sgualdrine.
Plebaglia in alto, plebaglia in basso! Che è oggi più 'povero' e 'ricco'! Della loro differenza ho perso la memoria, e me ne sono fuggito lontano, sempre più lontano, finché ho incontrato queste vacche.
Così parlò il pacifico, e annusò l'aria anche lui, sudando mentre parlava: tanto che le vacche si meravigliarono di nuovo. Ma Zarathustra lo continuava a guardare sempre sorridendo in volto, mentre parlava così duramente, e scuoteva di tanto in tanto la testa.
Tu fai violenza a te stesso, o predicatore della mon. tagna, pronunciando parole così dure; non hai la bocca adatta per una-simile durezza, e neanche l'occhio. Penso che tu non abbia neanche lo stomaco adatto: gli fa male tutto questo arrabbiarti e odiare e schiumare d'ira. Il tuo stomaco vuole cose più tenere: non sei un macellaio. Piuttosto mi sembri un piantatore o un erborista. Forse mastichi dei chicchi di grano. Ma sicuramente sei alieno dalle gioie della carne e ami il miele.
In questo hai indovinato - rispose il mendicante volontario con cuore più leggero. - Io amo il miele, e mastico anche grani, perché cerco ciò che è di sapore gradevole e rende l'alito puro: ed anche ciò che abbisogna di lungo tempo, un lavoro a giornata e da mulo, per pacifici oziosi e ladruncoli. Meglio di tutti hanno fatto queste vacche; hanno inventato la ruminazione e lo starsene beataménte al sole. E si astengono da tutti i pensieri difficili, che gonfiano il cuore.
Bene! disse Zarathustra. - Dovresti vedere anche i miei animali, la mia aquila e il mio serpente; simili a loro non ce n'è oggi sulla terra. Guarda, là la strada conduce alla mia caverna: siine ospite per questa notte. E parla con i miei animali della felicità degli animali, finché io sia tornato. Perché ora un grido angoscioso mi richiama in fretta lontano da te. Da me puoi trovare anche nuovo miele, miele freschissimo di favo: mangialo! Ma ora prendi in fretta congedo dalle tue vacche, mio caro! Anche se ti sia grave. Perché sono i tuoi amici e maestri più cari!
Ad eccezione di uno, che io ho ancora più caro - rispose il mendicante volontario. - Tu stesso sei buono, e migliore ancora di una vacca, o Zarathustra!
Via, via! antipatico adulatore! gridò Zarathustra con cattiveria. - Che mi stai corrompendo qui con la tua lode e con il miele dell'adulazione? Via, via da me! - gridò ancora una volta e agitò il suo bastone verso il mite mendicante: il quale scappò via in fretta.

L'OMBRA

Ma appena il mendicante volontario fu scappato via, Zarathustra fu di nuovo solo, e allora udì dentro di sé una nuova voce che esclamava. - Fermo! Zarathustra! Aspetta dunque! Sì, sono io, o Zarathustra! io, la tua ombra! - Ma Zarathustra non aspettò, perché s'impadronì di lui un'ira improvvisa per tutto quell'affollarsi e quella ressa sulle sue montagne.
Dov'è andata la mia solitudine? disse. - In realtà per me, è troppo; queste montagne brulicano, il mio regno non è più di questo mondo, io ho bisogno di nuove montagne.La mia ombra mi chiama? Che cosa importa la mia ombra! Corra pure dietro di me! Io fuggo via.
Così parlò Zarathustra al suo cuore e fuggì via.
Ma colui che gli stava dietro lo seguì: così che subito furono in tre a rincorrersi, in testa il mendicante volontario, poi Zarathustra e terza ed ultima la sua ombra. Non corsero molto a lungo, perché Zarathustra rifietté sulla sua stoltezza e con una scrollata di spalle allontanò da sé ogni fastidio e disgusto.
Come! disse - non sono forse accadute sempre tra noi vecchi eremiti e santi le cose più ridicole? In realtà, la mia stoltezza è cresciuta sulle montagne! E ora ascolto sei gambe di vecchi stolti sbattere rincorrendosi l'un l'altro! Ma Zarathustra può aver paura di un'ombra? Alla fin fine credo anche che essa abbia gambe più lunghe di me.
Così parlò Zarathustra, ridendo con lo sguardo e con tutte le interiora; si arrestò e si volse rapidamente attorno, tanto che quasi gettò a terra il suo inseguitore, cioè l'ombra: così vicino essa lo seguiva alle calcagna, ed era anche debole. Appena l'ebbe considerata con gli occhi, si spaventò come alla vista improvvisa di un fantasma: così esile, scura, cava e come una superstite gli apparve quella sua inseguitrice.
Chi sei tu? domandò Zarathustra, violento. - Che cosa fai qui? E perché ti dici mia ombra? Non mi piaci.
Perdonami - rispose l'ombra - che io sia tale; e se non ti piaccio, o Zarathustra! In questo io lodo te e il tuo buon gusto. Io sono un viandante che ha già molto camminato alle tue calcagna: sempre per strada, ma senza mèta, e senza casa: così che in realtà poco mi manca per essere l'Ebreo errante, solo che non sono eterna e non sono ebrea. Come? Io dovrò essere sempre per strada? Sollevata da ogni vento, errante, scacciata via? O terra, per me sei troppo rotonda! Mi sono seduta su ogni superficie, simile a stanca polvere ho dormito sugli specchi e sui vetri delle finestre: tutti prendono da me, nessuno mi dà, io divengo esile; assomiglio quasi ad un'ombra.
Ma io sono volata verso di te, o Zarathustra, e ti ho seguito più lungamente di ogni altro, e anche se mi sono nascosta a te, per non farmi riconoscere, tuttavia sono stata la tua migliore ombra: ovunque, non appena tu ti sedevi, mi sedevo anch'io.
Con te sono andata nei più lontani e freddi mondi, simile ad un fantasma che volontariamente corre sui tetti invernali e sulla neve.
Con te ho cercato di penetrare in tutto ciò che è vietato, peggiore, inattingibile: e se in me c'è un briciolo di virtù, questa consiste nel fatto che io non ho paura di nessuna proibizione.

Con te ho spezzato ciò che il mio cuore adorava, ho rovesciato tutte le pietre terminali e le statue, sono corsa dietro ai miei desideri più pericolosi: e sono già passata una volta sopra ogni delitto.
Con te ho disimparato la fede nelle parole e nei valori e nei grandi nomi. Quando il diavolo cambia le pelle, non perde forse anche il suo nome? Anch'esso è infatti pelle. Il diavolo stesso è forse appunto pelle.
'Niente è vero, tutto è permesso': così dissi a me stessa. Nelle acque più fredde mi sono precipitata con la testa e col cuore. Ahimè, come spesso sono rimasta lì nuda come un gambero rosso!
Ahimè, dov'è andato tutto il mio bene e pudore e la mia fede nei buoni! Ahimè, dov'è quella nascosta innocenza che un giorno possedevo, l'innocenza dei buoni e delle loro nobili menzogne!
Troppo spesso, in realtà, sono stata alle calcagna della verità: alla fine essa mi mis.e i piedi sul capo. Qualche volta ho pensato di mentire, ed ecco! proprio allora ho colto la verità.
Troppe cose mi si sono svelate: ora non mi importa più nulla. Nulla vive più di ciò che io amo; come potrei amare ancora me stesso?
Vivere come a me piace, o non vivere più: così voglio, così vuole anche il più santo. Ma, ahimè! come posso io provare ancora piacere?
Ho io ancora una mèta? Un porto verso cui corra la mia vela?

Un buon vento? Ahimè, soltanto chi sa dove naviga, sa anche quale sia il vento buono e il suo vento favorevole.
Che cosa mi è rimasto ancora? Un cuore stanco e temerario; una volontà instabile; ali starnazzanti; una colonna vertebrale spezzata.
Questo ricercare una casa mia: o Zarathustra, lo sai bene, questo ricercare è stata la mia punizione, mi divora.
'Dov'è la mia casa?' Questo domando e cerco e ho cercato, e non lo trovo. O eterno 'ovunque', o eterno 'in nessun luogo', o eterno 'invano!

Così parlò l'ombra; e il volto di Zarathustra, a quelle parole, si allungò.
Tu sei la mia ombra! disse infine, con tristezza. - Il tuo pericolo non è piccolo, o libero spirito viandante! Hai avuto una brutta giornata: guarda the non ti sopraggiunga una peggiore sera!
Agli instabili come te, alla fine, anche una prigione sembra beata. Hai mai veduto come dormono i delinquenti una volta catturati? Dormono tranquillamente, perché godono della loro nuova sicurezza.
Guarda di non divenire preda, alla fine, di una fede limitata, di una dura e rigorosa follia! Infatti ormai ti seduce e ti tenta soltanto ciò che è limitato e saldo.
Hai perduto la mèta: ahimè, come ti consolerai di ciò che hai perduto per tua colpa? Con ciò tu hai perduto anche la strada!
Povera vagabonda, infatuata, stanca farfalla! vuoi avere per questa sera riposo e un domicilio? Allora va' lassù alla mia caverna!
Per di là la strada conduce alla mia caverna! Ora voglio fuggir via velocemente da te. Già si stende su di me come un'ombra.
Voglio correre da solo, perché intorno a me si faccia di nuovo chiaro. Per questo debbo essere allegro e ancora a lungo in gamba. Ma questa sera da me si ballerà!

Così parlò Zarathustra.

A MEZZOGIORNO

E Zarathustra corse e corse e non trovò più nessuno e fu solo e ritrovò sempre più se stesso e godette e assaporò la sua solitudine e pensò a cose buone, per ore ed ore. Ma verso l'ora meridiana, quando il sole stava proprio sul capo di Zarathustra, passò davanti ad un vecchio albero curvo e nodoso, intorno al quale si abbracciava attorcigliandosi il ricco amore di una vite e lo nascondeva: da questa pendevano in quantità gialli grappoli d'uva verso il viandante. Allora gli venne voglia di estinguere un po' la sete e cogliere un grappolo d'uva; ma mentre già stendeva il braccio, gli venne ancor più voglia di qualcosa d'altro: di sdraiarsi cioè accanto all'albero, nell'ora del pieno meriggio e dormire.
Così fece Zarathustra; e appena si distese a terra, nel silenzio e nell'intimità dell'erba variopinta, dimentico anche la sua piccola sete e si addormentò.
Poiché, come dice il proverbio di Zarathustra: una cosa è più necessaria dell'altra. Solo che i suoi occhi rimasero aperti: essi infatti non erano mai sazi il guardare e ammirare l'albero e l'amore della vite. Ma poi, nell'addormentarsi, Zarathustra così disse al suo cuore:
Taci! taci! In questo momento il mondo non è forse divenuto perfetto? Che cosa mi succede? Come un leggiadro vento, invisibile, danza sul piatto mare, leggero, leggero come una piuma: così danza su di me il sonno.
Non mi chiude gli occhi per lasciarmi desta l'anima. Ma è leggero! leggero come una piuma. Mi persuade; non so come, mi sfiora intimamente con mano carezzevole, mi fa dice violenza. Sì, mi fa dolce violenza, perché io distenda la mia anima: e così essa diviene lunga e stanca, la mia anima strana! Proprio a mezzodì è giunta per lei la sera del settimo giorno? Essa ha già troppo a lungo vagato beata tra le cose buone e mature?

Si distende tutta in lungo, sempre più lunga! E giace silenziosa, la mia strana anima. Ha già assaggiato troppe cose buone, questa dorata tristezza la opprime, torce la bocca.
Come una nave che arriva nel suo porto tranquillo, essa si va accostando alla terra, stanca del lungo vagare e del mare malsicuro. Non è forse la terra più fedele?
Quando una tal nave si avvicina alla terra ferma, vi si accosta e stringe: tanto che un ragno può intessere la sua tela dalla riva a lei, e non c'è bisogno di gomene più forti.

Come questa stanca nave nel suo porto più tranquillo: così anch'io ora riposo vicino alla terra, fedele, fiducioso, in attesa, legato a lei con il più lieve dei fili.
O felicità! O felicità! Vuoi proprio cantare, o mia anima? Tu giaci nell'erba. Ma questa è l'ora segreta e solenne, quando nessun pastore suona la sua zampogna.
Rispettala! Il caldo mezzogiorno dorme sui campi. Non cantare! Silenzio! Il mondo è perfetto.
Non cantare, o volatile che vaghi tra l'erba, o mia anima! Non bisbigliare neppure! Guarda, è silenzio! l'antico mezzogiorno dorme, muove la bocca: non beve egli forse in questo momento una goccia di felicità? Un'antica bruna goccia di aurea felicità, di vino dorato? Qualcosa svola sopra di lui, e la sua felicità ride. Così ride un dio. Silenzio!
'Per fortuna, quanto poco basta per la felicità!' Così dicevo un giorno e mi credevo saggio. Ma era una bestemmia: ora l'ho appreso. I pazzi intelligenti parlano meglio.
Proprio ciò che è minimo, più sommesso, più lieve, un frusciar di lucertola, un sospiro, un guizzo, un batter d'occhi: di poco è fatta la migliore felicità. Silenzio!
Che cosa mi accade: ascolta! Forse che il tempo è volato via? Non sto forse cadendo? Non sono caduto, ascolta! nel pozzo dell'eternità?
Che cosa mi accade? Silenzio! Qualcosa mi punge, ahimè, nel cuore? Nel cuore! O spezzati, spezzati, cuore, dopo una tale felicità, dopo una tale trafittura!
Come? Il mondo non è diventato in questo momento perfetto? Tondo e maturo? Oh, l'aureo anello rotondo, dove vola? Io corro dietro di lui! presto!
Silenzio!
(E qui Zarathustra si stirò e sentì che dormiva.)
Sù! disse a se stesso - dormiglione! Dormiglione a mezzogiorno! Suvvia, sù, vecchie gambe! E tempo di andare, vi resta da fare un buon tratto di strada.
Ora vi siete riposate, quanto a lungo? Una mezza eternità! Suvvia, dunque, mio vecchio cuore! Quanto ti ci vuole perché da un tale sonno tu ti risvegli?

(Ma già si era riaddormentato, e
la sua anima parlò contro di lui e si opponeva e si metteva contro di lui.)
Lasciami dunque! Silenzio! Il mondo non è forse divenuto in questo momento perfetto? O aurea palla rotonda!
Alzati - disse Zarathustra - piccola ladra, oziosa! Come? Vorresti sempre stirarti, sbadigliare, sospirare, precipitare in pozzi profondi?
Ma chi sei! O mia anima!
(E qui sobbalzò, perché un raggio di sole, calando dal cielo, lo colpiva in faccia.)
O cielo sopra di me - disse sospirando e mettendosi a sedere - tu mi guardi? Ascolti questa mia strana anima?
Quando berrai questa goccia di rugiada che è caduta su tutte le cose terrene, quando berrai questa strana anima, quando, fonte dell'eternità! Sereno e terribile abisso dell'ora meridiana! Quando riberrai in te la mia anima?
Così parlò Zarathustra e si alzò dal suo giaciglio accanto all'albero come da un'ebbrezza sconosciuta: ed ecco, il sole stava proprio sopra la sua testa. Qualcuno potrebbe da ciò giustamente dedurre che Zarathustra non aveva dormito a lungo.

IL SALUTO

Era già il tardo pomeriggio, quando Zarathustra, dopo lungo e inutile ricercare e girovagare, ritornò alla sua caverna. Ma mentre giungeva davanti ad essa, a non più di venti passi da questa, accadde ciò che meno di tutto si aspettava: di nuovo udì il grande grido di dolore. E, strano, questa volta veniva fuori proprio dalla sua stessa caverna. Ma era un grido più lungo, molteplice e singolare, e Zarathustra distinse chiaramente che si componeva di molte voci: anche se, ascoltato da lontano, suonava simile al grido di una sola bocca.
Allora balzò verso la sua caverna, ed ecco! quale spettacolo lo attendeva dopo quello che aveva udito! Tutti sedevano lì intorno, l'uno accanto all'altro, quelli in cui egli di giorno si era imbattuto: il re di destra e il re di sinistra, il vecchio mago, il papa, il mendicante volontario, l'ombra, il coscienzioso dello spirito, il triste indovino e l'asino; ma l'uomo più brutto si era messo addosso una corona e si era avvolto due cinture purpuree, perché amava, come tutti i brutti, travestirsi e farsi bello. In mezzo a questa turbata società, stava l'aquila di Zarathustra, arruffata e inquieta, perché doveva rispondere a molte cose per le quali il suo orgoglio non trovava risposta; e il serpente astuto pendeva al suo collo.
Tutto questo guardò Zarathustra con grande meraviglia: poi esaminò ogni singolo ospite con allegra curiosità, lesse nelle loro anime e si meravigliò ancora. Frattanto quelle persone si erano sollevate dai loro seggi e attendevano con deferenza che Zarathustra parlasse. E Zarathustra parlò così:
Voi disperati! Voi strane creature! Ho udito dunque il vostro grido di dolore? Ora so anche dove deve cercarsi colui che io oggi ho cercato invano: l'Uomo Superiore; siede nella mia grotta, l'Uomo Superiore! Ma perché meravigliarmi? Non l'ho attratto io stesso verso di me con offerte di miele e astuti richiami della mia felicità?
Tuttavia a me sembra che voi non facciate buona società insieme, vi amareggiate il cuore l'uno con l'altro, con i vostri gridi di dolore, quando sedete qui insieme. Dovrà giungere uno, uno che vi faccia di nuovo ridere, un buontempone allegro, un danzatore in lungo e in largo, un qualche vecchio pazzo; che ve ne pare?
Perdonatemi, o disperati, se io vi parlo con queste mie piccole parole, indegne invero di tali ospiti! Ma voi non sapete che cosa rende ardito il mio cuore: voi stessi siete, e la vostra vista; perdonatemi! Ognuno prende coraggio vedendo uno che si dispera. Parlare ad un disperato è cosa per la quale ognuno si sente sempre abbastanza forte.
A me siete stati voi a dare questa forza, un buon dono che mi avete fatto, miei nobili ospiti! Proprio un dono a proposito! Bene, e allora non inquietatevi se anche io vi offro qualcosa di mio.
Questo è il mio regno e la mia signoria: ma ciò che è mio per questa sera e per questa notte deve essere vostro. I miei animali devono servirvi: la mia grotta sia la vostra stanza di riposo!
A casa mia nessuno deve disperarsi, nella mia riserva io proteggo ognuno dai suoi animali selvaggi. E questa è la prima cosa che vi offro: la sicurezza!
Ma la seconda è il mio dito mignolo, e quando voi lo avrete, prendete pure anche tutta la mano, senz'altro, e anche il cuore! Benvenuti qui, benvenuti, ospiti miei!

Così parlò Zarathustra e rise d'amore e di malvagità. Dopo questo saluto, i suoi ospiti si inchinarono ancora una volta, tacendo rispettosamente. Il re di destra tuttavia gli rispose a loro nome.
Per il fatto che tu, o Zarathustra, ci offri la mano e il saluto, ti riconosciamo proprio come Zarathustra. Tu ti abbassi dinanzi a noi; quasi fai del male al nostro rispetto: ma chi potrebbe abbassarsi come te con tanto orgoglio? Questo ci solleva, è un conforto per i nostri occhi e per i nostri cuori.
Soltanto per vedere questo sarebbe valsa la pena per noi di salire su montagne più alte di questa. Siamo venuti appunto per vedere, perché volevamo vedere che cosa può render chiari degli occhi turbati.
Ed ecco, che tutto è ormai passato ciò che provocava il nostro grido di dolore. Già si aprono a noi i sensi e il cuore con entusiasmo. Poco manca che il nostro coraggio prenda ala.
Niente, o Zarathustra, c'è di più consolante sulla terra di una forte alta volontà: essa è una bella pianta. Un intero paesaggio può esser lieto che su di lui cresca un tale albero.
Al pino io paragono colui che cresce simile a te, o Zarathustra: alto, taciturno, duro, solitario, del miglior legno pieghevole, magnifico; ma infine, anche teso con forti rami verdeggianti verso la sua signoria, lancia forti domande ai venti e alle tempeste e a tutto ciò che è familiare alle altitudini, e ancora più fortemente risponde come un dominatoie, come un vittorioso: e chi non dovrebbe salire sugli alti monti per contemplare piante di questo genere?

A questo albero, o Zarathustra, si pasce anche chi ha l'animo cupo, colui che ha sbagliato la sua via; a questa vista, anche l'inquieto si fa sicuro e guarisce il suo cuore.
E veramente verso la tua montagna e il tuo albero si volgono oggi molti occhi; una grande nostalgia si è aperta negli animi, e molti hanno imparato a chiedersi: chi è mai Zarathustra?
E coloro a cui tu una volta hai versato nell'orecchio il tuo canto e il tuo miele: tutti i nascosti, i solitari, i vagabondi, hanno detto tutto d'un tratto ai loro cuori: 'Vive ancora Zarathustra? Non vai più la pena di vivere, tutto è uguale, tutto è invano, a meno che non viviamo con Zarathustra!'
'Perché non viene colui che si è annunciato da molto tempo?' molti si chiedono. 'Lo ha forse divorato la solitudine? O dobbiamo noi andare da lui?'
Ora accade che la solitudine stessa sta marcendo e si riempie di crepe, come un sepolcro che si apre e non può più contenere i suoi morti. Ovunque si vedono dei risorti.
Ora le onde montano e montano intorno alla tua montagna, o Zarathustra. E per quanto la tua latitudine sia eccelsa, molti devono giungere fino a te: il tuo vascello non deve più stare al secco.
Il fatto che noi disperati oggi siamo giunti alla tua caverna e già non più disperiamo: questo è solo un segno e un preannuncio del fatto che uomini migliori stanno in cammino verso di te, perché quello stesso è in cammino verso di te che è l'ultimo resto di Dio fra gli uomini, cioè tutti gli uomini della grande nostalgia, della grande ripugnanza, della grande sazietà tutti coloro che non vogliono vivere, o imparano di nuovo a sperare, o imparano da te, o Zarathustra, la grande speranza!

Così parlò il re di destra, e afferrò la mano di Zarathustra per baciarla; ma Zarathustra si difese da questo omaggio e balzò spaventato indietro, tacendo d'un tratto come se volasse verso grandi lontananze. Dopo pochi istanti tuttavia egli era già di nuovo con l'animo presso i suoi ospiti, li guardò con occhi chiari e interroganti e disse:
Ospiti miei, voi uomini superiori, voglio parlare con voi in chiaro tedesco. Non voi ho atteso qui in questi monti.
(
In chiaro tedesco? Dio ci liberi! esclamò a questo punto il re di sinistra per conto suo. - Si vede che egli non conosce i cari tedeschi, questa specie di uomini orientali! Ma lui vuoi dire 'duro e tedesco'; bene! oggi non è ancora la cosa peggiore!)
Potete in realtà tutti insieme essere uomini superiori - continuò Zarathustra - ma per me non siete grandi e forti abbastanza.
Per me, cioè, per l'inesorabile che in me tace, ma non tacerà in eterno. E se voi appartenete a me, non mi appartenete come il mio braccio destro. Chi infatti sta lui stesso su gambe tenere e malate, simile a voi, la prima cosa che vuole, sia che lo sappia o cerchi di ignorano, è di venire risparmiato. Ma io non risparmio le mie braccia e le mie gambe, non risparmio i miei guerrieri: come potete voi servire alla mia guerra? Con voi io mi rovino ogni vittoria. Taluno di voi cadrebbe già se non sentisse il forte rumore dei miei tamburi.
E poi voi non siete per me abbastanza belli e ben nati. Io ho bisogno di specchi perfettamente limpidi per le mie dottrine; sulla vostra superficie si distorce anche la mia immagine. Le vostre spalle sono gravate di pesi e ricordi; nei vostri recessi balzano dei cattivi nani. V'è plebe nascosta anche in voi. E anche se voi siete d'alta statura e di più alta specie, molto di voi è torto e riuscito male. Non c'è fabbro nel mondo che vi possa correggere e rifar diritti.

Voi siete soltanto dei frammenti: che più alti di voi possano passarvi sopra! Voi siete come dei gradini: non arrabbiatevi perciò con chi sale verso la sua altitudine passando sopra di voi! Dal vostro seme può spuntar fuori per me anche un figlio come si deve e un perfetto erede: ma è cosa lontana. Voi stessi non siete coloro a cui appartengono la mia eredità e il mio nome. Non voi attendo io qui su questi monti, non con voi debbo compiere per l'ultima volta la mia discesa. Per me voi siete dei segni premonitori del fatto che già altri, più alti di voi, sono in cammino verso di me: non gli uomini della grande nostalgia, della grande ripugnanza, della grande sazietà, né ciò che voi dite ultimo resto di Dio, no! no! tre volte no! Altri io attendo qui in queste montagne, e non voglio levare il mio piede di qui senza di loro, più alti, più forti, più vittoriosi, più sereni, costruiti ben quadrati nel corpo e nell'anima: leoni ridenti debbono giungere a me! O miei ospiti, voi, esseri strani, non avete ancora udito nulla dei miei figli? E che essi sono in cammino verso di me? Parlatemi dunque dei miei giardini, delle mie isole felici, della mia nuova bella specie; perché non mi parlate di questo?
Questo è il dono d'ospitalità che io mi attendo dal vostro amore, che mi parliate dei miei figli. Per questo io sono ricco, per questo io divenni povero: che cosa non ho dato, che cosa non darei per avere una sola cosa: questi figli, questa vivente piantagione, questi alberi della vita della mia volontà e della mia più alta speranza!
Così parlò Zarathustra e arrestò il suo discorso: perché fu preso dalla sua nostalgia, e chiuse gli occhi e la bocca davanti ai moti del proprio cuore. E anche tutti i suoi ospiti tacquero, e ristettero emozionati in silenzio: solo il vecchio indovino faceva dei segni con le mani e coi gesti.

LA SACRA CENA

A questo punto l'indovino interruppe il saluto di Zarathustra e dei suoi ospiti: si spinse avanti come uno che non abbia tempo da perdere, prese la mano di Zarathustra e gridò: Ma Zarathustra! Una cosa è più necessaria dell'altra, lo dici tu stesso: ecco, una cosa è per me ora più necessaria di ogni altra. Una parola detta al momento giusto: non mi hai invitato a cena e qui sono molti che hanno fatto lungo cammino. Non vorrai mica sfamarci coi tuoi discorsi? Inoltre avete tutti troppo pensato al congelamento, all'annegamento, alla perdita del respiro e ad altre situazioni drammatiche del corpo: ma nessuno ha ricordato il mio dramma, quello del morir di fame!
(Così parlò l'indovino; come gli animali di Zarathustra udirono queste parole, scapparono via dallo spavento. Perché vedevano che, per quante cose avessero portato a casa durante la giornata, non sarebbero bastate a riempire un solo indovino.)
Incluso il morir di sete - continuò l'indovino. E anche se sento già sbattere l'acqua, qui, con questi discorsi della saggezza, senza requie né stanchezza, io per me voglio il vino! Non tutti sono come Zarathustra bevitori d'acqua nati. L'acqua non basta per chi è stanco e appassito: a noi occorre vino; esso procura subito risveglio e salute! A questo punto, dato che l'indovino voleva vino, accadde che anche il re di sinistra, il taciturno, prese una volta tanto la parola. Quanto al vino - disse - ci abbiamo pensato noi, cioè io con mio fratello, il re di destra: del vino ne abbiamo abbastanza, un intero asino. Non manca che il pane.
Pane? ribatté Zarathustra, e rise. E proprio il pane che gli eremiti non hanno. Ma l'uomo non vive di solo pane, ma anche di carne di buoni agnelli; e io ne ho due: questi bisogna subito macellare e preparare con spezie e salvia: così mi piacciono. E anche di radici e frutta qui ce n'è abbastanza per ogni specie di ghiottoni e golosi; e così noci e altri enigmi da schiacciare. Vogliamo dunque in breve fare un buon pranzo. Ma chi vuol mangiare con noi deve darsi da fare, anche i re. Con Zarathustra anche un re può essere cuoco. Con queste premesse, tutti cominciarono ad essere contenti: solo che il mendicante volontario si opponeva contro la carne e il vino e le radici. Ma ascoltate questo scialacquatore di Zarathustra! disse scherzando. - Che forse si va nelle caverne e in alta montagna per fare pranzi di questo genere? Ora capisco che cosa voleva dire quando una volta ci insegnò: 'Lodata sia la piccola miseria!' e perché vuole allontanare i mendicanti.
Sta' calmo - gli rispose Zarathustra - come faccio io. Continua a fare secondo il tuo costume, buon uomo, macina i tuoi grani, bevi la tua acqua, loda la tua cucina, se essa riesce a farti contento!
Io sono una legge soltanto per i miei, non sono una legge per tutti. Ma chi mi appartiene, deve avere le ossa forti e lieve il piede, pronto alle guerre e alle feste, non un torpido, non un sognatore; pronto alle cose più dure come alle sue feste, sano e forte.
Il meglio appartiene ai miei e a me; e se non ce lo danno, ce lo prendiamo: il miglior nutrimento, il cielo più puro, i pensieri più forti, le donne più belle!

Così parlò Zarathustra; ma il re di destra rispose:
Strano! si sono mai udite cose così intelligenti dalla bocca di un saggio? E invero la cosa più strana in un saggio è che egli possa essere anche intelligente e non un asino.
Così parlò il re di destra e si meravigliò: ma l'asino aggiunse al suo discorso, di malavoglia, I-A. Questo tuttavia fu l'inizio di quel lungo pranzo che è detto nei libri di storia "La Sacra Cena". Senonché, in essa non si parlò di nient'altro che dell'Uomo Superiore.

DELL'UOMO SUPERIORE

Quando venni per la prima volta tra gli uomini, feci una sciocchezza da eremiti, una grande sciocchezza: mi misi sul mercato.
E mentre parlavo a tutti, non parlavo con nessuno. Ma la sera i miei compagni furono i saltimbanchi e i cadaveri; ed io stesso ero quasi un cadavere.
Ma con il nuovo mattino mi giunse una nuova verità: imparai a dire: 'Che mi importa del mercato e della plebe e del rumore della plebe e delle lunghe orecchie della plebe!'
O Uomini Superiori, imparate questo da me: sul mercato nessuno crede agli Uomini Superiori. E se volete parlarne, ebbene, la plebe ammicca: 'Siamo tutti uguali'.
'O voi Uomini Superiori,' sembra dire ammiccando, la plebe 'non esistono gli Uomini Superiori, noi siamo tutti uguali, l'uomo è uomo; davanti a Dio, siamo tutti uguali!'
Davanti a Dio! Ma ora questo Dio è morto. E davanti alla plebe noi non vogliamo essere uguali. O Uomini Superiori, andate via dal mercato!

2

Davanti a Dio! Ma ora questo Dio è morto! O Uomini Superiori, quel Dio era il vostro più grande Pricolo
Solo ora, che ormai giace nel sepolcro, siete di nuovo resuscitati. Ora soltanto giunge il grande mezzogiorno, ora soltanto l'Uomo Superiore diviene padrone!
Comprendete queste parole, fratelli miei? Voi siete spaventati: i vostri cuori vanno soggetti a vertigini? Vi si spalanca l'abisso? Vi abbaia addosso il cane infernale?
Orsù, dunque, Uomini Superiori! Soltanto ora la montagna partorisce, l'avvenire dell'uomo. Dio è morto: vogliamo, ormai, che viva il Superuomo.



3

I più perplessi oggi domandano: 'Come potrà conservarsi l'uomo?' Ma Zarathustra primo e unico è colui che domanda: 'Come può l'uomo venir superato?'
Il Superuomo mi sta a cuore, questo è il mio primo ed unico bene, e non l'uomo: non il prossimo, non il povero, non il più sofferente, non il migliore.
Fratelli miei, ciò che posso amare nell'uomo, è che egli è un passaggio e un tramonto. Anche in voi vi sono molte cose che mi fanno amare e sperare.
Che voi disprezziate, o Uomini Superiori, questo mi fa sperare. I grandi dispregiatori sono infatti grandi adoratori.
Il fatto che voi disperate è cosa da onorare. Non avete appreso come arrendervi, né avete imparato le piccole astuzie prudenziali.
Oggi infatti è divenuta padrona la piccola gente: questa predica concordemente devozione e modestia e astuzia e diligenza e rispetto e il lungo eccetera delle piccole virtù.
Ciò che è di natura femminile, ciò che discende da stirpe servile e particolarmente da mescolanza plebea: questo è ciò che ora vuoi divenire signore di ogni destino umano; che schifo! che schifo! schifo!
Si domanda e domanda e non ci si stanca: 'Come si può conservare l'uomo, e nel miglior modo, più a lungo, e più piacevolmente?' Con ciò, essi sono i padroni dell'oggi.
Superate, fratelli miei, questi padroni dell'oggi, questa piccola gente: sono loro il più grande pericolo per il Superuomo!
Superate, o uomini Superiori, le piccole virtù, le piccole prudenze, i riguardi per il granello di sabbia, il lavorio delle formiche, il gusto meschino, la 'felicità dei più'!
E preferite disperare piuttosto che arrendervi. In realtà, io vi amo proprio perché oggi non sapete vivere, o Uomini Superiori! Così infatti voi vivete nel miglior modo possibile!


4

Avete del coraggio, fratelli miei? Siete animosi? Non coraggio davanti ai testimoni, bensì il coraggio dell'eremita e dell'aquila, che non lo vede neppure Dio? Le anime fredde, i muli, i ciechi, gli ubriachi, per me non sono coraggiosi. Ha coraggio chi conosce la paura, ma sottomette la paura; chi guarda l'abisso, ma con superbia. Chi guarda l'abisso, ma con sguardo d'aquila, chi afferra l'abisso con gli artigli dell'aquila: quegli ha coraggio.

5

'L'uomo è malvagio': così mi dissero per consolazione tutti i saggi. Ahimè, se fosse vero anche oggi! Poiché la malvagità è la migliore forza dell'uomo.
'L'uomo deve diventare migliore e peggiore': questo è il mio insegnamento. Il peggio è necessario al meglio del Superuomo.
Potrebbe essere buono per quel predicatore della piccola gente, aver sofferto e aver subito i peccati degli uomini. Ma io mi rallegro del grande peccato come del mio grande conforto.
Senonché, tali parole non sono destinate ad orecchie lunghe. Ogni parola non si confà ad ogni bocca. Queste sono cose sottili e lontane: non possono afferrarle le unghie delle pecore!


6

Uomini Superiori, voi credete che io sia qui per riparare a ciò che voi avete fatto di male?
O che io voglia preparare un più soffice letto per i sofferenti? O per mostrare nuovi sentieri agli irrequieti, ai traviati, ai precipitati?
No! No! Tre volte no! Sempre più, sempre i migliori fra quelli della vostra specie devono andare in rovina, poiché la vita dovrà essere per voi sempre più brutta e dura. Solo così, solo così l'uomo si innalza alle altitudini dove il fulmine lo colpisce e lo infrange: abbastanza in alto per il fulmine!
A poche cose, lunghe e lontane, va il mio pensiero e il mio desiderio: che cosa mi importa della vostra piccola, multipla, breve miseria!
Per me voi non soffrite ancora abbastanza! Poiché soffrite per voi, non avete sofferto ancora per l'uomo. Mentireste se diceste il contrario! Nessuno di voi soffre ciò che ho sofferto io.

7

Non mi basta che il fulmine non sia più dannoso. Non voglio allontanarlo: deve anzi imparare ad agire nel mio senso.
La mia saggezza già da lungo tempo si ammassa come una nuvola, diviene sempre più silenziosa e scura. Così fa ogni saggezza che un giorno dovrà partorire un fulmine.
Per questi uomini di oggi io non voglio essere luce, né essere chiamato luce. Li voglio abbagliare: fulmine della mia saggezza, accecali!


8

Non vogliate al di là delle vostre capacità: c'è una cattiva falsità in coloro che vogliono andare al di là delle loro capacità.
Particolarmente quando vogliono grandi cose! Poiché essi destano diffidenza per le cose grandi, questi astuti falsari e commedianti, finché alla fine divengono falsi verso se stessi, loschi, sepolcri imbiancati, mascherati con parole altosonanti, con virtù ostentate, con opere luccicanti e false.
Abbiate in ciò molta preoccupazione, o Uomini Superiori! Nulla infatti io stimo oggi più prezioso e raro dell'onestà.
L'oggi non appartiene forse alla plebe? Ma la plebe non sa che cosa sia grande, piccolo, diritto e onesto: essa è ingenuamente storta e mente sempre.


9

Abbiate oggi una buona diffidenza, o Uomini Superiori, o coraggiosi! O voi sinceri! E tenete nascosto il vostro intimo! L'oggi è infatti della plebe.
Ciò che la plebe un giorno imparò a credere senza fondamento, chi potrebbe oggi' capovolgerglielo con fondamento?
Sul mercato valgono i gesti. Ma le cose profonde rendono la plebe diffidente.
E se una volta la verità vi ha per caso trionfato, allora domandatevi anche giustamente diffidenti: 'Qual mai vigoroso- errore ha combattuto per lei?'
Guardatevi altresì dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Hanno occhi freddi e aridi, davanti a loro ogni uccello è come spiumato.
Qualcuno si vanta anche di non mentire: ma l'impotenza a mentire non è ancora amore per la verità. Guardatevi da essi!
L'immunità dalla febbre non è ancora conoscenza! Io non credo negli spiriti freddi. Chi non può mentire, non sa che cosa sia la verità."

10

Se volete salire, allora adoperate le vostre gambe! Non lasciatevi trasportare in alto, non sedetevi sulle spalle e sulle teste degli altri!
Sei montato a cavallo? Ora sali rapidamente verso la tua mèta? Bene, amico mio! Ma anche il tuo piede storpio è a cavallo!
Quando sarai pervenuto alla mèta, quando scenderai dal tuo cavallo: proprio lì, sulla tua altitudine, o Uomo superiore, incespicherai!


11

Creatori, Uomini Superiori! Si è gravidi solo del proprio figlio.
Non lasciatevi persuadere, convincere! Chi è dunque il vostro prossimo? Anche se operate 'per il prossimo', non create nulla per lui!
Disimparate l' ‘a favore di’, o creatori: proprio la vostra virtù vuole che voi non facciate nessuna cosa 'a favore di' e 'per' e 'perché'. A tali meschine e false parole voi dovete chiudere le vostre orecchie.
'A favore del prossimo' è virtù solo per la piccola gente: essa sa che 'tutti sono uguali' e che 'una mano lava l'altra': non hanno il diritto né la forza del vostro egoismo!
Nel vostro egoismo, o creatori, è la prudenza e la provvidenza di colui che è gravido! Ciò che nessuno ha ancora veduto con gli occhi, il frutto: che è protetto e curato e nutrito da tutto il vostro amore.
Dove è tutto il vostro amore, cioè presso vostro figlio, là è anche tutta la vostra virtù. La vostra opera, la vostra volontà è il vostro 'prossimo': non lasciatevi convincere da falsi valori!

12

O creatori, o Uomini Superiori! Chi sta per partorire è ammalato; ma anche chi ha partorito è impuro.
Interrogate le donne: non si partorisce per divertimento. Il dolore fa schiamazzare le galline e i poeti.
O creatori, anche in voi molte cose sono impure. Ciò accade perché dovreste essere madri.
Un nuovo figlio: o quanto nuovo sudiciume viene al mondo! Allontanatevi! Chi ha partorito deve purificare la propria anima!

13

Non siate virtuosi oltre le vostre forze! E non vogliate da voi stessi nulla di inverosimile!
Camminate sulle orme, già percorse dalla virtù dei vostri padri! Come volete salire se la volontà dei vostri padri non sale con voi?
Ma chi vuole essere primogenito, guardi di non divenire ultimogenito! E là dove sono i vizi dei vostri padri, non dovete cercar di sembrare bei santi!
Che cosa accadrebbe se volesse essere Casto colui, il cui padre era incline alle donne, ai vini forti e ai cinghiali?
Sarebbe una follia! In realtà, credo che sia già tanto per uno così, se riesce ad essere marito di una o di due o tre donne.
E anche se fondasse monasteri e scrivesse sopra la sua porta: 'Il sentiero della santità', io direi: a che scopo! è una nuova follia!
Si è fabbricato un carcere e un rifugio: buon pro gli faccia! Ma io non ci credo.
Nella solitudine cresce ciò che ognuno vi porta, anche la bestia interiore. E perciò è da sconsigliare a molti la solitudine.
Vi fu sulla terra fino ad oggi qualcosa di più laido dei santi del deserto? Per essi e intorno ad essi non si scatenava soltanto il diavolo, ma anche il porco."

14

Timidi, vergognosi, impacciati, simili a una tigre che abbia sbagliato il salto: così, o Uomini Superiori, vi ho visto spesso strisciare. Era un lancio che vi era riuscito male.
Ma voi, giocatori di dadi, che avete fatto! Non avete imparato a giocare e a prendere in giro, come si deve giocare e prendere in giro! Non sediamo forse sempre ad un grande tavolo da gioco e d'ironia?
E se a voi non è riuscito qualcosa di grande, siete forse voi stessi, per questo sbagliati? E se siete sbagliati. voi, è sbagliato forse per questo l'uomo? Ma se è sbagliato l'uomo: bene, allora!

15

Quanto più alto il suo genere, tanto più di rado riesce bene una cosa. Voi qui, Uomini Superiori, non siete tutti riusciti male?
State allegri, che importa! Quante cose sono ancora possibili! Imparate a ridere di voi stessi, come si deve ridere!
Qual meraviglia che voi siate riusciti male o a mezzo, voi mezzi falliti! Non fermenta e getta polloni in voi il futuro dell'uomo?
Quanto nell'uomo è più lontano, più profondo, più stellare, la sua forza inaudita, non spuma e gorgoglia tutto insieme nei vostri vasi?
Qual meraviglia che qualche vaso si rompa!
Imparate a ridere di voi stessi, come si deve ridere! O voi, Uomini Superiori, quante cose sono ancora possibili!
E intanto quante cose sono già riuscite! Come è ricca questa terra di piccole e buone cose perfette, di cose ben riuscite!
Ponetevi accanto piccole buone cose perfette, voi, Uomini Superiori! La cui dorata maturità risana il cuore. Le cose perfette inducono a sperare.

16

Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: 'Guai a coloro che ridono!'? Non trovò egli sulla terra nessun motivo di riso? Vuoi dire che cercò male. Anche un bambino lo trova.
Costui non amava abbastanza: altrimenti avrebbe amato anche noi, i ridenti! Ma egli ci odiava e ci spregiava, e ci augurava strida e dolor di denti. Ma che forse è necessario subito maledire quando non si ama? Mi sembra una cosa di cattivo gusto. Senonché, così faceva lui, quell'uomo che non veniva a patti, l'assolutista. Proveniva dal popolo. Non amava abbastanza: questo era il suo guaio: altrimenti si sarebbe meno adirato per il fatto che non lo amavano. Ogni grande amore non vuole amore: vuole qualcosa di più. Sfuggite tutti questi assolutisti! È una povera gente malata, una schiatta plebea: guardano con occhio storto la vita, hanno il malocchio nei riguardi della terra.
Sfuggite tutti gli assolutisti! Hanno piedi pesanti e cuori opprimenti: non sanno danzare. Eppure come potrebbe esser loro lieve la terra!

17

Tutte le buone cose giungono per vie ricurve ai loro fini. Simili a gatti, fanno l'arco e borbottano interiormente le fusa davanti alla loro felicità che è prossima; tutte le buone cose ridono.
Il passo tradisce e fa vedere se taluno già cammina per la sua strada: così voi vedete camminare me! Ma colui che giunge in prossimità della sua mèta, quello danza.
In realtà non sono ancora diventato una statua, né sto in piedi rigido, tonto, impietrito come una colonna; amo la rapida corsa.
E anche se sulla terra vi sono paludi e forti tormenti: chi ha piedi leggeri corre sul fango e danza come su ferro polito.
Sollevate i vostri cuori, fratelli miei, sù! Più in alto! e non dimenticate le gambe! Sollevate anche le vostre gambe! Voi buoni danzatori; ancor meglio: ponetevi a capo all'in giù!

18

Questa corona del ridente, questa corona di rose: io stesso mi sono messo sulla testa questa corona, io stesso ho santificato il mio riso. Non ho trovato nessun altro abbastanza forte per questo.
Zarathustra il danzatore, Zarathustra il leggero, che fa cenni con le ali, pronto al volo, amico di tutti gli uccelli, preparato e disposto, agile alla gioia e alla serenità:
Zarathustra l'indovino, colui che parla chiaro e ride chiaro, non impaziente, non assolutista, colui che ama il santo e la scappata; io stesso mi sono posto in testa questa corona!

19

Sollevate i vostri cuori, o miei fratelli, in alto! Più in alto ancora! E non dimenticate le gambe! Sollevate anche le vostre gambe, o voi buoni danzatori, e meglio ancora: ponetevi a capo all'in giù!
V'è anche nella felicità l'animale pesante, vi sono coloro che hanno piedi piatti sin dall'inizio. E si sforzano goffamente, simili ad un elefante, che cerchi di stare in piedi sulla testa.
Ma meglio essere folleggianti di felicità che folleggiare per la disgrazia, meglio danzare rozzamente, che camminare zoppi, perché così mi insegna la mia saggezza: anche la cosa peggiore ha due buone facce:
anche la cosa peggiore ha buone gambe danzanti: perciò imparate, o Uomini Superiori, a star bene in gamba sulle vostre gambe diritte!
E dimenticate le bolle del dolore e tutte le tristezze plebee! O come mi appaiono tristi oggi questi buffoni plebei! Ma l'oggi è della plebe.

20

Fate come il vento, quando si precipita dalle sue forre montane: vuol danzare sul ritmo del proprio flauto e i mari tremano e sobbalzano sotto le sue orme.
Dà ali all'asino, munge le leonesse; sia lodato questo spirito buono e indomito che sopraggiunge come un vento di tempesta su ogni oggi e su ogni plebe, nemico delle teste di cardo e dei cavillatori e di tutte le foglie vizze e della gramigna: lodato sia questo libero selvaggio spirito tempestoso, che danza sulle paludi e sulle angosce come su prati!
Che odia gli alani plebei e ogni genere torbido di gente mancata: lodato sia questo spirito di tutti i liberi spiriti, la tempesta ridente, che soffia polvere negli occhi a tutti quelli che vedono nero e hanno la foruncolosi.
Voi, Uomini Superiori! La cosa vostra peggiore è questa: che non avete imparato a danzare come si deve, a danzare al di là di voi stessi! Che importa che siate venuti sù male!
Quante cose sono ancora possibili! Perciò imparate una buona volta a ridere su di voi stessi! Sollevate i vostri cuori, voi buoni danzatori, in alto! più in alto! e non dimenticate anche il buon riso!
Questa corona del ridente, questa corona di rose: a voi, o miei fratelli, io lancio questa corona! Ho santificato il riso; voi Uomini Superiori, imparate a ridere!

IL CANTO DELLA MALINCONIA

1

Mentre Zarathustra diceva queste cose, stava in piedi presso l'ingresso della sua caverna; ma nel dire le ultime parole, sfuggì ai suoi ospiti e volò per un istante all'aperto.
O puri profumi intorno a me - esclamò - o calma beata che mi avvolge! Dove sono i miei animali? Sù, sù, venite fuori, o mia aquila o mio serpente! Ditemi, animali miei, tutti questi Uomini Superiori insieme non mandano forse buon odore? Puri profumi intorno a me! Ora so e sento finalmente come io, o miei animali, vi amo.
E Zarathustra ripeté ancora una volta:
Io vi amo, animali miei!
Ma l'aquila e il serpente gli si fecero presso, quando egli pronunciò queste parole, e lo guardarono negli occhi. Così furono in tre ad annusare sereni insieme l'aria buona. Perché l'aria là fuori era migliore che presso gli Uomini Superiori.

2

Ma appena Zarathustra ebbe abbandonato la sua grotta, si alzò
il vecchio mago, volse intorno lo sguardo astuto e disse: Se n'è andato! E già, o voi, Uomini Superiori - per stuzzicarvi con il medesimo nome adulatorio ed elogiativo che vi dava lui - già mi sento prendere dal mio cattivo spirito d'inganno e di magia, dal mio diavolo melanconico, che perciò è nemico di questo Zarathustra: perdonatelo! Ora egli vuole far magie davanti a voi, è proprio la sua ora; ed io lotto invano per questo spirito maligno.
A voi tutti, qualunque siano i titoli che vi date da voi stessi, chiamandovi 'spiriti liberi', 'veritieri', 'pentimento dello spirito' o 'invasati' o 'grandi nostalgici', a voi tutti che soffrite come me della grande ripugnanza, per cui il vecchio dio è morto e non è ancora apparso alcun nuovo dio in fasce, a voi tutti giunge propizio il mio spirito maligno e diavolo incantatore.
Vi conosco, Uomini Superiori, e conosco lui; conosco anche questo tipaccio, che io amo contro voglia, questo Zarathustra: spesso mi sembra simile ad una bella larva di santo, ad una nuova strana figura in maschera, in cui si compiace il mio cattivo spirito di diavolo melanconico: io amo Zarathustra, così mi sembra spesso, proprio a causa del mio cattivo spirito. Ma già mi assale e mi costringe, questo spirito di malinconia, diavolo crepuscolare: e veramente, o voi Uomini Superiori, ci si diverte - aprite bene gli occhi! - ci si diverte, a giungere nudo, non so se in forma di maschio o di femmina; ma viene, mi costringe; ahimè! aprite bene i vostri sensi!
Il giorno si spegne, su tutte le cose sopraggiunge ora la sera, anche sulle cose migliori; ascoltate e guardate, voi Uomini Superiori, qual diavolo sia, maschio o femmina, questo spirito della malinconia serale!

Così parlò il vecchio mago, si guardò intorno e poi pose mano alla sua arpa.

3

Quando la luce schiara,
e quando la rugiada il suo ristoro
sopra la terra piove;
invisibile, ed anche non udibile,
perché tènere scarpe porta ai piedi
quella ristoratrice come tutti
coloro che ristorano: pensa, mio caldo cuore,
come un giorno sitivi,
avevi sete di celesti lacrime
e di rugiada, combattuto e stanco,
mentre su erbosi sentieri giallastri
intorno a te, attraverso alberi neri,
maligni raggi a sera trascorrevano,
sguardi accecanti dell'occhio solare?

'Tu innamorato della verità?' e ridevano;
'No! Sei solo un poeta!
Un animale, lento, predatore,
che vuol mentire,
deve sapendo e volendo mentire:
cercare prede,
dipinto e mascherato,
di se stesso una larva,
e di se stesso preda.
Innamorato della verità?
No! Solo un pazzo! Soltanto un poeta!
Che parla per immagini,
da folli larve esalando i suoi gridi,
vien giù su ponti fatui di parole,
giù lungo variopinti arcobaleni,
tra falsi cieli
e false terre,
vagabondo vagante,
è solo un pazzo! Soltanto un poeta!

Innamorato della verità?
Non calmo, ma immoto, freddo e lucido,
divenuto una statua,
divina colonna,
non posto in faccia ai templi,
sentinella di un dio:
no! ma ostile egli a questi monumenti
del vero, in ogni selva più che in templi
di casa,-pieno di felino slancio,
sgattaiolante dentro ogni finestra,
dentro ogni caso,
frugante ogni foresta
primordiale appassionatamente,
onde tu nelle selve
primordiali tra variopinte belve
correvi sano e bello e peccatore,
con le labbra bramose,
sanguinano infernale ed irrisore,
correvi, insidiatore e rapitore:

oppure come l'aquila che lunghi, lunghi
sguardi configge nell'abisso,
nei precipizi suoi:
oh, com'esse laggiù,
sempre più laggiù in basso,
in sempre più profondi abissi volgono!
Poi,
d'un tratto, a capofitto
con istintivo volo,
si gettan sugli agnelli,
di colpo, affamate,
bramose degli agnelli,
terribili per le anime di agnello,
terribili per tutto ciò che ha occhi
pecorili, lanosi, occhi d'agnello,
grigi, benevoli occhi dell'agnello!

Così
aquilee e come di pantera
sono le bramosie del poeta,
i desideri tuoi fra mille larve,
tu pazzo! Tu poeta!

Tu che guardavi agli uomini,
pecora insieme e Dio:
strappare Iddio nell'uomo,
la pecora nell'uomo,
e ridere strappando:
questa, questa è la tua felicità!
Felicità d'aquila e di pantera!
Felicità di un poeta e di un pazzo!'

Quando l'aria si schiara,
la falce della luna
verde tra rossi fuochi
invidiosà vien fuori:
nemica del giorno,
furtiva ad ogni passo
su cascate di rose
falciando, finché cadono,
cadono a notte pallide spioventi:

così io stesso caddi un giorno giù
dalla follia della mia verità,
dall'ansia del mio giorno,
stanco del giorno, malato di luce;
discesi verso la sera e l'ombra:
solo, arso ed assetato
dell'Una Verità:
ricordi ancora, o caldo cuore tu,
qual sete avevi?
Ch'io sia dunque bandito
da ogni verità,
solo un pazzo!
Un poeta!

DELLA SCIENZA

Così cantò il mago: e tutti coloro che erano lì radunati, entrarono, senza accorgersene, come uccelli, nella rete della sua astuta e melanconica voluttà. Soltanto il coscienzioso dello spirito non era stato acchiappato: strappò all'istante l'arpa di mano al mago e gridò: Aria! Lasciate entrare l'aria pura! Lasciate entrare Zarathustra! Tu rendi questa caverna opprimente e pestifera, vecchio mago malvagio! Tu seduci, falso, astuto, a desideri e a selvaggi luoghi sconosciuti. E guai se uno come te si dedica con le parole e con gli atti alla verità! Guai a tutti i liberi spiriti che non stanno in guardia da tali maghi! La loro libertà è finita: tu persuadi e attrai nelle carceri, tu vecchio demonio melanconico! Dai tuoi lamenti risuona un richiamo flautato; tu sei come coloro che con i loro elogi di castità segretamente invitano alla voluttà!
Così parlò il coscienzioso; ma il vecchio mago guardava intorno a sé, godeva della sua vittoria, e perciò mandava giù la rabbia che gli faceva il coscienzioso.
Sta' zitto! disse a bassa voce. - I buoni canti esigono una buona risonanza; dopo un buon canto è necessario un lungo silenzio. Così fanno tutti qusti Uomini Superiori. Hai forse capito poco del mio canto? In te c'è poco di spirito magico.
Tu mi lodi - ribatté il coscienzioso - separandomi da te; bene! Ma voi altri, che cosa vedo? Sedete tutti ancor lì con sguardi cupidi, voi, anime libere, dove è la vostra libertà! Quasi mi sembrate come coloro che hanno guardato a lungo danzare donne nude e sfrontate: le vostre stesse anime danzano!
In voi, Uomini Superiori, deve esserci molto di ciò che questo mago chiama il suo malvagio spirito di magia e di inganno: dobbiamo ben essere diversi.
In realtà, abbiamo parlato e discusso abbastanza insieme, prima che Zarathustra ritornasse alla sua caverna, perché io non ignorassi quanto noi siamo diversi.
Anche quassù cerchiamo cose diverse, voi ed io.
Io infatti cerco maggior sicurezza, perciò sono venuto da Zarathustra. Egli è infatti la più salda torre e volontà, oggi, mentre tutto tentenna, mentre tutta la terra trema. Ma voi, se guardo negli occhi che fate, mi sembra quasi che cerchiate maggior insicurezza, maggior orrore, maggior pericolo, maggior terremoto. Quasi
penserei che siate tentati, perdonate la mia presunzione, Uomini Superiori, siate tentati anche dalla peggiore e più pericolosa vita, quella che maggiormente mi fa paura, dalla vita delle bestie selvagge, dalle foreste, dalle caverne, dai monti scoscesi e dagli ingannevoli precipizi.
E non vi piace chi vi conduca fuori dal pericolo, bensì chi vi conduca per ogni strada, cioè il corruttore. Ma, se tale bramosia è realmente in voi, pur tuttavia essa mi sembra impossibile.
La paura, infatti, è il sentimento fondamentale ed ereditario dell'uomo; con la paura si spiega ogni cosa, il peccato originale e la virtù ereditaria. Dalla paura è nata anche la mia virtù, che si chiama scienza.
La paura, infatti, delle bestie selvagge, che venne più a lungo coltivata nell'uomo, compresa la bestia che è nascosta in lui e che egli teme, e che Zarathustra chiama 'la bestia interiore'.
Questa antica paura, divenuta alla fine sottile, spirituale, religiosa, oggi mi sembra quella che viene chiamata scienza.

Così parlò il coscienzioso; ma Zarathustra, che stava rientrando nella sua caverna e aveva udito l'ultimo discorso e ne aveva indovinato il senso, gli gettò una manciata di rose e rise delle sue ‘verità’.
Come! esclamò. – Che cosa ascolto qui? Veramente o sei pazzo tu o lo sono io: io capovolgo la tua 'verità'.
La paura infatti, la nostra, è eccezione. Il coraggio e l'avventura e la passione dell'incerto e dell'intentato, il coraggio mi sembra che costituiscano tutta la preistoria dell'uomo.
Agli animali più selvaggi e coraggiosi egli ha invidiato e rubato le loro virtù: solo così divenne uomo.
Questo coraggio, fattosi alla fine sottile, spirituale, religioso, questo coraggio umano con il volo dell'aquila e la prudenza del serpente: questo, mi sembra che si chiami oggi...

Zarathustra! gridarono tutti insieme coloro che erano lì radunati, come con una sola bocca; e fecero una grande risata; ma da essi si levò come una nuvola greve. Anche il mago rise e aggiunse con astuzia: Bene! Se n'è andato, il mio spirito maligno!
Non vi ho forse messo in guardia contro di lui, quando vi dissi che era un imbroglione, uno spirito falso e ingannatore?
Specialmente poi quando si presenta nudo. Ma che cosa posso io contro le sue insidie! Ho forse creato io lui e il mondo?
Ebbene! Torniamo di nuovo buoni e d'accordo! Anche se Zarathustra mi guarda male - guardatelo là! Nutre rancore contro di me - prima che venga la notte, imparerà di nuovo ad amarmi e lodarmi; non può vivere a lungo senza fare tali sciocchezze.
Egli ama i suoi nemici: e pratica quest'arte meglio di tutti quelli che ho conosciuto. Ma di ciò si vendica appunto sui suoi amici!

Così parlò il vecchio mago, e gli Uomini Superiori lo applaudirono: così che Zarathustra andò in giro e con malizia e amore strinse la mano ai suoi amici, simile ad uno che voglia intendersi con tutti e chieder loro scusa di qualcosa. Ma come giunse alla porta della sua caverna, ecco che già lo assaliva di nuovo il desiderio di uscir fuori e dei suoi animali; e voleva sgusciar via.

TRA LE FIGLIE DEL DESERTO

Non andartene! - esclamò allora il viandante che chiamava se stesso l'ombra di Zarathustra. - Rimani con noi, altrimenti potrebbe di nuovo assalirci la vecchia e cupa afflizione. Già quel vecchio mago ci ha dato quanto di peggio aveva, e guarda ora, il buono e pio Papa ha le lacrime agli occhi e si è già imbarcato di nuovo sul mare della malinconia. Questi re vorrebbero fare una buona figura davanti a noi: essi infatti hanno appreso a far ciò meglio di tutti noi! Ma se non avessero testimoni, scommetto che anche loro ricomincerebbero il gioco malvagio, il maligno gioco delle nubi vaganti, della molle malinconia, del cielo coperto, del sole offuscato, del sibilante vento autunnale, il maligno gioco degli ululati e delle grida di dolore: rimani con noi, o Zarathustra! Qui c'è molta miseria nascosta che vuole parlare, molta sera, molte nubi, molta aria pesante! Tu ci hai nutrito di forte cibo virile e di efficaci sentenze: non lasciare che alla frutta ci assalgano di nuovo spiriti fiosci ed effeminati! Tu solo rendi l'aria intorno a me penetrante e pura! Dove ho mai trovato sulla terra un'aria così buoi na come da te nella tua caverna? Ho veduto molti paesi, il mio naso ha imparato a sentire e ad apprezzare molte atmosfere: ma presso di te le mie narici gustano il loro più grande piacere!
Tranne… tranne... Oh, perdonami un vecchio ricordo! Perdonami un vecchio canto conviviale, che io composi un giorno tra le figlie del deserto: presso di loro infatti c'era una consimile buona chiara aria orientale; là io ero lontano dalla vecchia Europa nuvolosa umida malinconica!
Allora amavo quelle figlie dell'oriente e un altro azzurro regno dei cieli, sul quale non gravavano né nubi né pensieri.
Voi non potete credere come esse stavano graziosamente sedute quando non danzavano, profonde, ma senza pensieri, come piccoli segreti, come enigmi infiocchettati, come noci conviviali, variopinte e strane in verità, ma senza nubi: enigmi che si lasciavano indovinare: per amore di queste fanciulle io inventai allora un salmo conviviale.

Così parlò il viandante e l'ombra; e prima che qualcuno gli rispondesse, aveva già afferrato l'arpa del vecchio mago e incrociato le gambe, guardando intorno a sé calmo e saggio; ma con le narici aspirava lentamente, interrogando l'aria, come uno che in un paese nuovo annusi la nuova aria straniera. Poi con una specie di muggito si mise a cantare.


2

Il deserto cresce: guai a colui che nasconde in sé dei deserti!

Ah! Grandioso!
Proprio grandioso!
Un degno principio!
Grandioso e africano!
Degno di un leone
o di una scimmia urlatrice o moralista, ma non per voi.
Voi, carissime amiche,
ai cui piedi a me
la prima volta,
europeo sotto i palmizi,
è concesso posare. Sela [Espressione tratta dalla Bibbia: ‘finito’, ‘non se ne parla più’].

Ma è strano veramente!
Là seggo io ora,
vicino al deserto, e di già
lontano dal deserto,
devastato, nel nulla:
proprio ingollato giù
da quest'oasi minuscola:
essa aprì la sua bocca
graziosa sbadigliando,
la più olezzante di tutte le fauci:
ed io vi caddi, di là, laggiù, fra voi,
voi carissime amiche! Sela.

Salve, a quella balena,
quando permise all'ospite
di restar vivo! Capite
la mia dotta allusione?
Salve al suo ventre,
se era dunque
ventre amabile d'oasi siccome
questo: ciò che io però non credo,
perché vengo d'Europa,
terra più dubitosa che ion tutte
le vecchie mogli e femmine.
Possa Dio migliorarla!
Amen!

Ecco ch'io seggo in quest'oasi minuscola, simile ad un dattero, bruno, indolcito, stillante d'oro, ansioso
d'una rotonda bocca di ragazza,
ma ancora più dei taglienti incisivi,
freddi, di una ragazza, come neve bianchi: verso i quali anela appunto
il cuore di ogni caldo dattero. Sela.

Simile a questi frutti
del sud, fin troppo simile
giaccio io qui, qui, da piccoli
alati insetti
contornato e aggredito,
simili ad ancor più piccoli
pazzerelli colpevoli
desideri e capricci,
circondato da voi,
silenziose, piene di presagi
ragazze gatto,
Dudu e Suleika, sfingeo,
sì che in un detto
molti sensi io comprimo:
(e mi perdoni Iddio
queste colpe linguistiche!)
io seggo qui, spirando l'atmosfera,
aria di paradiso,
aria lucente e lieve, aria soffusa
d'oro, di cui migliore
dalla luna mai scese,
e fu forse per caso,
o accadde per trabocco di coraggio?
Come gli antichi poeti raccontano.
Ma io dubbioso metto
ciò in dubbio, perché vengo
dall'Europa,
terra più dubitosa che non tutte
le vecchie mogli e femmine.
Possa Dio migliorarla!
Amen!

Bevendo questa splendida atmosfera,
con le narici gonfie come coppe,
senza futuro, senza rimembranza,
io seggo qui, tra voi,
amiche mie carissime,
e contemplo la palma,
che simile ad una danzatrice
si piega e torce e nei fianchi si dondola,
e a guardarla vien fatto di imitarla!
Simile a danzatrice che, mi sembra,
a lungo già, pericolosamente
a lungo sempre su una gamba stava?
E così essa, mi sembra, obliò
d'aver quell'altra gamba?
Invano almeno io
ho cercato il gioiello,
il perduto gemello
- intendo l'altra gamba -,
nella prossimità
sacra della sua cara e sì graziosa
sottana dondolante e sventolante.
Sì, se volete, o belle amiche mie,
credermi interamente:
lei l'ha proprio perduta!
Perduta!
Per sempre l'ha smarrita, l'altra gamba!
Peccato, per quell'altra cara gamba!
E dove può mai stare ora triste e abbandonata
la gamba solitaria?
Impaurita essa è forse
da un truce biondo e riccio
selvatico leone? Oppure è già
scorticata e svuotata,
pietosamente, ahimè, sbocconcellata! Sela.

Oh, non piangete,
voi teneri cuori!
Non piangete,
cuori di dattero e seni di latte!
Voi cuoricini
di liquirizia!
Non pianger più,
tu pallida Dudù!
Sù, Suleika! Coraggio!
Oppure dovrebbe
qualcosa di più forte,
corroborante, fare a te del bene?
Un detto benedetto?
Un appello solenne?

Sù, forza, dignità!
Virtuosa dignità! Degna d'Europa!
Soffia, sù, soffia ancora,
mantice di virtù!
Ah!
Ruggi ancora una volta, moralisticamente!
Leone moralistico,
ruggi innanzi alle figlie del deserto!
Ché un virtuoso ululato,
carissime fanciulle,
vale assai più che tutto
il fervore europeo e la sua fame!
Ed io qui sono pronto,
perché sono europeo,
né altro posso, mio Dio!
Amen!

Il deserto cresce: guai a colui che nasconde in sé dei deserti!

IL RISVEGLIO

Dopo il canto del viandante e dell'ombra, la caverna si riempì d'un tratto di rumore e di risa: e poiché gli ospiti radunati parlavano tutti insieme, e anche l'asino, incoraggiato in tal modo, non stava più tranquillo, Zarathustra fu preso da un certo malumore ironico contro i suoi ospiti, quantunque contemporaneamente gioisse della loro allegria. Poiché essa gli apparve come un segno di guarigione. Così che scivolò all'aperto e parlò ai suoi animali.
Dove se n'è andata la loro angoscia? - esclamò, e già respirava meglio lui stesso riprendendosi dal suo piccolo disappunto. Da me hanno dimenticato, mi sembra, l'urlo di dolore!
Anche se, purtroppo, non ancora l'urlo.
E Zarathustra si chiuse le orecchie con le mani, perché appunto si andava mescolando l'I-A [Ja= Sì in tedesco!] dell'asino in singolar modo con il rumore del giubilo di quegli Uomini Superiori.
Sono allegri - cominciò di nuovo – e, chissà? forse a spese del loro ospite; anche se essi hanno imparato da me a ridere, non è tuttavia il mio riso quello che essi hanno appreso. Ma che importa! Sono gente vecchia: guariscono a modo loro, ridono a modo loro; le mie orecchie hanno già sopportato cose peggiori e non sono per questo divenute scontrose.
Questo giorno è giorno di vittoria: già discende, già vola, lo spirito della pesantezza, il mio antico grande nemico! Come finirà bene questo giorno, che era cominciato così male e così pesante!
E finire adesso vuole. Già viene la sera: cavalca sul mare, la brava cavallerizza! Come oscilla felice, lei che rientra, nelle sue selle purpuree!
Il cielo guarda chiaro dall'alto, il mondo si distende più in basso: o voi, strane creature che siete veflute a me, vale la pena di vivere presso di me! w
Così parlò Zarathustra. E di nuovo proveniva a lui il grido e il riso degli Uomini Superiori dalla caverna: anzi, proprio in quel momento, ricominciò.
Abboccano, la mia esca agisce, si allontana da essi anche il loro nemico, lo spirito della pesantezza. Già essi imparano a ridere di se stessi: sento bene?
Il mio cibo virile agisce, il mio dire pieno di forza e di succhi: e veramente non li ho nutriti di falsi legumi! Ma con cibo di guerrieri, cibo di conquistatori: nuove bramosie ho risvegliato in loro.
Nuove speranze sono nelle loro braccia e nelle loro gambe, il loro cuore si tende. Essi trovano nuove parole e il loro spirito respirerà presto coraggio.
Un tal cibo non è certamente per bambini, né per femmine nostalgiche vecchie o giovani. Per le loro viscere ci vuole altro; io non sono né il loro medico né il loro educatore.
Lo schifo si allontana da questi Uomini Superiori: bene! questa è la mia vittoria. Nel mio regno essi si sentono sicuri, ogni sciocca vergogna si dissipa, si riscuotono.
Scuotono il loro cuore, tornano ad essi le ore buone, fanno feste e mangiano di nuovo, e divengono riconoscenti.
Questo è per me il miglior segno: divengono riconoscenti. Non passerà lungo tempo che essi inventeranno delle feste e innalzeranno delle pietre memoriali alle loro vecchie gioie.
Sono dei convalescenti!
Così parlò Zarathustra, lieto, al suo cuore e guardò fuori; ma i suoi animali fecero ressa intorno a lui e onorarono la sua gioia e il suo silenzio.


2

Ad un tratto l'orecchio di Zarathustra si riscosse: proprio la caverna, che fino ad allora era stata piena di rumore e di risa, divenne silenziosa, di un silenzio mortale; ma il suo naso avvertiva un vapore, come un incenso di tronchi di pino ardenti, che mandava un buon odore.
Che accade? Che stanno facendo? - si chiese, e si fece presso l'ingresso, in modo da poter vedere non visto i suoi ospiti. E, meraviglia delle meraviglie! Che mai doveva vedere!
Sono tutti diventati di nuovo pii, pregano, sono pazzi! w esclamò, e si meravigliò oltre misura. E, guarda un po'! tutti quegli Uomini Superiori, i due re, il papa fuori servizio, il cattivo mago, il mendicante volontario, il viandante e l'ombra, il vecchio indovino, il coscienzioso dello spirito e l'uomo brutto: tutti stavano in ginocchio come bambini e vecchie donne credenti e pregavano l'asino. Quand'ecco che l'uomo brutto cominciò a far gargarismi e sbuffare, come se dovesse venir fuori da lui qualcosa di inesprimibile; senonché, quando riuscì finalmente a parlare, vedi un po', era una pia strana litania in lode dell'asino venerato e adorato. Questa litania suonava così:
Amen! E lode e onore e sapienza e ringraziamento e premio e forza ál nostro Dio, di eternità in eternità!

Ma l'asino gridò I-A.
E
gli porta la nostra soma, assunse figura di servo, è paziente di cuore e non dice mai no; e chi ama il suo Dio, questi lo punisce.
Ma l'asino gridò I-A.
Non parla: anche se dice sempre SÌ al mondo da lui creato: così egli celebra il suo mondo. La sua astuzia è quella di non parlare: in tal modo è raro che abbia torto.
Ma l'asino gridò I-A.
Passa per il mondo con aspetto insignificante. Grigio è il colore del suo corpo in cui cela la sua virtù. Se ha spirito, lo nasconde; ma ognuno crede alle sue lunghe orecchie.
Ma l'asino gridò I-A.
Quale nascosta sapienza è quella di avere lunghe orecchie e di dir soltanto Sì, e mai No. Non ha forse creato il mondo a sua immagine, più stupido che fosse possibile?
Ma l'asino gridò I-A.
Tu percorri cammini diritti e storti; poco ti importa ciò che agli uomini sembra diritto o storto. Al di là del bene e del male è il tuo regno. La tua innocenza è di non sapere ciò che sia innocenza.
Ma l'asino gridò I-A.
Vedi come non allontani nessuno da te, né i mendicanti né i re. Lasci che il più piccolo bambino, se occorre, ti si avvicini, e se i cattivi' ragazzi ti prendono in giro tu dici semplicemente I-A.
Ma l'asino gridò I-A.
Ami le asinelle e i fichi freschi, non sei sofistico verso nessun dibo. Un cardo ti pizzica il cuore se hai fame. In questo c'è in te una sapienza divina.
Ma l'asino gridò I-A.

LA FESTA DELL'ASINO

Ma a questo punto della litania, Zarathustra non poté più trattenersi, gridò anche lui I-A, ancora più forte dell'asino, e saltò in mezzo ai suoi ospiti impazziti. Ma che cosa state facendo, figlioli? gridò, tirando sù coloro che pregavano a terra. - Guai se vi vedesse qualche altro oltre Zarathustra! Ognuno riterrebbe che voi con il vostro nuovo credo foste divenuti i peggiori bestemmiatori o le più pazze di tutte le vecchie beghine! E tu stesso, vecchio papa: come metti d'accordo quel che tu stai facendo con la tua persona, adorando in tal modo un asino come se fosse un dio?
O Zarathustra - rispose il papa perdonami - ma nelle cose di Dio io sono persino più esperto di te. E così è giusto. Adorare il signore Iddio, in questa figura, come in nessuna figura! Pensa a questo detto, mio nobile amico: tu comprendi subito che in questo detto sta la verità. Colui che disse: 'Dio è Spirito' fu anche colui che fino ad oggi sulla terra ha fatto il passo e il salto più lungo verso l'ateismo: un detto di questo genere non è facile ripararlo! Il mio vecchio cuore salta e balza dalla gioia nel vedere che sulla terra v'è ancora qualcosa da adorare. Perdona ciò, o Zarathustra, ad un vecchio pio cuore di papa!
E tu - disse Zarathustra al viandante e all'ombra – tu ti dici e ti ritieni uno spirito libero? E ti dai qui a servizi superstiziosi e preteschi di questo genere? Invero tu ti comporti qui peggio che con le tue maligne ragazze brune, o cattivo nuovo credente!
Abbastanza male - ribatterono il viandante e l'ombra - questo sì, hai ragione: ma che cosa posso farci io! Il vecchio Dio rinasce, o Zarathustra, puoi dire quel che vuoi. Il bruttissimo uomo è colpevole di tutto ciò: è lui che l'ha risvegliato. E se dice di averlo un giorno ucciso, la morte, a proposito di dèi, è sempre un pregiudizio.
E tu - esclamò Zarathustra - tu, cattivo vecchio mago, che cosa hai fatto! Chi potrà in questo libero tempo continuare a crederti, se tu credi a tali divine asinità? È stata una sciocchezza, quella che hai fatto; e tu, che sei un uomo intelligente, come hai potuto farla?
O Zarathustra - rispose il mago intelligentehai ragione, è stata una sciocchezza, e ora mi pesa abbastanza.
E tu, poi - disse Zarathustra al coscienzioso dello spirito - pensa un po' e mettiti un dito al naso! Non senti nulla contro la tua coscienza? Non è il tuo spirito troppo sofisticato per questo pregare e incensare di questi tuoi fratelli oranti? w
C'è qualcosa - rispose il coscienzioso, e si pose un dito al naso; c'è qualcosa in questo spettacolo che fa persino bene alla mia coscienza.
Forse è vero che io non devo credere a Dio: ma una cosa è certa, che Dio sotto questo aspetto mi pare ancora che si presenti nella forma più degna di fede.
Dio deve essere eterno, secondo la testimonianza dei più credenti: e chi ha tanto tempo non si dà pena del tempo. Più lentamente e stupidamente che è possibile; in tal modo, un essere di questo genere può riuscire a far molte cose.
E chi ha troppo spirito farebbe bene a innamorarsi fino alla follia della stupidità e della follia. Pensa a te stesso, o Zarathustra!
Tu stesso, in realtà! anche tu potresti divenire un asino per troppa gioia e saggezza.
Non percorre volentieri un saggio perfetto le strade più tortuose? L'apparenza lo dice, o Zarathustra, la tua apparenza.

E tu stesso, infine – esclamò Zarathustra, e si rivolse verso l'uomo bruttissimo che era ancora a terra con il braccio alzato verso l'asino (gli stava proprio dando da bere del vino). – Parla, o inesprimibile, che cosa hai mai fatto? Mi sembri cambiato, il tuo occhio arde, il mantello del sublime avvolge la tua bruttezza: che cosa hai fatto?
È vero quel che dicono quelli là, che tu lo hai risvegliato? E perché? Non era bene che fosse morto e seppellito?
Tu stesso mi sembri risvegliato: che cosa hai fatto? Che cosa hai invertito? Come ti sei convertito? Parla, o inesprimibile!

O Zarathustra – rispose l'uomo bruttissimo – tu sei un briccone!
Se vive o rivive o è definitivamente morto, chi di noi due può saperlo meglio? Lo chiedo a te. Ma una cosa io so: proprio da te l'appresi una volta, o Zarathustra: chi vuole uccidere nel modo più assoluto, ride.
'Non con l'ira, ma con il riso si uccide': così dicesti una volta. O Zarathustra, tu nascosto, tu distruttore senza ira, tu pericoloso santo, sei un briccone!



2

Allora accadde che Zarathustra, meravigliato di tutte queste risposte birbone, fece un salto indietro fin sulla porta della sua caverna e, rivolgendosi a tutti i suoi ospiti, gridò a gran voce:
O pazzi tutti quanti! Buffoni che vi nascondete e vi mascherate davanti a me! Come a ognuno di voi è sobbalzato il cuore di gioia e malignità per il fatto che voi siete finalmente ridivenuti come i fanciulli, vale a dire pii, per il fatto che avete fatto di nuovo come i fanciulli, e cioè vi siete messi a pregare, avete congiunte le mani dicendo: 'Dio mio'!
Ma ora andatevene da questa scuola d'infanzia che è la mia caverna, dove oggi si fanno un sacco di bambinerie. Raffreddate qua fuori il vostro entusiasmo infantile e il vostro rumore dei cuori!
Certo: se non diverrete come i fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli. w (E Zarathustra indicò con le mani in alto.)
Ma noi non sappiamo che farcene del Regno dei Cieli: siamo diventati uomini, vogliamo il Regno terrestre.



3

E ancora una volta Zarathustra riprese a parlare.
O miei nuovi amici - esclamò – voi straordinari, voi Uomini Superiori, come mi piacete ora, da che siete ridiventati allegri! Proprio siete tutti rifioriti: mi sembra che a tali fiori quali voi siete occorrono nuove feste, una qualche coraggiosa sciocchezza, qualcosa, come un rito sacro o una festa dell'asino, qualche gaio pazzo Zarathustra, un vento impetuoso, che soffi e rischiari le vostre anime.
Non dimenticate questa notte e questa festa dell'asino, voi Uomini Superiori! E ciò che voi avete inventato qui, presso di me, e io lo prendo come un buon augurio, cose di questo genere le inventano soltanto coloro che stanno guarendo!
E festeggiatela ancora questa festa dell'asino, fatelo per voi, e fatelo anche per me! E in memoria di me!

Così parlò Zarathustra.

IL CANTO EBBRO

1

Intanto quelli, l'uno dopo l'altro, se n'erano andati via all'aperto, nella fresca notte assorta; quanto a Zarathustra, prese per mano il più brutto degli uomini per mostrargli il suo mondo notturno e la grande luna rotonda e le argentee cascate d'acqua vicine alla sua caverna. Lì si fermarono, alla fine, in silenzio, l'uno accanto all'altro, uomini d'età avanzata, ma dal cuore saldo e confortato, meravigliati di stare così bene sulla terra, e l'intimo silenzio della notte scendeva più a fondo nel loro cuore. E ancora Zarathustra pensò tra sé: quanto mi piacciono questi Uomini Superiori!, ma non lo disse, poiché intendeva rispettare la loro felicità e ii loro silenzio.
Avvenne allora ciò che in quel tempo prodigioso fu la cosa più mirabile. Il più brutto degli uomini ricominciò a gorgogliare e starnutire, e quando riuscì a pronunciare parole, ecco che dalla sua bocca scaturì una domanda pura e armoniosa, una buona, chiara e profonda domanda, che fece balzare in petto il cuore a quanti l'udirono.
O voi, amici miei tutti quanti siete - disse quell'uomo bruttissimo – che ve ne sembra? Per amore di questo giorno io, per la prima volta, sono felice d'aver vissuto.
E non mi stanco di affermarlo. Vale la pena di vivere sulla terra: un solo giorno, una festa trascorsa con Zarathustra mi ha insegnato ad amare la terra.
È dunque questa la vita?, dico e ripeto alla Morte. Ebbene, se è così, ricominciamo!
Amici miei, che ve ne sembra? Non volete ripetere anche voi con me: È allora questa la vita ? E dunque: per amore di Zarathustra, ricominciamo!

Così parlò il più brutto tra gli uomini, e non mancava più molto a mezzanotte. Che credete che accadesse allora? Non appena gli Uomini Superiori udirono la sua domanda, divennero all'improvviso consapevoli della loro trasformazione e della loro guarigione e di colui al quale essi erano debitori. Allora corsero incontro a Zarathustra, ringraziandolo, ammirandolo, adorandolo, baciando le sue mani, festeggiandolo ciascuno a suo modo: alcuni infatti ridevano, altri piangevano. L'antico indovino danzava di gioia e anche se, come alcuni narratori affermano, egli era pieno di dolce vino, certamente era ancora più pieno di dolce vita e in lui non c'era più stanchezza. Alcuni narrano perfino che anche l'asino abbia danzato; non per nulla, infatti, quell'uomo bruttissimo gli avrebbe dato da bere del vino. Le cose possono essere andate in un modo o nell'altro, e anche se, nella realtà, quella sera l'asino non danzò, accaddero tuttavia cose assai più grandi e strane e meravigliose della danza di un asino. In breve, come dice lo stesso Zarathustra:
Che importa?


2

Ma Zarathustra, mentre accadevano tali cose con quell'uomo bruttissimo, rimase là, in piedi, come un ubriaco: l'occhio spento, la lingua balbettante, il passo vacillante. Chi potrebbe dire, oggi, di che genere fossero i pensieri che in quei momenti passavano per la mente di Zarathustra? E tuttavia appariva chiaro che il suo spirito si era ritirato lontano e volava in lunghe lontananze, come su un alto passo di monti - così è scritto - tra due mari, vagante fra il passato e l'avvenire come una densa nuvola. Ma poi, lentamente, mentre gli Uomini Superiori lo stringevano tra le braccia, tornò un poco in se stesso e allontanò con e mani la folla di coloro che volevano adorano e di quelli che erano in pena per lui; ma continuò a tacere. A un tratto, però, volse di scatto la testa, come se avesse udito qualcosa. Indi pose il dito alla bocca ed esclamò:
Venite! Ed ecco che intorno tutto si calmò e addolcì; dal profondo giungeva il lento rintocco di una campana. Zarathustra tese l'orecchio, come gli Uomini Superiori; ma poi pose ancora una volta il dito alla bocca ed esclamò di nuovo: Venite! Venite: si va incontro alla mezzanotte! - e la sua voce era mutata. Ma ancora egli non si muoveva: cresceva il silenzio, cresceva l'intima dolcezza dell'attesa, e tutti tendevano l'orecchio: anche l'asino e gli animali di Zarathustra, l'aquila e il serpente, e insieme la caverna di Zarathustra e la grande luna fredda e la notte stessa. Ma Zarathustra portò per la terza volta il dito alla bocca e disse: Venite! venite! venite! Cominciamo dunque a camminare! È l'ora! Cominciamo a camminare nella notte!


3

O voi, Uomini Superiori, si cammina verso la mezzanotte: ed io voglio dirvi qualcosa all'orecchio, così come a me parla all'orecchio quella vecchia campana, così dolcemente e segretamente, così terribilmente, così dal profondo del cuore, come parla a me quella campana di mezzanotte, che ha veduto tante più cose di un solo uomo. Essa già batteva per i vostri padri le ore del dolore: ahi! ahi!, come sospira! come ride nel sogno! l'antica, profonda, profonda mezzanotte! Zitti! Zitti! Ora, si sentono cose che di giorno non possono udirsi; ora, in questa fredda atmosfera in cui anche si placa ogni rumore del vostro cuore, ora sì che essa parla e si sente e si insinua nelle chiaroveggenti anime notturne: ahi! ahi!, come sospira! come ride nel sogno!
Non odi come essa ti parla segretamente, terribilmente dal fondo del cuore, l'antica, profonda, profonda mezzanotte?
O uomo, ascolta!



4

Guai a me! Dov'è mai fuggito il tempo? Non sono disceso in pozzi profondi? Dorme il mondo.
Ahi! Ahi! Il cane ulula, la luna risplende. Preferirei morire, sì, morire, piuttosto che dirvi ciò che pensa e sente il mio cuore di mezzanotte.
Ma io sono già morto. Tutto è finito. E tu, o ragno, che vai tessendo intorno a me? Vuoi forse sangue? Ahi! ahi! La rugiada discende, è giunta l'ora: l'ora che mi agghiaccia e fa tremare, che chiede e interroga e domanda: ‘Chi ha abbastanza cuore per questo? Chi dovrà essere il signore, della terra? Chi vorrà dire: questa è la vostra via, o grandi e piccole correnti!’
L'ora viene, o uomo; tu, Uomo Superiore, ascolta! Queste parole sono solo per orecchi fini, per i tuoi orecchi; che dice la profonda mezzanotte?



5

Così mi sento trasportato dall'ora e la mia anima danza. Opera del giorno! Opera diuturna! Chi dovrà essere il signore della terra?
La luna è fredda, tace il vento. Ahi! Ahi! Volate già abbastanza alto? Sì, voi danzate: ma una gamba non è un'ala.
O voi, eccellenti danzatori, tutta la gioia se ne va via. Il vino è diventato feccia, ogni calice s'è intorbidato, i sepolcri tentano parole.
Voi non volate abbastanza alti, e i sepolcri balbettano: 'Liberate dunque i morti! Perché è così lunga la notte? La luna non ci fa ebbri?'
Voi, Uomini Superiori, liberate, orsù, i sepolcri, risvegliate i morti! Oh, che sta scavando il verme? L'ora si avvicina, romba la campana, russa ancora il cuore, il tarlo ancora scava, il tarlo del cuore. Ah! ah! Profondo è il mondo!



6

Dolce lira! Oh, dolce lira! Io amo il tuo suono, il tuo ebbro suono di rospo! Da quanto tempo, da quale lontananza mi giunge il tuo suono! da laggiù, dai lagni dell'amore!
Tu, campana antica; tu, dolce lira! Ogni dolore ti s'impresse nel cuore, dolore di padre, dolore dei padri, dolore dei padri dei padri, e la tua parola si fece matura; matura come l'autunno e il pomeriggio d'oro, come il mio cuore solitario; e tu parli; il mondo s'è fatto maturo, la vigna s'imbruna, e ora vuoi morire, morire di felicità. Voi, Uomini Superiori, non ne sentite il profumo? Perché ne esala un profumo segreto, un alito e un odore di eternità, un roseo profumo di bruno vino dorato di antica felicità, d'ebbra felicità mortale di mezzanotte, la quale canta: profondo è il mondo, più profondo che il giorno non pensi!



7

Lasciami! lasciami! Io sono troppo puro per te. Non mi toccare! Non è dunque perfetto il mio mondo?
La mia pelle è troppo pura per le tue mani. Lasciami, stupido, sciocco, afoso giorno! Non è più chiara di te la mezzanotte?
I più duri dovranno ereditare il mondo, i più misconosciuti, i più forti, gli animi che appartengono alla mezzanotte, più chiara e profonda di qualunque giorno.
O giorno, brancolando tu mi cerchi? Vai cercando la mia felicità? Tu sai bene ch'io sono ricco, solitario, una miniera di tesori, un vero e proprio scrigno colmo di tesori.
O mondo, mi vuoi? Sono per i tuoi gusti abbastanza mondano? Sono per te abbastanza ieratico? Sono per te abbastanza divino? O giorno, e tu, mondo, siete troppo goffi, perché non possedete mani più sapienti, non carpite una più profonda felicità, un più profondo dolore, un qualche iddio, ma guardatevi bene dal tendere i vostri artigli verso di me: il mio dolore, la mia gioia sono profondi; o bizzarro giorno, ma io non sono un dio, né un divino inferno: profondo è il dolore.



8

Il dolore divino è più profondo, o tu, mondo bizzarro! Tendi le mani verso il dolore divino, non verso di me! Che cosa sono io? Una dolce lira ebbra, una lira di mezzanotte, una campana gracidante, che nessuno comprende, ma che deve parlare per I sordi, o voi, uomini Superiori! Giacché voi non mi comprendete!
Laggiù! laggiù! O giovinezza! Ora meridiana! Discendere del giorno! E venuta la sera e poi la notte e poi la mezzanotte, il cane ulula, e il vento: non è il vento un cane? Guaisce, abbaia, ulula. Ahil Ahi! come sospira, come ride, come rantola e ansima, la mezzanotte!
Come parla sobriamente, pur ebbra di poesia! Ha dunque superato in ebbrezza la sua propria ebbrezza? È dunque più che desta? Forse sta ruminando?
Il suo dolore sta ruminando, e sogna, l'antica profonda mezzanotte, sogna ancora più il suo piacere. Il piacere, sì, se già il dolore è profondo: il piacere è ancora più profondo del dolore.



9

E tu, o vite, perché m'esalti? Io t'ho tagliata! Io sono crudele, vedi: tu sanguini: che vuoi dire la tua lode della mia ebbra crudeltà!
'Tutto ciò che è perfetto, ogni cosa matura vuoi morire!' Così tu parli. Benedetto, benedetto il coltello del potatore! Ma, al contrario, tutto ciò che è immaturo vuole morire: o dolore!
[Partendo dall'intuizione della convergenza dei contrari, Nietzsche identifica il piacere col dolore: tuttavia la sua dottrina è fondata sull'esaltazione del piacere, come più profondo del dolore e come vera rivelazione dell'infinito della vita. È su questa intuizione del filosofo tedesco che si fonda la dottrina decadente di larga parte dell'edonismo contemporaneo, da D'Annunzio a Barbus, a Lawrence, eccetera]
Dice il dolore: 'Passa! Via, va' via, dolore!' Ma tutto ciò che soffre vuole vivere, per diventare maturo e gioioso e bramoso, desideroso della lontananza, delle altitudini vertiginose, delle più alte chiarità. 'Io voglio eredi', dice ogni cosa che soffre 'voglio figli, non voglio me stessa.'
Ma il piacere non vuole eredi, non vuole figli. La gioia vuole soltanto se stessa, vuole l'eternità, vuole l'eterno ritorno, vuole l'eterna identità con se stessa.
Dice il dolore: 'Spezzati, sanguina, cuore! Cammina, gamba! Ala, vola! Va' avanti! Sali, dolore!' Suvvia, coraggio! Andiamo! O mio vecchio cuore: dice il dolore: Passa!



10

Voi, Uomini Superiori, che ne pensate? Sono forse un indovino, un sognatore, un ebbro? Sono un interprete di sogni? Una notturna campana di mezzanotte?
Una goccia di rugiada? Un vapore e un profumo di eternità? Non sentite? Non fiutate? Non vedete che il mio mondo è ora perfetto e che la mezzanotte è anche mezzogiorno?
Il dolore è anche piacere, la maledizione anche benedizione, la notte è anche un sole; perciò allontanatevi oppure imparate che un savio è anche un folle.
Avete mai detto sì al piacere? O amici miei, allora voi avete detto sì anche a ogni dolore. Tutte le cose sono fra loro collegate, concatenate, innamorate l'una dell'altra.
Se mai avete voluto per due volte quel che aveste una volta, se mai avete detto: 'Tu mi piaci, o gioia! Va', attimo fuggente!', allora avete anche voluto che tutto ritornasse.
Tutto di nuovo, tutto eternamente, tutto collegato, concatenato, l'uno dell'altro innamorato, oh allora, così, voi amate il mondo, voi eterni, amatelo in eterno e per ogni tempo, e anche al dolore dite: 'Passa, ma ritorna! Poiché ogni gioia vuole eternità!'



11

Ogni gioia vuole l'eternità di tutte le cose, vuole il miele e la feccia, vuole l'ebbra mezzanotte, vuole i sepolcri, vuole il conforto delle lacrime sui sepolcri, vuole il tramonto d'oro; che cosa non vuole la gioia! La gioia è più assetata, cordiale, affamata, terribile, intima che non ogni dolore; vuole se stessa, affonda i denti in se stessa, e la volontà dell'anello lotta in lei [Chiara allusione all'Anello del Nibelungo dl Wagner. "La volontà dell'anello" è la volontà di potenza, di ricchezza: causa, in Wagner, della rovina dei Nibelunghi, degli dèi (Crepuscolo) e del mondo. In Nietzsche, profeta della volontà di potenza, diventa invece motivo di esaltazione], vuole amore, vuole odio, è colma di ricchezze, dona, è prodiga, elemosina chi la voglia, ringrazia chi la prende, chiederebbe persino di essere odiata [Allusione al motivo masochistico del piàcere che si ricava dall'umiliazione e dal dolore fisico e morale], tanto ricca è la gioia che ha sete di dolore, di inferno, di odio, di umiliazione, di mutilazione, di mondo; e questo mondo, oh, voi sapete cos'è!
E voi, Uomini Superiori, anche a voi si offre la gioia, l'infrenabile, la felice gioia; si offre al vostro dolore, oh voi, sgorbi di voi stessi! Ogni gioia che è eterna si protende verso l'imperfezione e l'errore.
Perché ogni gioia vuole se stessa, e perciò vuole anche il dolore! O felicità, o dolore! Oh, infrangiti, cuore! Voi, Uomini Superiori, imparate dunque: il piacere vuole eternità.
Il piacere vuole l'eternità di tutte le cose, la profonda, profonda eternità.


12

Avete appreso il mio canto? Avete capito che vuoi dire? Sù dunque! Ebbene! Voi, Uomini Superiori, cantatemi ora la mia canzone a ballo!
Intonate voi stessi il canto il cui titolo è 'Ancora una volta' e il cui senso è 'In ogni eternità'! - Cantate, voi, Uomini Superiori, la ballata di Zarathustra!

O uomo, ascolta!
Che dice la profonda mezzanotte? 'Dormii, dormii,
da un sogno fondo son risorta:
profondo è il mondo,
e più profondo che non pensi il giorno.
Profonda è la pena,
la gioia più profonda del dolore:
la pena dice: passa!
Ma ogni gioia vuole l'eternità:
vuole profonda, profonda eternità!’

IL SEGNO

La mattina successiva a quella notte, Zarathustra balzò dal suo giaciglio, si strinse ai fianchi la cintura e uscì dalla sua caverna, forte e ardente come il sole che al mattino emerge dalle montagne ancora avvolto dalle tenebre.
Tu, costellazione grande - esclamò, come aveva già fatto una volta - tu, profondo occhio della gioia, che sarebbe tutta la tua felicità, se non avessi chi illuminare? E se le creature restassero nelle loro case mentre tu sei già desto, e vieni fuori e ti diffondi in tutta la tua geneposità, come si adirerebbe il tuo orgoglio!
Ma ecco! Essi dormono ancora, gli Uomini Superiori, mentre io sono desto: essi non sono dunque i miei veri compagni! Non essi io attendo sulle mie montagne!
Vado verso la mia fatica, verso il mio giorno: ma essi non comprendono i segni del mio mattino, e il mio passo non è per essi il richiamo del risveglio.
Essi dormono ancora nella mia caverna, il loro sogno si abbevera ancora ai miei canti ebbri. Ma l'orecchio che ascolti ciò che io dico, l'orecchio obbediente manca alle loro membra.

Così parlò Zarathustra al suo cuore, quando sorse il sole, e volse lo sguardo interrogativo agli spazi celesti, poiché udiva su di sé il grido acuto della sua aquila.
Bene! le gridò. – Così mi piace, questo è ciò che mi ci vuole. I miei animali sono desti perché io sono desto.
La mia aquila è desta e saluta come me il sole. Con artigli d'aquila afferra la nuova luce. Voi siete i miei veri animali; io vi amo.
Invece mi mancano ancora i miei veri uomini!

Così parlò Zarathustra, ma allora accadde che egli si sentì avvolto da uno stormo di innumerevoli uccelli; ma il battito di tante ali e la ressa intorno alla sua testa erano così forti che egli chiuse gli occhi. E invero lo stormo cadde su di lui simile a una nuvola, a un nugolo di frecce che s'abbatte sopra un nuovo nemico. Invece era una nuvola d'amore che avvolgeva un nuovo amico.
Che mi sta succedendo? pensò Zaratustra, sorpreso nel cuore, e si lasciò lentamente cadere sulla grande pietra che era posta all'ingresso della sua caverna. Senonché, mentre agitava le braccia intorno a sé, su di sé e sotto di sé per difendersi dai teneri uccelli, ecco che gli accadde qualcosa di ancora più singolare: affondò le dita inavvertitamente in un caldo viluppo di peli; dinanzi a lui si udì tosto un ruggito, un tenero, lungo ruggito leonino.
Il segno viene - disse Zarathustra, e il suo cuore trasecolò. Quando davanti a lui fu chiaro, egli vide giacere innanzi ai suoi piedi una possente belva fulva che strofinava la testa sulle sue ginocchia, e non voleva staccarsi da lui tanto era il suo amore, simile a quello di un cane che ritrova il proprio padrone. Ma le colombe, nel loro amore, non erano da meno del leone; e ogni volta che una colomba sfiorava il muso del leone, la belva scuoteva la testa con meraviglia e rideva.
Vedendo tutto questo, Zarathustra disse una sola parola:
I miei figli, i miei figli; poi tacque. Ma il suo cuore era libero e dai suoi occhi cadevano lacrime sulle sue mani. Non vedeva più nulla e stava lì seduto, immobile, senza neanche difendersi dagli animali. Le colombe presero a svolazzargli intorno e si posarono sulle sue spalle, sfiorando i suoi capelli bianchi, in teneri giochi senza fine. Ma il possente leone andava lambendo senza posa le lacrime che piovevano sulle mani di Zarathustra, e ruggiva e bramiva timidamente. Così facevano gli animali.
Tutto questo durò lungo tempo, o pochissimo: perché, a dire il vero, non esiste un tempo terreno per cose di questo genere. Frattanto gli Uomini Superiori si erano destati nella caverna di Zarathustra e s'erano messi tutti in fila per andare incontro a Zarathustra e porgergli il saluto del mattino, poiché, svegliandosi, s'erano accorti che egli non era più in mezzo a loro. Ma appena giunsero alla porta della caverna, e li precedeva il rumore dei loro passi, il leone sobbalzò potentemente, abbandonò Zarathustra e con un ruggito selvaggio si slanciò verso la caverna. Gli Uomini Superiori, udendolo ruggire, urlarono tutti insieme come fossero una sola bocca, indietreggiarono precipitosamente e in un attimo scomparvero.
Zarathustra, assordato e confuso, si levò dal suo sedile, si guardò intorno meravigliato, interrogò il suo cuore, comprese, e fu solo.
Che cosa ho udito? disse infine lentamente. - Che mi è successo?
E già affiorava in lui il ricordo, e in un lampo capì tutto ciò che era accaduto tra ieri e oggi.
Qui è la pietra - esclamò mentre si accarezzava la barba - sulla quale sedevo ieri mattina; qui mi venne incontro l'indovino, qui udii il primo grido, il grande grido di dolore.
O voi, Uomini Superiori, era proprio del vostro dolore che ieri mattina mi parlava quel vecchio indovino; voleva indurmi e tentarmi ad associarmi alla vostra pena. 'O Zarathustra,' mi diceva 'vengo a tentarti per l'ultimo tuo peccato'. Per l'ultimo mio peccato?
- gridò Zarathustra, e rise crucciato delle sue stesse parole. Che cosa mi fu risparmiato per l'ultimo mio peccato?
E ancora una volta Zarathustra sprofondò in se stesso, di nuovo sedendosi sulla pietra a meditare. D'un tratto si alzò.
Pietà! [Letteralmente: il mio dolore (Leid) e la mia compassione (Mitleid). Quasi un'ironia, ancora una volta, contro Wagner che, specialmente nel Parsifal, aveva fatto della compassione il fondamento della sua visione morale del mondo] Pietà per gli Uomini Superiori! w - esclamò a voce alta; e il suo volto divenne di bronzo. w Ma per questo c'è tempo!
La mia passione e la mia compassione, che importano?
Cerco io forse la felicità? Io cerco di portare a
termine l'opera mia!
Orsù, dunque! È venuto il leone, i miei figli mi sono accanto, Zarathustra è divenuto maturo, la mia ora è giunta.
Questo è il mio mattino, il mio giorno sta sorgendo: sollevati dunque, vieni a me, tu, grande ora meridiana!

FINE