EDGAR ALLAN POE

RACCONTI DEL MISTERO E DEL RAZIOCINIO - II


LA LETTERA RUBATA


Nil sapientiae odiosius acumine nimio.
Seneca

Nel 18... ero a Parigi. Dopo una triste e tempestosa serata autunnale, potevo godere la doppia voluttà d'un meditativo raccoglimento e d'una pipa di schiuma, in compagnia del mio amico C. Auguste Dupin, nella sua piccola biblioteca - che fungeva anche da studio - al terzo piano del numero 33 della via Dunôt al Faubourg Saint-Germain. Durante un'ora intera restammo in silenzio, per modo che ciascuno di noi-, al primo venuto, sarebbe apparso profondamente ed esclusivamente compreso delle arricciolate anella di fumo che volteggiavano per la stanza. Per quel che riguardava me, ero immerso a discutere meco stesso attorno a certi punti ch'erano stati oggetto, nella prima parte della serata, della nostra conversazione: voglio dire dell'affare della via Morgue e del mistero relativo all'assassinio di Marie Rogêt. Cercavo di connetter tra loro le coincidenze che potevano riscontrarsi in quei due casi, allorché la porta del nostro appartamento fu aperta e apparve, nel vano, la vecchia conoscenza di Monsieur G., prefetto della polizia parigina.
Gli demmo cordialmente il benvenuto, dal momento che, ai suoi lati negativi, facevano pure contrasto alcune positive qualità e, del resto, non lo vedevamo da più di qualche anno. Poiché eravamo seduti al buio, Dupin si levò nell'intento di accendere una lampada: e nondimeno tornò a sedere senza aver compiuta quell'operazione, avendo inteso da Monsieur G. ch'egli era venuto a consultarci, o meglio a chiedere l'opinione del mio amico, circa un affare che gli aveva causato increscioso imbarazzo.
«Ove si tratti d'un caso che richieda della riflessione», osservò Dupin, astenendosi in quel punto dall'accendere la calza, «sarà per noi più conveniente procedere nel nostro esame al buio».
«Ecco ancora una delle vostre bizzarre trovate», disse il prefetto, il quale aveva la mania di chiamare bizzarre tutte le cose al di fuori delle sue capacità di comprendere, e che si trovava in tal modo a vivere in mezzo a una immensa legione di bizzarrie.
«È proprio così», disse Dupin porgendo una pipa al nostro visitatore e spingendo verso di lui una comoda poltrona.
«Qual è dunque questo caso imbarazzante?», chiesi io, a questo punto. «Spero bene che non si tratti, anche questa volta, d'un assassinio».
«Oh, no! Nulla di simile. È un fatto che questo nuovo affare si presenta d'una estrema semplicità. Ed io non metto in dubbio che sapremmo cavarcela da noi, stessi. Se sono accorso a raccontarlo a Dupin è solo perché egli non potrà far di meno che interessarsi, appunto, alla sua bizzarria».
«Semplice e bizzarro insieme», disse Dupin.
«Infatti: e nondimeno tale espressione non è del tutto esatta. L'uno o l'altro, se credete meglio. È un fatto che no, siamo tuttora vittime d'un totale smarrimento, per quel che riguarda tale affare, dal momento che, per quanto sia semplice, non riusciamo ad afferrarne il bandolo».
«È probabile che sia la sua stessa semplicità a indurvi nell'errore», disse il mio amico.
«Quale sciocchezza non vi siete lasciata sfuggire!», replicò il prefetto, ridendo di cuore.
«Forse il vostro mistero non è che troppo chiaro», disse Dupin.
«O cielo! Chi ha mai sentito, prima d'ora, profferire una simile stravaganza?».
«Troppo chiaro, dunque».
«Ah! Ah!... Oh! Oh! ...», strillò il nostro ospite coll'aria di divertirsi un mondo. «Oh, caro il mio Dupin, mi volete far morire dal ridere, voi!».
«Alle corte», dissi io. «Di che si tratta?».
«Me ne sbrigherò», disse il prefetto esalando una lunga, solida e contemplativa boccata di fumo, e accomodandosi a sedere sulla sua poltrona, «me ne sbrigherò in poche parole. Ma prima di cominciare, permettete che v, faccia presente come l'affare richieda il più scrupoloso segreto e come io perderci, con tutta probabilità, il mio impiego ove si venisse a sapere che l'ho sussurrato a chicchessia».
«Cominciate», dissi io.
«Oppure non cominciate», disse Dupin.
«Va bene. Comincio. Sono stato informato personalmente, ed in altissimo loco, che un certo documento, cui è annessa la massima importanza, è stato sottratto dagli appartamenti reali. L'individuo che ha compiuto il furto ci è noto. Non sussiste, attorno alla sua identità, alcun dubbio: è stato visto nell'istante medesimo in cui si è appropriato del documento. Ed è noto, altresì, che quel documento è tuttora in suo possesso».
«E come si fa a saperlo?», chiese Dupin.
«Si deduce dalla natura del documento stesso e dal non darsi di alcuni fatti che sarebbero immediatamente provocati qualora esso cessasse d'essere, appunto, in possesso del ladro. In altri termini: se esso fosse impiegato in vista dello scopo che il ladro, evidentemente, si propone».
«Spiegatevi meglio», dissi io.
«Ebbene, arriverò a dire che tale documento conferisce, a chi lo detiene, un potere in un certo luogo nel quale il sullodato potere ha un valore inestimabile». E così dicendo il prefetto traboccava del gusto di ostentare il suo pudore ipocrita da diplomatico.
«Eppure io continuo a non capire nulla», disse Dupin.
«Nulla sul serio?... Via! Quel documento, dunque, ove fosse esibito a un terzo personaggio, del quale tacerò il nome, metterebbe in imbarazzo l'onore d'una persona d'altissimo grado... ed eccovi ciò che conferisce, a chi detiene il documento, un ascendente su quella tale illustre persona, della quale l'onore e la sicurezza sono, in tal modo, messi a rischio ...».
«Ma questo ascendente», interruppi io, «dipende soltanto dal fatto che il ladro sappia, o meno, se il derubato è a parte della sua identità... e chi oserebbe?».
«Il ladro», disse Monsieur G., «non è altri che D., il quale osa tutto ciò che è indegno di un uomo, così come non si fa scrupolo d'usare anche ciò che ne è degno. Il metodo con cui è stata condotta la ruberia fu ingegnoso del pari che ardito. Il documento in questione - una lettera, per essere più espliciti - era stato ricevuto da colui che ne fu derubato, mentre questi era solo nell'appartamento reale, ma mentre costui lo stava leggendo, fu interrotto dall'improvviso entrare dell'altro illustre personaggio al quale egli aveva ragioni tutte particolari per nasconderlo. Dopo aver tentato, invano, di gettarlo rapidamente in un cassetto, egli fu obbligato a deporlo, aperto com'era, sul tavolo. La lettera, nondimeno, era rovesciata, coll'indirizzo fuori, e, il suo contenuto rimanendo così nascosto, essa non fu notata. Sopraggiunge, nel frattempo, il ministro D. La carta sul tavolo non sfugge al suo occhio di lince, la calligrafia dell'indirizzo viene riconosciuta, notato l'imbarazzo del destinatario e penetrato, in breve, il suo segreto.
«Dopo aver trattati alcuni affari - in modo spiccio, secondo le sue abitudini - il ministro D. trae di tasca una lettera pressoché identica a quella in questione, fa l'atto di leggerla, e la depone proprio a fianco dell'altra. Quindi riprende a parlare, per un quarto d'ora all'incirca, dei pubblici affari. Prende infine congedo e pone in mano, nell'andarsene, la lettera della quale egli non ha diritto alcuno di porla. La persona derubata se ne accorge ma, naturalmente, non osa attirare, su quella circostanza, l'attenzione del terzo personaggio che gli era a lato. E così il ministro esce dalla stanza lasciando sul tavolo la propria lettera, una lettera - c'è bisogno ch'io lo aggiunga? - senz'alcuna importanza».
«Così», disse Dupin volgendosi a metà dalla mia parte, «si dà perfettamente il caso richiesto perché l'ascendente sia completo: il ladro sa che la persona derubata conosce, appunto, il ladro».
«Già», rispose il prefetto, «senza contare che, per qualche mese, secondo un certo intendimento politico, è stato fatto il debito uso del potere acquisito con un tale stratagemma, e fino a un limite, occorre aggiungere, altamente pericoloso. Il derubato è convinto, ogni giorno di più, dell'assoluta necessità d'avere indietro la sua lettera. E nondimeno ciò non può compiersi apertamente. Spinto, infine, dalla disperazione, egli ha commesso a me il delicato incarico di recuperarla».
«Era infatti impossibile, per quel che so», disse Dupin circonfuso d'una aureola di fumo, «scegliere o, meno ancora, inventare un agente più sagace».
«Voi mi lusingate», replicò il prefetto, «e tuttavia non è impossibile che alcuno abbia concepita, di me, una simile opinione».
«È chiaro», intervenni a dire io, «come, del resto, voi stesso non avete mancato di notare, che la lettera è tuttora nelle mani del ministro; dal momento che soltanto il suo possesso - e non l'uso - è ragione dell'ascendente. Con l'uso, infatti, l'ascendente scompare».
«È così», disse Monsieur G., «ed io ho iniziate le mie indagini, forte, appunto, di tali convincimenti. Mia prima cura e stata, infatti, di operare una minuziosa perquisizione nella casa del ministro: di tale perquisizione il principale imbarazzo consistette nel procurare che gli rimanesse sconosciuta. lo badai, soprattutto, a non dargli motivo di sospettare i nostri disegni».
«Penso che dovreste trovarvi a vostro agio completo», dissi io, «in simile genere di investigazioni. La polizia parigina non è davvero nuova a operazioni consimili».
«Oh, non c'è dubbio! Ed è appunto per questo ch'io nutrivo speranza di raggiungere il mio scopo. Le abitudini del ministro, del resto, mi riuscirono di non poco vantaggio. Egli usa di frequente restare assente da casa sua tutta la notte. I suoi domestici non sono numerosi. Essi dormono a una certa distanza dall'appartamento del loro padrone e poiché sono, dal primo all'ultimo, napoletani, si prestano facilmente a essere ubriacati. lo posseggo - come voi, del resto, sapete - una sorta di grimaldelli coi quali posso aprire le porte di tutte le camere e di tutti i gabinetti di Parigi. Così che, durante tre lunghi mesi, non è trascorsa una sola nottata ch'io non abbia impiegata, nella maggior parte, a frugar di persona nell'abitazione del ministro D... Il mio onore vi è interessato e - per confidarvi un gran segreto - la ricompensa che mi è stata promessa è enorme. Per modo che non ho abbandonato le mie ricerche altro che al momento in cui cominciò a farsi strada, in me, la convinzione che il mio ladro fosse assai più furbo di me. Credo, infatti, d'avere esaminati tutti gli angoli e i possibili nascondigli nei quali era possibile celare il segreto di quella lettera».
«E non sarebb'egli possibile», insinuai lo a questo punto, «che la lettera, benché in possesso del ministro (non v'ha dubbio in proposito) sia stata, dallo stesso ministro, nascosta in luogo diverso dalla propria abitazione?».
«No, ciò non è possibile», intervenne a dire il mio amico Dupin. «La situazione particolare dell'attuale momento, a Corte, ed in special modo la natura dell'intrigo nel quale s'è cacciato il ministro D. rendono l'efficacia immediata del documento - il poterlo produrre a tamburo battente - un fattore pressoché importante quanto il suo possesso».
«Il poterlo produrre?», chiesi io.
«O, se più vi aggrada, il poterlo distruggere», disse Dupin.
«È vero», convenni io; «la lettera è senz'altro nell'abitazione del ministro. Quanto alla possibilità che essa si trovi addosso alla stessa persona del ministro, io ritengo che debba considerarsi del tutto fuor di questione».
«Del tutto», disse il prefetto; «io l'ho fatto fermare ben due volte da alcuni agenti camuffati da borsaiuoli e la sua persona è stata scrupolosamente frugata da capo a piedi sotto i miei stessi occhi».
«Avreste potuto risparmiarvene la pena», disse Dupin; «il ministro D. non è per nulla così pazzo, secondo almeno quel ch'io ne so, da non prevedere tali imboscate come incidenti tutt'affatto naturali».
«Egli non è per nulla un pazzo, è vero», disse Monsieur G.; «ciò nondimeno egli è un poeta, il che, secondo il mio parere, non è molto diverso dall'esser pazzo».
«D'accordo», disse Dupin dopo avere a lungo e pensosamente soffiato fuori qualche boccata di fumo dalla sua pipa di schiuma, «benché io stesso mi sia reso colpevole d'un qualche libero verso».
«Al dunque», dissi io, «raccontateci gli esatti particolari delle vostre ricerche».
«Gli è che noi abbiamo cominciato per tempo, così che abbiamo avuto agio di cercare dappertutto. Io posseggo una antica esperienza in siffatto genere di indagini. Abbiamo esaminata la casa per intero, una camera dopo l'altra: e abbiamo consacrato a ciascuna le notti di tutta una settimana. Siamo passati, quindi, a esaminare i mobili di ciascun appartamento, abbiamo aperti tutti i possibili cassetti ed io presumo che voi non ignoriate come, per un agente di polizia quale si deve, un cassetto segreto sia una espressione senza significato. Colui che, in una perquisizione di tal natura, si lasciasse sfuggire un cassetto segreto, è un idiota. E del resto la cosa è facilissima. In ogni vano si trova una certa quantità di volume e di superficie della quale è possibile fare un conto esatto. Noi possediamo regole tutte particolari ed infallibili per questa bisogna. Non potrebbe sfuggirci la quindicesima parte della sezione di un filo. Dopo aver esaminate le stanze, passammo alle sedie. I cuscini furono sondati con dei lunghi aghi affilati dei quali voi già conoscete l'impiego. I tavoli furono scoperchiati ...».
«E perché?».
«Talvolta s'usa togliere i ripiani dei tavoli o di qualsivoglia altro mobile, e se ne forano i piedi, o comunque i sostegni alla sommità, onde nascondervi l'oggetto che si intende far scomparire. Compiuta l'operazione, i ripiani vengono posti nuovamente al loro luogo primitivo. Ci si serve allo stesso modo dei montanti del letto ...».
«E non si potrebbe indovinare la presenza della cavità semplicemente tentando le pareti?», obiettai io.
«Nient'affatto, ove si abbia la precauzione, nel depositare l'oggetto incriminato, d'avvolgerlo d'una benda di cotone atta a riempire l'interstizio. Del resto, nel nostro caso, eravamo obbligati a procedere senza fare il minimo rumore».
«Ma voi non avete potuto smontare, non avete potuto disfare tutti i mobili nei quali era possibile nascondere la lettera nel modo che avete indicato. Giacché essa poteva anche essere avvolta in una spirale sottile quanto un ferro da calza, ed essere inserita, così, nel piede d'una seggiola. Avete smontato tutte le seggiole?».
«Nient'affatto. Ma abbiamo fatto di meglio. Abbiamo esaminato le gambe di tutte quelle che si trovavano nella casa, come pure le giunture d'ogni mobile, con l'aiuto d'un potente microscopio. Se ci fosse stata la minima traccia d'una recente manomissione, questa non sarebbe per certo sfuggita alla nostra indagine. Un solo granello di polvere che potesse essere smosso da un succhiello ci sarebbe apparso grande come una mela. La minima alterazione nella collatura, la più lieve sconnessione tra le giunture ci avrebbe rivelato il nascondiglio».
«Presumo che abbiate esaminato gli specchi nel loro interno e che abbiate frugato i letti e i loro cortinaggi, così come le tende alle finestre e i tappeti».
«Naturalmente. E una volta passati in rivista a questo modo gli oggetti dello stretto ammobiliamento, abbiamo esaminata la casa vera e propria. Ne abbiamo divisa la totalità del volume e della superficie in altrettanti compartimenti che poi abbiamo contraddistinto, da un numero affinché potessimo andar sicuri di non ometterne alcuno. Abbiamo fatto, di ciascuna sezione che ne risultava, l'oggetto d'un nuovo esame microscopico e vi abbiamo anche compreso i due appartamenti adiacenti».
«Due appartamenti adiacenti?», esclamai. «Vi siete dovuti addossare, così, non poco fastidio».
«Non poco, per la verità. Ma la posta, come ho detto, era enorme».
«Vanno compresi anche gl'impiantiti, negli appartamenti?».
«Essi sono tutti a mattonelle. Posso dire che, relativamente al resto, l'esame degli impiantiti è stato una cosa da nulla. Fu sufficiente esaminare l'impasto di polvere tra una mattonella e l'altra: esso era vergine dappertutto».
«E avrete senza dubbio dato un'occhiata anche alle carte del signor ministro... ai libri della sua biblioteca ...».
«Certamente. Abbiamo aperto ogni cartella, scartabellato ogni memoriale. Non abbiamo soltanto aperto i libri ma li abbiamo sfogliati pagina per pagina, senza contentarci d'una scorsa sommaria come purtroppo è nell'uso, ormai invalso, dei nostri ufficiali di polizia. E così abbiamo anche esaminato lo spessore di ciascheduna legatura colla più esatta meticolosità, e ad ognuna abbiamo applicata la gelosa curiosità del microscopio. Ove qualche oggetto fosse stato inserito di recente in una legatura, quell'oggetto non sarebbe potuto sfuggire alla nostra osservazione. Cinque o sei volumi che uscirono, durante quei giorni, dalle stesse mani del legatore, furono passati da parte a parte e accuratamente sondati in senso longitudinale da appositi aghi».
«Avete esplorati gli assiti, sotto i tappeti?».
«Naturalmente. Abbiamo tolti i tappeti uno per uno e abbiamo esaminato i regoli al microscopio».
«E la carta ai muri?».
«Anche quella».
«E le cantine?».
«Abbiamo fatta una visita anche alle cantine».
«Per modo che vi siete accorti d'avere sbagliato strada», dissi io, «e che la lettera non era nella casa del ministro, come avevate supposto in un primo luogo».
«Suppongo che non v'inganniate, su questo punto», rispose il prefetto, e poi, rivolto al mio amico: «Ed ora, signor Dupin, che mi consigliate di fare?».
«Tornate a perquisire completamente la casa».
«È assolutamente inutile», strillò Monsieur G. «Sono sicuro che la lettera non è nell'appartamento, come sono sicuro, in questo momento, di parlare a voi».
«E nondimeno non ho alcun consiglio migliore che questo da darvi», disse Dupin. «Immagino, comunque, che vi abbiano descritta minutamente codesta lettera».
«Sì, sì», e il prefetto trasse di tasca un suo quadernuccio e si mise a leggerci ad alta voce una minuta descrizione dell'oggetto delle sue ricerche, del suo aspetto interno e di quello esterno. Finita che ebbe la lettura di quel suo promemoria, quell'eccellente individuo prese congedo da noi così depresso di spirito, ch'io non mi ricordavo d'averlo mai visto in quello stato prima d'allora.
A un mese all'incirca da quella conversazione, il degno uomo ci fece una seconda visita e ci trovò occupati, press'a poco, nei medesimi esercizi dell'altra volta. Prese così anch'egli una pipa e una poltrona e cominciò a chiacchierare seco noi del più e del meno.
«E allora? caro Monsieur G. E la vostra lettera rubata? Suppongo che vi siate rassegnato, infine, ad ammettere che non è davvero una bagatella sbaragliare un ministro».
«Che il diavolo se lo porti! Non ch'io non abbia seguito il consiglio di Dupin e perquisito di nuovo l'appartamento, veh! Pure, come prevedevo, fu fatica sprecata».
«A quanto ammonta la ricompensa che v'hanno offerta? Ci avete detto, mi pare ...», chiese Dupin.
«Mah... essa e molto forte... una ricompensa davvero munificentissima... Non sono autorizzato a far cifre... ma questo posso dirvi, e che cioè m'impegnerei a sborsare di mio qualcosa come un cinquantamila franchi a colui che potesse scovarmi la lettera. È un fatto che la cosa diviene di giorno in giorno più urgente. E la ricompensa è stata addirittura raddoppiata negli ultimi giorni. E potrebbero anche triplicarla. Del resto, per quel che riguarda me... non potrei davvero aver compiuto meglio il mio dovere di quanto, in effetti, non l'abbia compiuto».
«Ma... sì ...», disse Dupin strascicando le parole frammezzo alle fumate della sua pipa. «Io credo, a esser sincero... caro Monsieur G., che voi non abbiate fatto tutto il vostro dovere... è impossibile non riconoscere che voi non siete arrivato fino in fondo alla questione... voi potreste fare... un po' di più. Questa è almeno la mia franca opinione. Che ne dite?».
«Come? In che senso?».
«Ma ...» e una fumata, «voi potreste ...» e due fumate, una sull'altra, «voi potreste mettere un po' più d'impegno nell'affare ...» e tre fumate. «Vi rammentate la famosa storia d'Abernethy?».
«Al diavolo il vostro Abernethy!».
«E sia pure, al diavolo! Se ciò vi diverte. Or dunque, una volta, un certo signore, avaro quanto ricco, concepì il disegno di scroccare ad Abernethy un consulto medico. E a questo scopo intavolò secolui, durante un ricevimento, una conversazione ordinaria attraverso la quale sottopose al medico il suo proprio caso, come se si trattasse di quello d'un personaggio immaginario. "Supponiamo", disse l'avaro, "che i sintomi sian questi e questi. Ed ora, caro dottore, cosa consigliereste al poverino?" "Cosa consiglierei?", rispose Abernethy, "gli consiglierei d'andare a consigliarsi con un medico. È l'unica cosa da fare"».
«Ma io», disse a questo punto il prefetto, un po' sconcertato, a dire il vero, «non solo sono dispostissimo a prendere consiglio, ma anche a pagarlo. Io darei sul serio i cinquantamila franchi a chiunque mi togliesse d'impiccio».
«In questo caso», disse Dupin aprendo un cassetto della sua scrivania e traendone fuori un libretto di assegni, «voi potete fare una firma per la somma suddetta. Quando l'avrete ben bene vergata, vi rimetterò la vostra lettera».
Io ero al colmo della meraviglia. Quanto al prefetto, sembrava addirittura fulminato. Rimase alcuni istanti immobile e muto guardando il mio amico, con la bocca spalancata e con un residuo d'incredulità negli occhi che sembravano sul punto di schizzargli fuori del capo. Parve, infine, rientrare man mano in sé, prese e intinse una penna, e non senza qualche esitazione, con lo sguardo vuoto, proteso a scrutare misteriose distanze, riempì e firmò un assegno da cinquantamila franchi, e lo porse a Dupin, al di sopra del tavolo. Questi lo esaminò minuziosamente e lo ripose quindi nel suo portafoglio. Indi sollevò una tavoletta dello scrittoio, ne trasse una lettera e la porse al prefetto. Quel degno funzionario l'agguantò con una sorta di spasimo di felicità, l'aprì colle mani tremanti, buttò un'occhiata al suo contenuto e poi, precipitandosi verso la porta, scomparve, senza altra cerimonia, dalla stanza, senza che avessimo potuto cogliere dal suo labbro una sola sillaba dal momento in cui Dupin l'aveva pregato di firmare l'assegno.
Quand'egli fu fuori, il mio amico consentì a qualche spiegazione.
«La polizia parigina», egli disse, «è estremamente abile e avveduta per ciò che concerne il suo mestiere. I suoi agenti sono perseveranti, ingegnosi, furbi, e posseggono a fondo tutto il bagaglio di nozioni richiesto dal loro specialissimo mandato. Per modo che quando Monsieur G. ci forniva il particolareggiato ragguaglio della sua perquisizione in casa del ministro D., io serbavo una stima totale per il talento di cui dava mostra ed ero perfettamente convinto che egli aveva compiuta una investigazione affatto soddisfacente nei limiti delle sue specialità».
«Nei limiti delle sue specialità?», chiesi io.
«Appunto», disse Dupin. «Le misure adottate non furono soltanto le migliori: esse furono spinte, altresì, ad una perfezione assoluta. Se la lettera fosse stata nascosta nel raggio della loro investigazione, essi l'avrebbero certamente trovata. Su ciò, io non ho il minimo dubbio».
A questo punto, mi contentai di sorridere, ma Dupin aveva l'aria d'aver detta la surriferita proposizione in tutta serietà.
«Le misure, dunque», egli continuò, «erano buone e ammirevolmente poste in funzione. Esse avevano soltanto il difetto di essere inapplicabili, non solo alla fattispecie del caso, ma soprattutto, all'uomo. V'ha un dispiegamento di mezzi singolarmente ingegnosi che costituiscono, per il signor prefetto, una sorta di letto di Procuste, e sui quali egli adatta e misura tutti i suoi piani. Ed egli, nondimeno, nel caso particolare del ministro D., è rimasto addietro per un eccesso di perspicacia e insieme di superficialità. Più di uno scolaretto avrebbe ragionato meglio di lui. Ho conosciuto un bimbo di otto anni, nel quale la infallibilità al giuoco di pari e dispari era oggetto d'ammirazione universale. Il giuoco è estremamente semplice: uno dei giocatori tiene in mano un certo numero di palline e domanda all'altro: "Pari o dispari?". Se l'altro indovina giusto, avrà guadagnato una pallina, s'egli si sarà, invece, ingannato, ne avrà persa ugualmente una. Il bimbo di cui ho detto, vinceva invariabilmente tutte le palline della scuola. Naturalmente egli possedeva una sorta di capacità divinatoria, la quale consisteva nella semplice osservazione e nell'apprezzamento della finezza di penetrazione dei suoi avversari. Supponiamo che il suo avversario sia un grullo completo, e, levando alta la manina chiusa, dica: "Pari o dispari?". Il nostro scolaro risponde, mettiamo: "Dispari", e, mettiamo ancora, perde. Ma alla seconda prova egli vincerà perché farà, a se stesso, il seguente ragionamento: lo scioccherello aveva un numero di palline pari, la prima volta; tutta la furberia potrà spingerlo, al massimo, a metterne, la seconda, un numero dispari, e quindi tanto vale dire: "Dispari" ancora una volta. Egli dice "Dispari" e vince. Ma con un avversario meno semplice, egli ragione così: questo qui s'è accorto che lo, la prima volta, ho detto "Dispari" e alla seconda partita diviserà, in un primo momento, di mutare i pari in dispari come ha fatto l'altro, ma in un secondo momento penserà che un cambiamento di quel tipo pecca di eccessiva semplicità, e si deciderà a mettere pari una seconda volta. lo dirò "Pari", quindi. E il bimbo dice "Pari" e vince. Ora il modo di ragionare del nostro bimbo, che i suoi compagni peraltro chiamano fortuna, che cos'è, in ultima analisi?».
«Esso non è che un processo d'identificazione del nostro intelletto con quello del nostro avversario», risposi io.
«Appunto», disse Dupin. «E come io domandai a quel bimbo con qual mezzo egli effettuasse quella perfetta identificazione che faceva tutto il suo successo, ne ebbi la risposta seguente: "Quando lo voglio sapere fino a che punto uno sia accorto o sciocco, fino a che punto sia buono o cattivo, o quali siano, in quel punto, i suoi pensieri, cerco d'atteggiare il viso così come lo vedo atteggiarsi in lui, e aspetto di saper quali pensieri e quali sentimenti nascono, in me, compatibili, appunto, con quella fittizia fisionomia che ho assunta". Questa risposta dello scolaro confonde non poco, mi sembra, tutta la sofistica saggezza attribuita a La Rochefoucauld, a La Bruyère, a Machiavelli e a Campanella».
«Per modo che l'identificazione dell'intelletto del ragionatore con quello del suo avversario dipende, se ho ben compreso, dall'esattezza con cui viene valutato l'intelletto, appunto, di quest'ultimo».
«Per ciò che riguarda il valore pratico del procedimento, quella valutazione ne è, in effetti, la condizione principale», replicò Dupin, «e se il prefetto e tutta la sua banda si sono ripetutamente ingannati, l'errore va cercato in quella identificazione che hanno omessa di tentare, e, in secondo luogo, nella valutazione inesatta, o meglio nella non-valutazione della intelligenza con la quale stavano misurandosi. Essi non vedono al di là dei propri ingegnosi ritrovati. E ove si mettano alla ricerca d'un oggetto nascosto, non pensano che ai mezzi che avrebbero usati essi stessi per nasconderlo. Essi hanno tuttavia ragione di ritenere che la loro propria perspicacia è una fedele rappresentazione di quella del volgo. Così, quando sono alle prese con un mariuolo la cui sottigliezza differisce dalla loro, quel mariuolo, naturalmente, riesce a gabbarli. Ciò non manca mai di accadere tutte le volte che l'astuzia di costui è al di sopra della loro, e ciò accade assai spesso anche quando essa è, per contro, al di sotto. Essi non modificano affatto i loro sistemi di investigazione: tutt'al più, quando sono spronati da un qualche caso insolito, ovvero, più esattamente, da una insolita ricompensa, essi esagerano e portano all'esasperazione i loro vecchi espedienti. E nondimeno lasciano immutati i loro principi. Nel caso, ad esempio, del ministro D., che cosa è stato fatto per cambiare il metodo dell'investigazione? A che valgono tutte quelle perforazioni, quei frugamenti, quei sondaggi, quegli esami al microscopio, quella divisione della superficie in sezioni numerate? Che cosa è tutto questo armamentario se non l'esagerazione, nell'applicarli, d'uno o di più principi d'investigazione, basati su un ordine di idee relativo all'ingegno umano ed ai quali il prefetto si è abituato nell'ormai annoso esercizio delle sue funzioni? Non vi accorgete che egli considera un fatto ampiamente dimostrato che tutti gli uomini i quali vogliono nascondere una lettera si servano, se non d'un buco fatto col succhiello nella gamba d'una seggiola, d'un qualsivoglia altro buco o sotterfugio, almeno, tutt'affatto singolare e sempre nell'ordine d'invenzione, però, del solito buco trapanato? E non vi rendete conto, ancora, che nascondigli d'una siffatta originalità, non sono impiegati che in occasioni ordinarie e adottati da intelligenze ordinarie? Giacché in qualsivoglia caso d'oggetto nascosto, tale maniera maliziosa e involuta insieme di nasconderlo, e, nel suo stesso principio, del tutto presumibile e, difatto, presunta? Per modo che la sua scoperta non dipende, in nulla, dalla perspicacia, ma soltanto dalla cura, dalla pazienza, dalla buona volontà, insomma, di coloro che sono incaricati della ricerca. Ma quando il caso riveste un'importanza particolare, ovvero - il che è la medesima cosa, agli occhi della polizia - quando la ricompensa è particolarmente importante, ci s'avvede che tutte queste belle qualità falliscono invariabilmente il loro scopo. Spero che ora abbiate compreso ciò che io intendevo affermando che, ove la lettera rubata fosse stata nascosta nel raggio in cui il signor prefetto organizzò così brillantemente la sua perquisizione, - in altri termini, se il principio ispiratore del nascondiglio fosse stato compreso nella somma dei principi del prefetto - egli l'avrebbe scoperta senza fallo. Ciò nondimeno il nostro funzionario è stato completamente giocato, e la causa principale di questa presa in giro risiede tutta nella supposizione, del prefetto, che il ministro fosse un pazzo dacché s'era fatto una reputazione di poeta. Tutti i pazzi sono poeti, secondo il punto di vista del prefetto, così che egli non è responsabile che d'una non distributio medii deducendo da quella, l'altra proposizione che tutti i poeti sono pazzi».
«Ma si tratta poi veramente del poeta?», chiesi lo. «So che sono due fratelli e che entrambi si son fatti una reputazione nel mondo letterario. Ma il ministro, a quel che mi pare di ricordare, deve avere scritto un importante volume sul calcolo differenziale e integrale. Egli dovrebb'essere il matematico, non il poeta».
«Siete in errore: io lo conosco assai bene: egli è poeta e insieme matematico. E come poeta e matematico, ha dovuto ragionare a dovere. Se fosse stato soltanto matematico, non avrebbe fatto che una parte soltanto del ragionamento necessario, e si sarebbe, in tal modo, esposto alla mercé del nostro prefetto».
«Una siffatta opinione», esclamai, «non può non meravigliarmi. Essa è smentita, coralmente, dal buon senso comune. Non avrete l'intenzione, spero, di sottovalutare una idea maturata attraverso i secoli dei secoli. La ragione matematica non è soltanto da ora ritenuta come la ragione per eccellenza».
«Il y a à parier», disse Dupin, citando Chamfort, «que toute idée publique, toute convention reçue, est une sottise, car elle a convenu au plus grand nombre. I matematici, ve lo accordo, han fatto del loro meglio per propagare il popolare abbaglio di cui avete detto poc'anzi, il quale, benché spacciato per una verità, è, nondimeno, un classico e perfezionato tipo di errore. Per esempio, con carte e sottigliezza degne al certo d'una miglior causa, ci è stato appreso ad applicare il termine analisi alle operazioni algebriche. I francesi sono i primi responsabili d'un siffatto imbroglio scientifico. Ma, ove si convenga che i termini del linguaggio non hanno una loro reale significazione, - se le parole, insomma, traggono la loro ragione e il loro valore solo dal modo convenuto con cui vengono applicate, - concedo che la parola analisi traduca la parola algebra, press'a poco come in latino ambitus traduce "ambizione", religio, "religione", e homines honesti, sta per la categoria delle persone per bene».
«Mi accorgo», dissi io, «che state impancandovi in una disputa con un buon numero di professori d'algebra di Parigi. Ma non importa: continuate».
«Io contesto la validità e, per conseguenza, i risultati d'un qualsiasi procedimento razionale il quale s'avvalga d'altro principio che la logica astratta. E contesto, in maniera del tutto particolare, i ragionamenti che tengono del procedimento proprio alle dottrine matematiche. Le matematiche sono le scienze attinenti alle forme e alle quantità; il ragionamento matematico altro non è se non la semplice logica applicata alla forma e alla sua quantità. Il grave errore consiste nel ritenere che le verità ritenute puramente algebriche siano delle verità astratte e generali. E questo errore è talmente madornale e gravido di conseguenze, ch'io non posso far di meno che meravigliarmi dell'universalità colla quale, nonostante tutto, esso è accolto. Gli assiomi matematici non pretendono affatto ad assiomi generali. Ciò che è vero per un rapporto di forma o di quantità, è sovente un grossolano errore per ciò che riguarda, mettiamo, il mondo morale. In quest'ultima scienza è troppo comunemente falso che la somma delle frazioni sia eguale all'intero. E così anche nella scienza chimica troviamo che quell'assioma ha torto. Nell'apprezzamento che noi facciamo d'una forza motrice, ad esempio, lo troviamo anche lì, fallace, dal momento che due motori che siano ciascuno d'una data potenza, non posseggono affatto, una volta messa assieme la loro capacità di traino, una potenza eguale alla somma delle loro potenze prese separatamente. E v'ha ancora un'enorme quantità di verità matematiche le quali non sono delle verità che nei limiti del rapporto. E nondimeno il matematico argomenta incorreggibilmente, basandosi su queste verità fisse, come se esse potessero applicarsi in generale e in assoluto; il quale potere, del resto, è falsamente imprestato loro anche dalla gente comune. Bryant, nella sua famosa Mythology, fa menzione d'una analoga sorgente di errori allorché egli rileva che, quantunque nessuno creda alle favole mitiche dei pagani, nondimeno noi usiamo trarne spesso delle conclusioni né più né meno che se esse riguardassero fatti realmente accaduti. E hanno credito, d'altro canto, tra i nostri professori d'algebra, i quali sono ancor essi dei pagani, talune favole pagane dalle quali sono state tratte persino lambiccate congetture, non tanto per difetto di memoria, quanto per un incomprensibile ottenebrarsi delle facoltà mentali. Io non ho mai incontrato dei matematici, per farla breve, nei quali potessi fidare eccetto che per le loro radici quadrate e le loro equazioni; non ne ho mai conosciuto uno solo che non tenesse in cuor suo per articolo di fede che x2 + px è assolutamente e incondizionatamente eguale a q. Provate a dire a uno di cotesti signori, tanto per fare una prova, che voi credere alla possibilità che x2 + px, non sia affatto eguale a q e quando sarete riuscito a fargli capire che cosa intendere dire, procurate immantinente di mettervi al largo della sua portata, giacché egli, senza dubbio, sarà intenzionato d'accopparvi!
«Voglio dire», continuò Dupin, nel mentre che io facevo credito, con una risata, a queste sue ultime osservazioni, «voglio dire che se il ministro fosse stato soltanto un matematico, il prefetto non si sarebbe trovato nell'alternativa di firmarmi un assegno. Lo conosco, difatto, per un matematico e per un poeta nel contempo, ed io avevo prese le mie misure in ragione della sua capacità, e tenendo conto delle circostanze in cui egli s'era cacciato. Sapevo, così, che egli era un uomo di Corte e un intrigante rotto alle più spregiudicate macchinazioni. Riflettei che un uomo simile doveva essere indubbiamente al corrente di tutti i metodi in pratica presso le stazioni di polizia. Evidentemente egli dovette aver previsto - e gli eventi l'han provato - le imboscate che gli sono state preparate. Sono sicuro, inoltre, che egli aveva previste anche le perquisizioni a domicilio. Le sue frequenti assenze notturne, che il nostro bravo prefetto aveva salutate con gioia quali positivi pronostici del suo successo, io le tenni come dei semplici trucchi per facilitare le libere ricerche della polizia, e persuaderla, in tal modo, che la lettera non si trovava nell'alloggio. E sentii inoltre che l'intera serie dei ritrovati relativi alla non mai variata azione poliziesca in tema di perquisizioni - i medesimi cioè che vi ho ora sciorinati, e dei quali ho cercato, non senza difficoltà, di mostrarvi la fallacia - sentii, dico, che tutt'intera quella serie aveva dovuto necessariamente dispiegarsi dentro al cervello del ministro. Tutto ciò doveva imperativamente portarlo a sdegnare qualsiasi sorta di nascondiglio volgare. Quell'uomo, io credo, non poteva arrivare a tal punto di ingenuità da non prevedere che il più complicato, il più impensato e profondo nascondiglio della sua casa, non avrebbe saputo serbare il minimo segreto per le occhiate, i sondaggi, i succhielli e i microscopi del prefetto. Da ultimo io decisi che egli si sarebbe necessariamente affidato alla semplicità, seppure non vi dovette essere indotto da un gusto tutt'affatto naturale. Vi rammentate senza dubbio con quali scoppi di risa il prefetto accolse, durante il nostro primo colloquio, la mia opinione secondo la quale, se quel mistero lo sconcertava tanto, era solamente a causa della sua assoluta semplicità».
«Infatti», dissi io, «mi ricordo perfettamente la sua ilarità. Credetti sul serio ch'egli fosse per divenir preda d'un attacco nervoso».
«Il mondo materiale», disse Dupin, «è affatto pieno di sorprendenti analogie con quello immateriale. Da ciò proviene che i dogmi retorici hanno somiglianza colla verità così come una metafora o una similitudine possono rendere più persuasiva un'argomentazione al modo stesso che abbelliscono una descrizione. Il principio della forza d'inerzia ad esempio, sembra aver la stessa portata nelle due nature, quella fisica e quella metafisica; un corpo d'una certa grandezza è messo in moto con maggiore difficoltà che non quello d'una grandezza minore, e la sua quantità di movimento e in proporzione di questa difficoltà. Ed ecco una proposizione analoga altrettanto incontrovertibile: le intelligenze d'una vasta capacità le quali sono nel contempo più impetuose, più costanti e più accidentate ne e loro possibilità dinamiche che le altre d'un grado inferiore sono quelle che si muovono più disagiatamente e che sono le più frastornate d'esitazioni al momento di mettersi in marcia. Altro esempio: avete mai notato quali siano le insegne di bottega che attraggono maggiormente la vostra attenzione?».
«Non ci ho mai pensato, a esser sincero», dissi io.
«Esiste», replicò Dupin, «una sorta di indovinello che s'usa giocare su una carta geografica. Uno dei giocatori prega qualcun altro di indovinare una data parola: il nome d'una città, ad esempio, d'un fiume, d'uno Stato, d'un impero: una parola qualunque, a farla breve, che sia compresa nella superficie variopinta e imbrogliata della carta. Una persona che sia nuova al giuoco, cerca, in generale, di imbarazzare il suo avversario dandogli a indovinare dei nomi scritti in carattere impercettibile. Ma gli adepti del giuoco scelgono dei nomi scritti a caratteri cubitali, quelli medesimi che si leggono da un capo all'altro della carta. Quei nomi, come pure quelli delle insegne e dei manifesti a lettere troppo grandi, sfuggono all'osservatore a causa dello loro stessa evidenza. E a questo punto dirò che le dimenticanze materiali sono del tutto analoghe alle distrazioni d'ordine morale di uno spirito che si lascia sfuggire le considerazioni che siano troppo palpabili, fino alla noia e alla banalità. E questo è un punto, a quel che sembra, un tantino al di sotto, ovvero al di sopra, dell'intelligenza del prefetto. Egli non ha mai creduto probabile che il ministro avesse deposta la sua lettera proprio sotto il naso di tutti, nel solo intento d'impedire a un individuo qualunque di scorgerla. Ma più io mi perdevo a far congetture sull'audacia, la profondità e lo spirito inventivo del ministro D. - e soprattutto sul fatto ch'egli aveva bisogno di avere il documento sempre a portata di mano perché potesse usarne tempestivamente, e ancora su quell'altra circostanza apertamente dimostrata mercé l'aiuto del nostro prefetto, che cioè la lettera non era stata nascosta in quelli che sono i limiti d'una ordinaria perquisizione foss'anche compiuta a regola d'arte - e più io mi convincevo che il ministro, per nascondere la sua lettera, era ricorso all'espediente più ingegnoso che si possa concepire da mente umana, il quale consisteva addirittura nel non tentare affatto di nasconderla. Forte di questa persuasione, mi aggiustai sul naso un paio d'occhiali verdi e mi presentai, un bel mattino, con l'aria di capitarvi per puro caso, nell'abitazione del ministro. Il signor D. era in casa. Egli girandolava per le sue stanze, sbadigliando e gingillandosi con mille sciocchi argomenti e protestandosi oppresso da una noia mortale. Il ministro D. è, forse, tra i nostri uomini più energici, ma soltanto quando è certo di non essere osservato da nessuno. Per non esser da meno di lui, cominciai anch'io a lamentarmi, e accusai un'improvvisa debolezza alla vista che mi costringeva a portare occhiali verdi. Ma dietro a quelli ispezionavo, con cura e minuzia l'intero appartamento, badando tuttavia a esser sempre presente alla conversazione del mio ospite. Concentrai, dapprima, tutta la mia attenzione su una grande scrivania presso la quale egli era seduto, e sulla quale giacevano, mescolate disordinatamente, alcune lettere ed altre carte, assieme a qualche volume e uno o due strumenti musicali. Dopo un esame piuttosto prolungato, fatto con tutto mio agio, non vi scorsi, però, nulla che potesse giustificare i miei sospetti. Ma i miei sguardi, a lungo andare, dopo aver fatto un completo ed accurato giro della camera, caddero su un qualsiasi portacarte adorno di lustrini, e sospeso a mezzo d'un nastro scolorito a un piccolo bottone di metallo dorato proprio al centro della cappa d'un caminetto. Quel portacarte era diviso in tre o quattro compartimenti, e lasciava vedere, oltre a cinque o sei piccoli biglietti da visita, una lettera. Questa era piuttosto sudicia e spiegazzata. Ed era come divisa in due pezzi da uno strappo nel mezzo, il quale denotava l'intenzione, in un primo momento, di stracciarla come se si trattasse d'un oggetto di nessun valore. Essa recava un largo sigillo nero colla cifra D., bene evidente, ed era indirizzata allo stesso ministro. L'indirizzo era stato tracciato da mano femminile, con una calligrafia molto sottile ed elegante. Era stata gettata negligentemente, ed anche, a quanto sembrava, con un certo sdegno, in uno degli scomparti superiori del portacarte. Fin dal primo colpo d'occhio, ch'io posai su quella lettera, non ebbi alcun dubbio che fosse proprio quella che stavo cercando. Essa era, nell'aspetto esteriore, del tutto differente da quella di cui il prefetto ci aveva letta una tanto minuta descrizione. In questa del portacarte, il sigillo era largo, nero e recava la lettera D., mentre in quella descritta nel promemoria del prefetto, il sigillo era piccolo e rosso, con suvvi lo stemma ducale della famiglia S. In questa l'indirizzo era di mano femminile, in quella l'indirizzo - d'un personaggio regale - era stato tracciato da una mano ardita e decisa. Le due lettere non si rassomigliavano, insomma, che in un sol punto: nella dimensione. Ma lo stesso carattere d'esagerazione di quelle differenze, fondamentali, insomma, - la sudiceria, lo stato deplorevole della carta, spiegazzata e lacerata, in perfetto contrasto con le abitudini, invece, del ministro, universalmente noto per il suo ordine e la sua metodicità - di quelle differenze che denunciavano chiaramente l'intenzione di sviare un'indagine indiscreta offrendo tutta l'apparenza d'un documento senza valore - tutto questo, coll'aggiunta della impudente ostentazione del documento messo addirittura in mostra perché lo potesse veder bene chiunque fosse passato nella stanza, la quale ostentazione si trovava a esser pienamente d'accordo con le mie conclusioni suesposte - tutto questo, mi dissi, è combinato in tal modo da corroborare i sospetti di qualcuno venuto, appunto, col partito preso d'un sospetto. Prolungai la mia visita il più possibile, e nel mentre che sostenevo una vivacissima discussione col ministro, su un argomento che conoscevo per essergli sempre gradito, non distraevo la mia attenzione dalla lettera. Nel corso di quell'esame, mi posi a riflettere sul suo aspetto esteriore e sul modo nel quale era stata collocata nel portacarte, fintanto che non pervenni a una scoperta, la quale disperse pure l'ultimo impercettibile dubbio che poteva essermi rimasto. Osservando i bordi della carta, notai che essi erano più logorati che non comportasse un uso naturale. Infatti, presentavano le caratteristiche di logorio d'un cartoncino che sia stato ripiegato nel senso inverso, ma lungo la medesima piegatura. Questa scoperta mi era più che sufficiente. Era chiaro che la lettera era stata rovesciata, come un guanto, ripiegata e nuovamente sigillata. Augurai il buon giorno al ministro e presi congedo da lui, non senza aver dimenticata, a bella posta, una tabacchiera d'oro sul suo tavolo. Il mattino di poi tornai a cercar la tabacchiera, e colsi l'occasione per riprendere, vivacissimamente anche stavolta, la conversazione del giorno innanzi. Ma nel mentre che la discussione era al massimo del suo interesse, una detonazione fortissima, come una revolverata, si fece sentire sotto alle finestre della casa, ben presto seguita dalle urla e dalle vociferazioni d'una folla spaurita. Il ministro D. si precipitò a una finestra, l'aprì e si sporse a guardare al basso. Nello stesso istante io filai diritto al portacarte, presi la lettera, l'intascai e la sostituii con un'altra, una sorta di fac-simile - quanto all'apparenza esteriore - che avevo preparato con cura, a casa, contraffacendo la lettera D. del sigillo con un mollica di pane. Il tumulto nella strada era stato motivato dal capriccio inconsulto d'un individuo armato di fucile. Egli aveva scaricata la sua arma davanti a una folla di donne e di bimbi. Ma poiché essa era caricata soltanto a salve, quell'originale fu lasciato continuare il suo cammino, una volta riconosciuto per innocuo, e il suo gesto fu attribuito ad avere egli alzato il gomito. Quando fu partito, il ministro D. si ritirò dalla finestra dove io l'avevo immediatamente seguito dopo essermi assicurata la preziosa lettera. Pochi istanti appresso mi congedavo nuovamente. Il preteso pazzo della sparatoria era stato pagato da me per far quella parte».
«Ma qual è lo scopo», domandai io, «che vi ha indotto a sostituire la lettera con una sua contraffazione? Non sarebbe stato più semplice, fin dalla vostra prima visita, d'impadronirvi della lettera, senza altre precauzioni, e di filare?».
«Il ministro D.», replicò Dupin, «è capace di tutto, ed è un uomo dai nervi a posto. Inoltre dispone, nel suo stesso alloggio, checché ne dica il prefetto, di servi devotissimi. Se io avessi osato attuare lo stravagante tentativo cui avete accennato, non sarei uscito vivo dalla sua casa. I buoni parigini non avrebbero più sentito parlare di me. Ma, a parte queste considerazioni, avevo una mira particolare. Voi siete a parte delle mie simpatie politiche. In tale affare io ho la parte del partigiano della dama in questione. Sono diciotto mesi che il ministro la tiene in suo pugno. Ed essa è, per contro, ora a tener lui, dal momento che egli ignora che la lettera non è più a casa sua ed è sempre sulle mosse di ricattare. Egli, dunque, andrà incontro, da se stesso, alla sua rovina politica, e in un colpo solo. La sua caduta non sarà meno precipitosa che ridicola. Si parla con molta sicumera di un facilis descensus Averni, e nondimeno, in materia di scalate, si può ripetere ciò che Catalani diceva a proposito del canto: è più facile salire che discendere. Nel caso presente, io non ho veruna simpatia, inclinazione, o pietà, per colui che sta per discendere. Il ministro D. è il vero monstrum orrendum, un uomo di genio senza alcun principio. Vi confesso tuttavia che non mi dispiacerebbe affatto di conoscere l'esatta natura dei suoi pensieri, al momento in cui, sfidato da quella che il nostro prefetto chiama una certa persona, egli sarà costretto ad aprire la lettera che io ho lasciato, per lui, nel suo portacarte».
«Come? Gli ci avete messo, forse, qualcosa di particolare?».
«Ah, no! Mi sarebbe apparso affatto sconveniente lasciargli l'interno in bianco. Avrebbe avuta l'aria d'un insulto. Una volta, a Vienna, il ministro D. mi ha giocato un brutto tiro, ed io gli dissi, in quell'occasione, e in tono tutt'altro che di scherzo, che me ne sarei ricordato. Per modo che, prevedendo la sua curiosità relativa alla persona che l'ha gabbato, ho pensato che sarebbe stato un vero peccato di privarlo d'un qualunque indizio. Egli conosce benissimo la mia calligrafia, ed io ho copiato, proprio in mezzo alla candida pagina, questi versi:

Un dessein si funeste
S'il n'est digne d'Atrèe, est digne de Thyeste.
Li troverete nell'Atrée di Crebillon».


LO SCARABEO D'ORO


Ma guarda un po' come balla il ragazzo!
Quello l'ha morsicato la tarantola.
Tutto sbagliato

Molti anni fa strinsi amicizia con un certo Mr. William Legrand. Apparteneva a un'antica famiglia ugonotta, e un tempo era stato ricchissimo; ma una serie di casi sventurati l'aveva ridotto all'indigenza. Per sottrarsi all'umiliazione di tanto declino, lasciò New Orleans, la città dei suoi antenati, e fissò la sua residenza nell'Isola di Sullivan, presso Charleston, Carolina del Sud.
È questa un'isola davvero singolare. Consiste per lo più di sabbia marina, ed è lunga circa tre miglia. In nessun punto la sua larghezza supera il quarto di miglio. La separa dalla terraferma, a mala pena riconoscibile, l'estuario di un fiumiciattolo che defluisce in mezzo a un intrico di canne e di mota, dimora prediletta della gallinella d'acqua. Come ben si può immaginare, la vegetazione è rada, o contratta, tarpata. Alberi imponenti non se ne vedono. Verso la punta occidentale, dove si erge Fort Moultrie e si trovano alcune squallide baracche di legno prese in affitto per l'estate da quanti fuggono la polvere e la febbre di Charleston, si incontra, è vero, l'ispida palma nana; ma tutta l'isola, eccettuata questa estremità occidentale e una striscia di bianca spiaggia deserta lungo il mare, è ricoperta di quel mirto profumato tanto apprezzato dagli orticultori inglesi. I cespugli spesso raggiungono un'altezza di quindici o venti piedi e formano un boschetto quasi impenetrabile che colma l'aria della sua greve fragranza.
Nei più appartati recessi di questo boschetto, non lontano dall'estremità orientale, ossia la più remota, dell'isola, Legrand si era costruita una casupola, che appunto occupava quando, per puro caso, feci la sua conoscenza. Ne nacque ben presto un'amicizia, giacché la personalità di quell'uomo solitario era tale da suscitare interesse e stima. Lo trovai colto, dotato di non comuni capacità intellettuali, ma malato di misantropia e soggetto a un capriccioso alternarsi di umori, dall'entusiasmo alla malinconia. Aveva con sé molti libri, ma raramente se ne serviva. I suoi svaghi preferiti erano la caccia e la pesca, o le passeggiate lungo la spiaggia e tra i mirti, alla ricerca di conchiglie o di esemplari entomologici; di questi ultimi, anzi, possedeva una collezione da fare invidia a uno Swammerdamm. In queste escursioni lo accompagnava di solito un vecchio negro, di nome Jupiter, affrancato prima ancora dei rovesci finanziari della famiglia, ma che né minacce né promesse avevano indotto a rinunciare a quello che considerava il suo diritto di servire e seguire ad ogni passo il suo giovane Massa Will. Non è improbabile che i parenti di Legrand, giudicandolo un po' tocco nel cervello, avessero contribuito a inculcare in Jupiter questa idea fissa allo scopo di mettere accanto al solitario vagabondo qualcuno che lo sorvegliasse e lo tutelasse.
Gli inverni, alla latitudine dell'isola di Sullivan, non sono quasi mai rigidi, e assai di rado, in un giorno d'autunno, si sente la necessità di accendere il fuoco. Tuttavia, verso la metà d'ottobre del 18..., si ebbe una giornata notevolmente fredda. Poco prima del tramonto, mi feci strada attraverso i sempreverdi fino alla capanna del mio amico, che non vedevo da parecchie settimane; a quell'epoca infatti abitavo a Charleston, a nove miglia di distanza, e i traghetti per l'isola e dall'isola erano meno frequenti e regolari di quelli odierni. Arrivato alla capanna, bussai come ero solito fare e, non ottenendo risposta, cercai la chiave là dove sapevo che era nascosta, aprii la porta ed entrai. Nel caminetto ardeva un bel fuoco: una novità tutt'altro che sgradita. Mi tolsi il cappotto, accostai una poltrona ai ciocchi scoppiettanti, e pazientemente attesi l'arrivo dei mie, ospiti.
Tornarono che era quasi sera, e mi diedero il più caloroso benvenuto. Jupiter, con un sorriso che gli si allargava da un orecchio all'altro, si diede da fare per prepararci una cenetta a base di gallinelle d'acqua. Legrand era in preda a uno dei suoi attacchi - come definirli altrimenti? - d'entusiasmo. Aveva trovato un bivalve ignoto, appartenente a un genere sconosciuto e, soprattutto, aveva inseguito e catturato, con l'aiuto di Jupiter, uno scarabaeus che egli riteneva assolutamente nuovo ma a proposito del quale desiderava conoscere il mio parere il giorno dopo.
«E perché non stasera?», chiesi, stropicciandomi le mani al calore della fiamma e mandando al diavolo tutta la tribù degli scarabei.
«Ah, se solo avessi saputo che eravate qui!», disse Legrand, «ma e da tanto che non vi vedo; e come potevo prevedere che mi avreste fatto visita proprio stasera? Mentre tornavo a casa, ho incontrato il tenente G. del forte, e molto scioccamente gli ho prestato lo scarabeo; così non potrete vederlo prima di domani. Restate qui stasera, e manderò Jup a riprenderlo domani all'alba. È la cosa più affascinante del creato».
«Che cosa, l'alba?».
«Non dite assurdità! Lo scarabeo! È d'un brillante color oro, grande all'incirca come una grossa noce di hickory, con due macchie d'un nero lucente a una estremità del dorso, e una terza, un po' più lunga, all'altra. E le antennae, diramate ...».
«Niente rame, Massa Will, ti dico e ripeto», lo interruppe Jupiter; «lo sgarabeo è oro massiccio, tutto, dentro e fuori: tutto meno ali... mai veduto in vita mia sgarabeo così pesante».
«E va bene, Jup, ammettiamo che sia come dici tu», replicò Legrand un po' più seriamente, mi parve, di quanto richiedesse la situazione; «ma ti pare una buona ragione per lasciar bruciare le galline?». E, rivolgendosi a me: «Il colore, in effetti, quasi basterebbe a convalidare l'opinione di Jupiter. Sono certo che non avete mai visto un riflesso metallico più brillante di quello che emettono le scaglie... ma giudicherete domani. Intanto, posso darvi un'idea della forma». Così dicendo, si sedette a un tavolino, sul quale erano penna e inchiostro, ma niente carta. Ne cercò in un cassetto, ma non ne trovò.
«Non importa», disse alla fine, «questo può andare»; e trasse dal taschino del panciotto un pezzo di quel che mi parve carta da protocollo, molto sudicio, e con la penna vi tracciò un rapido schizzo. Intanto, io me ne stavo sempre seduto accanto al fuoco, perché avevo ancora freddo. Terminato il disegno, Legrand me lo porse senza alzarsi dalla sedia. Mentre lo prendevo, si sentì un forte mugolio, seguito da un raspare d'unghie alla porta. Jupiter l'aprì, e un grosso terranova, il cane di Legrand, si precipitò nella stanza, mi appoggiò le zampe sulle spalle, e mi colmò di effusioni, poiché nelle mie visite precedenti gli avevo mostrato molta simpatia. Quando ebbe finito di farmi festa, guardai il foglietto e, a dire il vero, restai piuttosto interdetto di fronte a quel che il mio amico vi aveva disegnato. «Be'», dissi, dopo averlo esaminato alcuni minuti, «questo, devo ammetterlo, è uno strano scarabaeus, e nuovo per me. Mai visto niente di simile... forse un teschio, una testa di morto, è la cosa che più gli somiglia tra quante mi sia mai capitato di osservare».
«Una testa di morto!», ripeté Legrand. «Oh, sì... be' certo che sulla carta può averne l'aspetto, più o meno. Le due macchie nere in alto sarebbero gli occhi, è così? e quella più lunga, qui in basso, la bocca... e poi la forma, nell'insieme, è ovale».
«Può essere», dissi; «ma, Legrand, ho paura che come disegnatore non siate un gran che. Per farmi un'idea dell'aspetto di quello scarabeo, bisogna che prima lo veda».
«Be', non capisco», fece lui, un po' seccato, «io non disegno male, o almeno non dovrei disegnare male: ho avuto dei buoni maestri e mi lusingo di non essere proprio negato».
«Ma allora, mio caro, siete in vena di scherzare», ribattei, «questo come teschio è più che passabile; direi che è un teschio eccellente, stando alle nozioni che comunemente abbiamo di questi esemplari fisiologici; ... e il vostro scarabaeus, se gli assomiglia, deve essere davvero il più strano scarabeo del mondo. Anzi, potremmo ricamarci sopra qualche storiella a base di superstizioni, qualcosa da far venire i brividi. Suppongo che lo battezzerete scarabaeus caput hominis, o roba del genere: la storia naturale abbonda di denominazioni simili. Ma le antenne di cui parlavate, dove sono?»
«Le antenne!», esclamò Legrand, che a quell'argomento parve inesplicabilmente riscaldarsi; «dovete pur vederle, le antenne! le ho disegnate nitide come nell'originale, e questo dovrebbe bastare, mi sembra».
«Bene, bene... sarà», dissi, «io però non le vedo»; e gli restituii il pezzo di carta senza aggiungere altri commenti, non volendo irritarlo ancora di più. Ero però molto sorpreso della piega che la faccenda aveva assunto; la sua stizza mi lasciava perplesso; e, quanto al disegno dello scarabeo, non riproduceva antenne di sorta, questo era evidente, mentre l'insieme ricordava, e molto da vicino, la comune immagine di una testa di morto.
Legrand prese il foglietto con fare imbronciato, e stava per accartocciarlo con l'evidente proposito di buttarlo nel fuoco, quando una casuale occhiata al disegno sembrò fermarvi la sua attenzione. In un istante, il suo viso si coprì di un vivo rossore; subito dopo divenne pallidissimo. Per alcuni minuti restò lì seduto, continuando a esaminare minuziosamente il disegno. Poi si alzò, prese una candela dal tavolo, e andò a sedersi su una cassetta, una di quelle in cui i marinai tengono le loro cose, nell'angolo più appartato della stanza. Qui procedette a un altro, intento esame del disegno, girandolo e rigirandolo da tutte le parti, senza dir parola, comunque. Quel suo modo di fare mi stupì, ma ritenni più prudente non esasperare coi miei commenti il suo crescente nervosismo. Infine tolse dalla tasca della giacca un portafogli, vi infilò accuratamente la carta, e depose il tutto in uno scrittoio, che poi chiuse a chiave. Ora appariva più calmo, ma l'entusiasmo iniziale era sparito del tutto. Più che imbronciato, mi sembrava assente. Via via che la sera avanzava, si mostrò sempre più assorto nelle sue fantasticherie, da cui le mie scherzose battute non valevano a distoglierlo. Avevo avuto l'intenzione di trascorrere la notte alla capanna, come spesso avevo fatto in passato, ma vedendo il mio ospite di quell'umore, giudicai più opportuno congedarmi. Non insistette perché rimanessi ma, quando lo lasciai, mi strinse la mano con una cordialità maggiore del solito.
Forse un mese dopo (nel frattempo non avevo più visto Legrand), ricevetti la visita, a Charleston, del suo domestico Jupiter. Mai avevo visto quel buon vecchio negro così abbattuto, e temetti che una qualche sciagura avesse colpito il mio amico.
«Allora, Jup?», gli dissi. «Che è successo? Come sta il tuo padrone?».
«Ecco, Massa, a dire la verità lui non sta proprio tanto bene».
«Non sta bene! Ne sono desolato. Di che si lamenta?».
«Ecco, questo è! Lui mai si lamenta di niente, ma molto malato invece».
«Molto malato, Jupiter! Perché non me l'hai detto subito? costretto a letto?».
«Ma no! non è stretto, lui, da nessuna parte... Questo fa male a Jup. lo ho tanto tanto in pensiero per povero Massa Will».
«Jupiter, vorrei capire di che cosa stai parlando. Dici che il tuo padrone è malato. Non ti ha detto di che soffre?».
«Ecco, Massa, è inutile cervellarsi... Massa Will lui dice non ha niente; ma allora perché lui è sempre in giro con una faccia così e testa giù e spalle su e bianco come oca? E perché tiene sempre quella lubrica ...».
«Tiene che cosa?».
«Una lubrica sulla lavagna, con tanti numeri e figure, figure strane, mai viste. lo adesso ho sempre paura, ti dico. Sempre tenere occhi aperti, sempre curarlo. L'altro giorno scappa fuori prima del sole e sta via tutto santo giorno. Io avevo un bel bastone pronto per dare battuta a Massa Will quando tornava... ma povero stupido non ho avuto coraggio: sua faccia tanto trista».
«Eh, come? Ah, certo! Dopo tutto, credo che faresti bene a non essere troppo severo con quel poveretto... non bastonarlo, Jupiter... sarebbe troppo per lui. Ma tu, non puoi farti un'idea di che cosa abbia cagionato questa malattia, o piuttosto questo suo nuovo comportamento? È accaduto qualcosa di spiacevole dopo che vi ho visti l'ultima volta?».
«No, Massa, dopo c'è stato niente di male; è stato prima, ho paura, proprio il giorno che sei venuto».
«Come? che cosa vuoi dire?».
«Ma sì, Massa, lo sgarabeo: ecco che cosa».
«Che?».
«Lo sgarabeo... di certo Massa Will è stato morsicato da qualche parte in testa da quello sgarabeo d'oro».
«E per quale motivo avanzi questa ipotesi, Jupiter?».
«Avanti tutto le pinze, e la bocca anche. Mai veduto un diavolo di sgarabeo così. Calcia e morde tutto quello che viene vicino a lui. Massa Will lo chiappa per primo ma deve lasciare andare in fretta, parola di Jup... è allora, sicuro, che è stato morsicato. Ma a me la bocca di quello sgarabeo non mi piace niente, così non voglio prenderlo con miei diti ma lo chiappo con pezzo di carta trovato li. Metto dentro la carta la bestia e metto anche piccolo pezzo di carta dentro sua bocca. Ecco, così ho fatto».
«Tu pensi, dunque, che il tuo padrone sia stato veramente morsicato dallo scarabeo e che questo morso l'abbia fatto ammalare?».
«Io penso niente, mi puzza. Perché Massa Will sogna tanto di oro? Perché, dico, quello sgarabeo d'oro ha morsicato Massa Will. Già sentito prima storie di sgarabei d'oro».
«Ma come sai che sogna l'oro?».
«Come so? Perché lui parla quando dorme; ecco perché mi puzza».
«Bene, Jupiter, forse hai ragione; ma a quale circostanza debbo l'onore della tua visita oggi?».
«Che cosa, Massa?».
«Mi porti qualche messaggio da parte di Mr. Legrand?».
«No, Massa, io porto questa pìstola qui». E Jupiter mi porse un biglietto che diceva:

Carissimo,
perché da tanto tempo non vi fate vedere? Spero che non siate stato tanto sciocco da prendervela per qualche mia piccola brusquerie: ma no, questo è improbabile.
Da che vi ho visto l'ultima volta ho avuto gravi motivi di preoccupazione. Ho qualcosa da dirvi, ma non so come dirvelo, o se dovrei dirvelo.
Da qualche giorno non mi sento molto bene, e il povero vecchio Jupiter mi sta tormentando in modo addirittura intollerabile con le sue ben intenzionate premure. Lo credereste? L'altro giorno si era preparato un grosso bastone con cui punirmi per aver tagliato la corda e aver trascorso l'intera giornata, solus, tra le colline della terraferma. Sono convinto che solo la mia brutta cera mi abbia risparmiato un bel po' di legnate.
Da che ci siamo visti, non ho aggiunto nulla alla mia collezione.
Se non vi è di troppo disturbo, fate in modo di tornare con Jupiter.
Ve ne prego, venite. Ho bisogno di vedervi questa sera per faccende di grande importanza: ve l'assicuro, della massima importanza.
Vostro affezionatissimo
William Legrand

C'era qualcosa, nel tono di quel biglietto, qualcosa che destava in me una viva inquietudine. Lo stesso suo stile differiva sostanzialmente da quello consueto di Legrand. Che aveva in mente? Quale nuova stravaganza si era impadronita del suo cervello morbosamente sensibile? Quali «faccende della massima importanza» poteva avere da sistemare, lui? Il rapporto di Jupiter non prometteva nulla di buono. Temevo che a lungo andare il peso della sventura avesse del tutto stravolto la ragione del mio amico. Pertanto, senza un attimo di esitazione, mi preparai ad accompagnare il negro.
Giunti sul molo, notai una falce e tre vanghe, tutte nuove a giudicare dall'apparenza, sistemate in fondo alla barca su cui dovevamo salire.
«E questo che significa, Jup?», chiesi.
«Falce e badili, Massa».
«Lo vedo: ma che ci stanno a fare qui?».
«Falce e badili che Massa Will ha detto a me di comperare per lui in città, e ho dovuto pagare un sacco di soldi».
«Ma, in nome di tutti i misteri di questo mondo, che ci fa il tuo Massa Will con falci e badili?».
«Questo io non so, e il diavolo mi porti se Massa Will sa. Ma viene tutto da quello sgarabeo».
Visto che da Jupiter, il cui intelletto sembrava completamente assorbito dallo scarabeo, era impossibile cavare una spiegazione più soddisfacente, entrai nella barca e spiegai la vela.
Col favore di una brezza gagliarda, entrammo ben presto nella piccola insenatura a nord di Fort Moultrie, e una camminata di un paio di miglia ci portò alla capanna. Vi arrivammo che erano circa le tre. Legrand ci attendeva con ansiosa impazienza. Mi strinse la mano con un nervoso empressement che mi allarmò e rafforzò i sospetti che già nutrivo. Il suo viso era pallido, di un pallore quasi spettrale, e gli occhi affossati brillavano di una luce innaturale. Dopo essermi informato sulla sua salute, gli chiesi, non sapendo cos'altro dire, se avesse riavuto lo scarabaeus dal tenente G...
«Oh, sì», rispose, arrossendo violentemente, «l'ho riavuto la mattina dopo; nulla m'indurrebbe a separarmi da quello scarabaeus. Sapete che Jupiter aveva proprio ragione?».
«In che?», chiesi, con un triste presentimento in cuore.
«Nel supporre che lo scarabeo è d'oro vero». Parlava con la massima serietà, e mi sentii indicibilmente turbato.
«Quello scarabeo farà la mia fortuna», proseguì con un sorriso di trionfo, «mi permetterà di rientrare in possesso delle ricchezze della mia famiglia. C'è da stupirsi, dunque, se per me ha tanto valore? Giacché la Fortuna ha ritenuto opportuno di farmene dono, basterà che io ne faccia uso opportuno, e arriverò all'oro che esso mi addita. Jupiter, portami lo scarabaeus!».
«Che cosa? quella bestia, Massa? Preferisco stare al largo dallo sgarabeo; va a prenderlo tu, Massa». Legrand si alzò con aria grave e solenne e mi portò lo scarabeo, togliendolo dalla teca di vetro in cui era custodito. Era davvero magnifico, quello scarabaeus, e a quel tempo del tutto ignoto ai naturalisti: certo di inestimabile valore, dal punto di vista scientifico. Aveva due macchie rotonde, nere, a un'estremità del dorso e una terza, di forma allungata, all'altra estremità. Le scaglie - straordinariamente dure, lisce e lucenti - avevano tutta l'apparenza dell'oro brunito. Il peso dell'insetto era davvero notevole e, tutto considerato, non potevo biasimar troppo Jupiter per la sua opinione in proposito; ma l'assenso di Legrand a tale opinione, questo, lo giuro, non riuscivo proprio a capirlo.
«Vi ho mandato a chiamare», disse Legrand in tono magniloquente, quando ebbi finito di esaminare lo scarabeo, «vi ho mandato a chiamare allo scopo di avvalermi del vostro consiglio e del vostro aiuto nell'adempimento dei disegni del Fato e dello scarabeo ...».
«Mio caro Legrand», esclamai, interrompendolo, «di certo non state bene, e fareste meglio a usarvi qualche riguardo. Ora andate a letto, e io resterò con voi qualche giorno, finché non vi sarete rimesso. Siete febbricitante, e ...».
«Sentitemi il polso», disse.
Lo sentii e, a dire il vero, non notai indizio di febbre.
«Ma potreste essere malato, e tuttavia non aver febbre. Permettete che, questa volta almeno, vi faccia da medico. Anzitutto, andate a letto. Poi...».
«Vi sbagliate», m'interruppe. «Sto bene: bene quanto è possibile stare nello stato di eccitazione in cui mi trovo. Se davvero volete aiutarmi, fate in modo di alleviarlo».
«E come?».
«Semplicissimo. Jupiter ed io stiamo per effettuare una spedizione tra le colline della terraferma, e in questa spedizione avremo bisogno dell'aiuto di una persona assolutamente fidata.
Voi siete l'unico di cui ci possiamo fidare. L'impresa puo riuscire o fallire, ma in un caso e nell'altro l'eccitazione che voi notate in me si placherà».
«Sono ansioso di esservi d'aiuto in qualsiasi modo», risposi; «ma intendete dire che quest'insetto infernale ha qualche rapporto con la vostra spedizione sulle colline?».
«Precisamente».
«E allora, Legrand, non posso partecipare a un'impresa così assurda».
«Mi dispiace, mi dispiace molto; allora, dovremo provarci da soli».
«Provarci da soli! Ma siete pazzo! Un momento: per quanto tempo contate di star via?».
«Tutta la notte, probabilmente. Partiamo subito e, comunque vadano le cose, saremo di ritorno prima dell'alba».
«E mi promettete sul vostro onore che quando vi sarà passato questo capriccio e la faccenda dello scarabeo (buon Dio!) sarà sistemata con vostra piena soddisfazione, tornerete a casa e seguirete i miei consigli senza discutere, come se fossero quelli del vostro medico?»,
«Sì, lo prometto; e ora muoviamoci, non abbiamo tempo da perdere».
Con il cuore gonfio, accompagnai il mio amico. Partimmo verso le quattro: Legrand, Jupiter, il cane, ed io. Jupiter si era caricato della falce e dei badili - aveva insistito per portarli tutti lui - più, mi parve, per il timore di lasciare l'uno o l'altro di quegli attrezzi a portata di mano del padrone che per un eccesso di zelo o di devozione. Era più scorbutico che mai, e durante tutto il viaggio le sole parole che gli uscirono dalle labbra furono «quel dannato

sgarabeo». A me erano state affidate un paio di lanterne cieche, mentre Legrand si limitò a portare lo scarabaeus, che teneva appeso all'estremità di un cordone; e, mentre camminava, lo faceva roteare in tutti i sensi con aria di negromante. Quando notai nel mio amico quest'ultimo, palese segno della sua aberrazione mentale, a stento trattenni le lacrime. Ritenni tuttavia più opportuno assecondare il suo umore, almeno per il momento o finche non mi fosse stato possibile adottare più energiche misure con qualche possibilità di successo. Nel frattempo tentai, ma invano, di cavargli qualche informazione sullo scopo della spedizione. Essendo riuscito a persuadermi ad accompagnarlo, sembrava restio a intavolare conversazioni su qualsiasi argomento di secondaria importanza, e a tutte le mie domande non accordava altra risposta che «vedremo».
Attraversammo in barca il fiumiciattolo all'estremità dell'isola e, risalite le alture della riva opposta, avanzammo in direzione nord-ovest per una plaga indicibilmente selvatica e desolata, dove non si scorgeva orma di essere umano. Ci faceva strada Legrand; procedeva deciso, sostando solo un istante, qua e là, per consultare certi contrassegni che evidentemente egli stesso aveva lasciato in una precedente occasione.
Marciammo così per circa due ore, e il sole stava giusto tramontando quando ci inoltrammo in una regione infinitamente più tetra di quanto avessimo fino allora veduto. Era una specie di altopiano in prossimità della vetta di una collina quasi inaccessibile, ricoperta dalla base alla cima da una boscaglia fitta e disseminata di enormi macigni che parevano sparsi a casaccio sul terreno: solo il sostegno degli alberi cui si appoggiavano impediva a molti di essi di precipitare nelle valli sottostanti. Forre profonde, variamente innervate, davano al paesaggio un'aria di ancor più arcigna solennità.
La piattaforma naturale sulla quale ci eravamo arrampicati era fittamente rivestita di rovi; attraverso i quali, come presto scoprimmo, ci sarebbe stato impossibile farci strada senza usare la falce; e Jupiter, seguendo gli ordini del padrone, provvide ad aprirci un sentiero fino ai piedi di una tulipifera di enorme altezza che si ergeva accanto a otto o dieci querce e tutte le superava, come pure qualsiasi albero avessi mai visto, per la bellezza del fogliame e della forma, per l'apertura dei rami e la maestà dell'insieme. Quando raggiungemmo l'albero, Legrand si volse a Jupiter e gli chiese se riteneva di potercisi arrampicare. Il vecchio parve un po' sconcertato dalla domanda, e per qualche istante non rispose nulla. Infine si avvicinò a quel tronco enorme, ne fece lentamente il giro e lo esaminò con scrupolosa attenzione. Ultimata l'indagine, si limitò a dire:
«Sì, Massa, Jupiter arrampica tutti alberi che ha veduto in vita sua».
«E allora sali, sbrigati! tra poco sarà troppo buio per vedere quel che stiamo facendo».
«Fino a dove devo andare su, Massa?», chiese Jupiter.
«Prima arrampicati sul tronco, poi ti dirò io da che parte devi andare, e... un momento, aspetta!... Porta con te lo scarabeo».
«Lo sgarabeo, Massa Will!... lo sgarabeo d'oro!», gridò il negro, ritraendosi sgomento. «E perché devo portare lo sgarabeo su per albero? Accidenti a me, se lo faccio!».
«Se tu, Jup, un negro grande e grosso, hai paura di prendere in mano un piccolo, innocuo scarabeo morto, be', lo puoi portar su legato a questo spago; ma se non lo porti con te in un modo o nell'altro, mi vedrò costretto a romperti la testa con questa vanga».
«Ma cosa ti salta adesso, Massa?», disse Jupiter, che la vergogna rendeva evidentemente più disponibile. «Sempre a sgridare tuo vecchio negro! Io volevo scherzare, e basta. Io, paura di sgarabeo? Che cosa m'importa a me di sgarabeo?». E cautamente prese in mano un'estremità dello spago e, tenendo l'insetto lontano da sé quanto glielo permettevano le circostanze, si accinse a salire sull'albero.
In gioventù la tulipifera o Liriodendron Tulipiferum, l'albero più grandioso delle foreste americane, ha un tronco singolarmente liscio e spesso si leva a grande altezza senza rami laterali; ma, in età più matura, la sua corteccia si fa nodosa e diseguale e sul tronco appaiono numerosi, brevi rami. La difficoltà della salita, nel caso in questione, era dunque più apparente che reale. Stringendo il più saldamente possibile l'enorme tronco con le braccia e le ginocchia, afferrando con le mani alcune sporgenze e puntando i piedi nudi su alcune altre, Jupiter, dopo aver rischiato di cadere un paio di volte, si infilò alla fine nella prima grande biforcazione e parve considerare praticamente conclusa l'intera faccenda. In effetti, il rischio dell'impresa era ormai superato, sebbene lo scalatore si trovasse a un'altezza di sessanta-settanta piedi dal suolo.
«Adesso da che parte devo andare, Massa Will?», chiese.
«Tienti al ramo più grande, su questo lato», disse Legrand. Il negro obbedì prontamente, e all'apparenza senza gran fatica; salì ancora e ancora, finché la sua tozza figura scomparve nel folto. Poco dopo si udì la sua voce, come un richiamo lanciato da grande distanza.
«Devo andare ancora avanti?».
«A che altezza sei?», chiese Legrand.
«Tanto, tanto alto», rispose il negro; «posso vedere il cielo da cima di albero».
«Lascia perdere il cielo, e sta' attento a quello che dico. Guarda giù lungo il tronco e conta i rami sotto di te da questa parte. Quanti rami hai superato?».
«Uno, due, tre, quattro, cinque... Da questa parte ho passato cinque rami grossi, Massa».
«Allora sali di un altro ramo».
Pochi minuti dopo si udì di nuovo la voce di Jupiter, che annunciava di aver raggiunto il settimo ramo.
«Ora, Jup», esclamò Legrand, palesemente molto eccitato, «voglio che tu ti spinga in avanti lungo quel, ramo quanto più ti è possibile. Se vedi qualcosa di strano, fammelo sapere».
A questo punto, quei pochi dubbi che ancora potevo avere sulla follia del mio sventurato amico vennero definitivamente dissipati. Era completamente impazzito: questa la sola conclusione che potevo trarre. E cominciai a pensare, vivamente preoccupato, al modo di riportarlo a casa. Mentre riflettevo su quel che mi conveniva fare, si udì di nuovo la voce di Jupiter.
«Ho gran paura a andare troppo avanti su questo ramo... Ramo morto, tutto marcio».
«Hai detto un ramo morto, Jupiter?», gridò Legrand, con la voce che gli tremava.
«Sì, Massa, morto morto... ma proprio finito, trapassato».
«In nome del cielo, che debbo fare?», chiese Legrand, apparentemente sconvolto.
«Fare?», feci io, lieto di poter dire la mia, «ma venirvene a casa a mettervi a letto. Su, andiamo! Siate ragionevole. Si fa tardi. E poi, ricordate la vostra promessa, no?».
«Jupiter», gridò Legrand senza minimamente badarmi, «mi senti, Jupiter?».
«Sì, Massa Will, ti sento benissimo».
«Allora saggia bene il legno col tuo coltello, e vedi se ti pare proprio molto marcio».
«Pe r marcio è marcio, Massa», rispose il negro di lì a pochi minuti, «ma non tanto come credevo. Posso andare avanti a
cora un poco, da solo: sì, credo che posso».
«Da solo?... che vuoi dire?».
«Ecco, voglio dire lo sgarabeo. È molto molto pesante, lo sgarabeo. Se io prima lo lascio cadere, allora questo ramo non si rompe col peso di un negro da solo».
«Maledetto furfante!», grido Legrand, visibilmente sollevato, «che razza di assurdità mi tiri fuori adesso? Prova a lasciar cadere lo scarabeo, e lo ti rompo il collo. Ehi, Jupiter, mi senti?».
«Sì, Massa, non c'è bisogno di sgridare così un povero negro».
«Be', ascolta: se ti arrischi lungo quel ramo fin dove ti senti sicuro, e non lasci cadere lo scarabeo, quando torni giù ti regalo un dollaro d'argento».
«Vado, Massa Will, vado», rispose prontamente il negro, «sono quasi alla fine».
«Alla fine?», chiese Legrand, e urlava quasi, «dici che sei alla fine di quel ramo?».
«Quasi alla fine, Massa... O-o-o-oh! Ossignore! che cosa è questo coso qui sull'albero?».
«E allora?», incalzò Legrand al colmo della gioia, «che cosa è?».
«Be', niente: solo un teschio... qualcuno ha lasciato sua testa qui su questo albero, e i corvi hanno beccato via tutta la carne, proprio tutta».
«Un teschio, hai detto?... benissimo!... come è attaccato al ramo? che cosa lo tiene fermo?».
«Devo guardare bene, Massa. Toh, questa è proprio una circostanza curiosa, parola mia... c'è un chiodo grosso nel teschio: questo lo tiene fermo su legno».
«Bene. Ora, Jupiter, fa' esattamente come ti dico; mi senti?».
«Sì, Massa».
«Fa' attenzione, allora! Trova l'occhio sinistro di teschio».
«Hm! Trovarlo? Questo non ha occhi, neanche uno».
«Al diavolo, quanto sei stupido! Sai distinguere la mano destra dalla sinistra?».
«Sicuro che so... lo so bene! Mano sinistra è quella che taglio la legna».
«Giusto, perché sei mancino! e il tuo occhio sinistro è dalla stessa parte della tua mano sinistra, capito? Ora, suppongo, riuscirai a trovare l'occhio sinistro del teschio, o il posto dove c'era l'occhio sinistro. L'hai trovato?».
Segui una lunga pausa. Alla fine, il negro chiese:
«Anche occhio sinistro di teschio è dalla stessa parte di mano sinistra di teschio?... Perché teschio mani non ne ha... Fa niente! Adesso ho trovato occhio sinistro... Ecco occhio sinistro! Che cosa devo fare?».
«Infilaci lo scarabeo e calalo per tutta la lunghezza dello spago... Attento a non lasciartelo sfuggire, lo spago».
«Fatto, Massa Will. Molto facile far passare sgarabeo per buco... Ecco, guarda che viene giù!».
Durante questo colloquio, la figura di Jupiter era rimasta completamente invisibile; ma l'insetto, che aveva calato, appariva adesso distintamente all'estremità dello spago e splendeva come un globo d'oro brunito agli ultimi raggi del sole al tramonto che ancora illuminavano debolmente l'altura su cui ci trovavamo. Lo scarabaeus ormai penzolava fuori dei rami e, se Jupiter l'avesse lasciato cadere, sarebbe caduto ai nostri piedi. Legrand prese subito la falce e sgombrò uno spazio circolare del diametro di tre o quattro yarde, proprio sotto all'insetto; fatto ciò, ordinò a Jupiter di lasciare andare lo spago e di scendere dall'albero.
Conficcato con grande precisione un piolo nel terreno, nel posto esatto dove lo scarabeo era caduto, il mio amico trasse di tasca un metro a nastro. Ne assicurò un'estremità al punto del tronco più vicino al piolo, e lo svolse fino a raggiungere il piolo stesso; poi continuò a srotolarlo nella direzione indicata dal due punti dell'albero e del piolo, mentre Jupiter con la falce liberava il suolo dai rovi. Nel punto così trovato venne piantato un secondo piolo, e tenendo questo come centro, Legrand tracciò un cerchio rudimentale, del diametro di circa quattro piedi. Quindi prese una vanga, e dopo averne data una a Jupiter e una a me, ci esortò a metterci a scavare il più rapidamente possibile.
A dire il vero, tali passatempi non sono mai stati di mio gusto e, in quel particolare momento, avrei più che volentieri opposto un rifiuto; calava infatti la notte, e la camminata di prima mi aveva non poco affaticato; ma non vedevo come svicolare e d'altra parte temevo di turbare con un diniego l'equilibrio mentale del mio sventurato amico. Certo, se avessi potuto contare sull'aiuto di Jupiter, non avrei esitato a ricorrere alla forza, per riportare a casa quel povero folle, ma conoscevo troppo bene i sentimenti del vecchio negro per sperare che, in qualsiasi circostanza, avrebbe preso le mie parti nel caso di una colluttazione col suo padrone. Quest'ultimo, ormai ne ero sicuro, si era lasciato contagiare da qualcuna delle innumerevoli superstizioni del Sud relative a tesori sepolti, e questa sua fantasticheria aveva trovato conferma nel ritrovamento dello scarabaeus o, forse, nell'ostinazione di Jupiter, in quel suo ripetere che si trattava di uno «sgarabeo di oro vero». Una mente già incline alla follia sarebbe stata facilmente sedotta da simili suggestioni, specie se consone alle sue idee preconcette - e allora mi tornò alla mente il discorso del poveretto a proposito dello scarabeo che gli avrebbe «additato» la sua fortuna. Tutto considerato, ero profondamente turbato e perplesso ma, alla fine, decisi di fare di necessità virtù: scavare di lena e così convincere al più presto il visionario, con una prova concreta, della fallacia delle sue convinzioni.
Accese le lanterne, ci mettemmo tutti al lavoro con uno zelo degno di più ragionevole causa, e mentre la loro luce cadeva sulle nostre persone, e sugli attrezzi, non potei fare a meno di pensare che formavamo un gruppo davvero pittoresco, e che a un intruso che per caso si fosse trovato a passare di lì il nostro lavoro sarebbe certo parso strano e sospetto.
Per due ore scavammo senza tregua, scambiando rare parole, disturbati solo dall'abbaiare del cane, smodatamente interessato a quel che facevamo. Alla fine, divenne così turbolento da farci temere che richiamasse qualche vagabondo lì attorno: o, piuttosto, questo temeva Legrand; quanto a me, avrei accolto con piacere qualsiasi interruzione che mi avesse dato modo di ricondurre a casa quell'esaltato. Alla fine, la cagnara venne ridotta al silenzio molto efficacemente da Jupiter che, balzato fuori dalla buca con aria quanto mai risoluta, legò la bocca dell'animale con una delle sue bretelle e poi, con un ghigno sussiegoso, se ne tornò al lavoro.
Trascorso il tempo di cui si è detto, avevamo raggiunto una profondità di cinque piedi, senza trovar traccia di tesori. Seguì una pausa generale, e cominciai a sperare che la farsa fosse conclusa. Ma Legrand, benché palesemente sconcertato, si asciugò la fronte meditabondo e ricominciò. Avevamo scavato l'intero cerchio del diametro di quattro piedi, e ora ne allargammo un po' i limiti, scendendo di altri due piedi. Niente, ancora niente. Il cercatore d'oro, che sinceramente commiseravo, alla fine si tirò fuori della fossa, i tratti del volto segnati dalla delusione più amara e lentamente, con riluttanza, prese a infilarsi la giacca che si era tolta all'inizio del lavoro. lo nel frattempo non feci commenti. A un segnale del padrone, Jupiter comincio a raccogliere gli attrezzi. Ciò fatto e sbavagliato il cane, in profondo silenzio ci avviammo verso casa.
Non avevamo forse fatto una decina di passi in tale direzione quando Legrand bestemmiò forte, poi si avventò contro Jupiter e lo agguantò per il colletto. Esterrefatto, il negro spalancò occhi e bocca, lasciò cadere le vanghe, e cadde in ginocchio.
«Disgraziato!», sibilò Legrand a dentri stretti. «Maledetto furfante d'un negro! Parla, su! Rispondi immediatamente, e senza mentire! Qual è... qual è il tuo occhio sinistro?».
«Santo gelo, Massa Will! Non è questo qui mio occhio sinistro?», mugghiò l'atterrito Jupiter, mettendo la mano sul proprio organo della vista - il destro - e tenendovela con disperata tenacia, quasi temendo che da un momento all'altro il padrone volesse cavarglielo, quell'occhio.
«Me lo sentivo! Lo sapevo! Evviva!», gridò Legrand, lasciando andare il negro ed esibendosi in una serie di salti e piroette, con gran stupore del suo valletto che, levatosi in piedi, muto volgeva lo sguardo dal padrone a me, da me al padrone.
«Forza! Dobbiamo tornare indietro», disse quest'ultimo, «il gioco non è finito». E di nuovo ci fece strada fino alla tulipifera.
«Jupiter», disse, quando giungemmo ai piedi dell'albero, «vieni qui! il teschio era inchiodato al ramo con la faccia verso l'esterno, o con la faccia verso il ramo?».
«La faccia era in fuori, Massa, così i corvi potevano beccare bene suoi occhi e senza fatica».
«Bene. Allora, tu hai lasciato cadere lo scarabeo attraverso questo occhio, o quell'altro?». E Legrand toccò gli occhi di Jupiter, prima l'uno poi l'altro.
«Questo occhio, Massa, il sinistro, proprio come tu hai detto», e il negro indicò l'occhio destro.
«Basta così: dobbiamo provare di nuovo».
E qui il mio amico, nella cui follia ora vedevo, o mi sembrava di vedere, qualche traccia di metodo, rimosse il piolo che segnava il punto in cui era caduto lo scarabeo e lo spostò di circa tre pollici più a ovest della sua posizione primitiva. Quindi, teso come prima il metro a nastro dal punto più vicino del tronco fino al piolo, e continuando a svolgerlo in linea retta per un tratto di cinquanta piedi, segnò un punto distante parecchie yarde da quello in cui avevamo scavato in precedenza.
Intorno al nuovo punto venne tracciato un cerchio un po' più ampio del primo, e ci rimettemmo al lavoro con le vanghe. Ero terribilmente stanco ma, senza capire che cosa mi avesse fatto cambiare idea, non mi risentivo più per la fatica che mi veniva imposta. Ero inspiegabilmente interessato: eccitato, anzi. Forse c'era qualcosa nel modo di comportarsi di Legrand, pur così stravagante, una certa aria di premeditazione o di deliberazione, che mi impressionava. Scavavo di buona lena e di tanto in tanto mi sorprendevo addirittura a cercare con gli occhi, in una sorta di smaniosa attesa, il tesoro immaginario, il cui miraggio aveva sconvolto la mente del mio sventurato amico. In un momento in cui ero completamente assorto in queste mie fantasticherie, e quando eravamo al lavoro da forse un'ora e mezza, fummo di nuovo interrotti dai furiosi latrati del cane. La prima volta la sua irrequietezza era stata evidentemente provocata dalla voglia di far le feste o da capriccio, ma ora il tono era diverso: ostinato, allarmante. A Jupiter, che si riprovò a chiudergli la bocca, oppose una resistenza furiosa; poi, balzato nella buca, si diede a raspare freneticamente il terreno con le zampe. In pochi secondi aveva scoperto una massa di ossa umane, due scheletri completi, mista a parecchi bottoni di metallo e quel che sembravano resti di tessuto di lana, imputriditi e quasi ridotti in polvere. Un paio di colpi di vanga portarono alla luce la lama di un grosso coltello spagnolo e, scavando oltre, tre o quattro monete d'oro e d'argento sparpagliate.
A quella vista, Jupiter riuscì a stento a frenare la sua gioia, ma il volto di Legrand esprimeva un'estrema delusione. Comunque, ci sollecitò a continuare nei nostri sforzi, ma aveva appena finito di parlare che io inciampai e caddi in avanti: la punta del mio stivale si era impigliata in un grosso anello di ferro semi-sepolto nel terriccio smosso.
Ora lavoravamo con foga, e mai passai dieci minuti di più intensa eccitazione. In quell'intervallo di tempo dissotterrammo quasi completamente una cassa di legno oblunga che, a giudicare dalla sua perfetta conservazione e dalla straordinaria durezza del materiale, doveva certo esser stata soggetta a un qualche processo di mineralizzazione, forse dovuta al bicloruro di mercurio. La cassa era lunga tre piedi e mezzo, larga tre piedi, e profonda due piedi e mezzo. Era solidamente rinforzata da strisce di ferro lavorato e ribattuto, che formavano una sorta d' traliccio. Su ciascun lato, nella parte superiore, erano tre anelli di ferro - sei in tutto - per mezzo dei quali sei persone avrebbero potuto reggerla, ma tutti i nostri sforzi congiunti riuscirono a spostare di ben poco il cassone dentro la fossa. Ci sarebbe stato impossibile, lo capimmo subito, rimuovere quel peso enorme. Per fortuna, il coperchio era assicurato solo da due catenacci scorrevoli, che facemmo scivolare, tremando, ansimando per l'eccitazione. E un istante dopo, un tesoro di incalcolabile valore si rivelò sfolgorante ai nostri occhi. Come i raggi delle lanterne caddero dentro la buca, da un confuso ammasso d'oro e di gioielli si sprigionò un barbaglio, una vampata che letteralmente ci abbacinò.
Non cercherò di descrivere i sentimenti con cui guardavo. Naturalmente, predominava lo stupore. Legrand appariva disfatto dall'emozione: disse poche parole. Il volto di Jupiter si fece, per qualche minuto, mortalmente pallido: pallido quanto può esserlo, per legge di natura, il volto di un negro. Sembrava inebetito, folgorato. Poi cadde in ginocchio nella fossa e, affondando fino al gomito le braccia nude nell'oro, ve le tenne dentro, come a crogiolarsi in un bagno di delizie. Infine, con un profondo sospiro, esclamò, quasi in soliloquio:
«E tutto questo viene da sgarabeo d'oro! Quello sgarabeo tanto bellino! Il povero, piccolo sgarabeo che io ho sparlato tanto! Non hai vergogna di te, negro? Su, rispondi!».
Alla fine, dovetti richiamare l'attenzione del padrone e del servo sulla necessità di portar via di lì il tesoro. Si faceva tardi, ed era bene metterci all'opera, se volevamo portar tutto a casa prima dell'alba. Era difficile dire che cosa dovessimo fare, e perdemmo molto tempo a discutere e deliberare, tanto confuse erano le idee di tutti e tre. Finalmente, alleggerimmo la cassa togliendo due terzi del suo contenuto e riuscimmo così, non senza fatica, a sollevarla dalla buca. Quanto avevamo tolto lo nascondemmo tra i cespugli, e lasciammo il cane a far da guardia, con ordini severissimi da parte di Jupiter di non muoversi di lì per nessun motivo e di non aprir bocca fino al nostro ritorno. Dopodiché ci affrettammo verso casa con il forziere, raggiungendo la capanna sani e salvi, ma rotti dalla fatica, all'una del mattino. Esausti come eravamo, non sarebbe stato umanamente possibile, per il momento, fare di più. Riposammo fino alle due, cenammo, e subito dopo ripartimmo alla volta delle colline, muniti di tre robusti sacchi che, per nostra fortuna, si trovavano in casa. Poco prima delle quattro, giungemmo alla buca, ci dividemmo il resto del bottino il più equamente possibile e, senza attardarci a colmare la buca, ci dirigemmo di nuovo verso la capanna dove, per la seconda volta, depositammo il carico d'oro, quando a oriente, al di sopra degli alberi, le prime, pallide strisce di luce annunciavano l'alba.
Eravamo sfiniti, ma ancora tanto eccitati da non riuscire a riposare. Dopo un sonno agitato di tre o quattro ore, ci levammo, come d'intesa, per esaminare il nostro tesoro.
La cassa era stata riempita fino all'orlo, e noi trascorremmo l'intera giornata e gran parte della notte seguente a fare l'inventario del suo contenuto. Non v'era traccia d'ordine o di un criterio qualsiasi. Tutto era stato ammucchiato alla rinfusa. Dopo avere accuratamente selezionato il tutto, ci trovammo in possesso di una ricchezza ancor più grande di quanto avessimo dapprima supposto. In monete, c'era qualcosa come quattrocentocinquantamila dollari: stima approssimativa, la nostra, basata sulle quotazioni dell'epoca. Neppure una moneta d'argento. Era tutto oro, di antica data e d'ogni tipo: monete francesi, spagnole, tedesche, alcune ghinee inglesi e altri conii, di cui prima d'allora mai avevamo visto l'uguale. C'erano parecchie monete grosse e pesanti, così consunte che non riuscimmo a decifrarne le iscrizioni. Monete americane, niente. Stimare il valore dei gioielli risultò più difficile. C'erano diamanti - alcuni eccezionalmente grossi e bellissimi - centodieci in tutto, e non uno che fosse piccolo; diciotto rubini di una luce purissima; trecentodieci smeraldi, tutti di grande bellezza; e ventun zaffiri, con un opale. Tutte queste pietre erano state tolte dai loro castoni e gettate alla rinfusa nella cassa. Quanto ai castoni, che ripescammo dal mucchio dell'oro, avevano l'aria di essere stati battuti e ribattuti con un martello allo scopo di impedirne l'identificazione. Oltre a tutto questo, c'era un'infinità di ornamenti in oro massiccio; circa duecento pesanti anelli e orecchini; ricche catene, trenta, se ben ricordo; ottantatrè grandi crocifissi, pesantissimi; cinque turiboli d'oro di grande valore; una gigantesca tazza da punch in oro, ornata di pampini splendidamente cesellati e figure di baccanti; due else di spada finemente lavorate a sbalzo, e molti altri oggetti minori che non rammento. Il peso di questi preziosi superava le trecentocinquanta libbre; e in questa stima non ho incluso centonovantasette superbi orologi, tre dei quali valevano, a dir poco, cinquecento dollari ciascuno. Molti erano antichi e, in quanto orologi, inservibili, poiché i loro congegni avevano risentito, quale più quale meno, della corrosione, ma tutti quanti erano riccamente adorni di gemme e avevano casse di gran valore. Quella notte stimammo l'intero contenuto della cassa a un milione e mezzo di dollari; e quando in seguito procedemmo alla vendita dei vari oggetti e delle pietre preziose (taluni li tenemmo per nostro uso), trovammo di aver sottostimato, e di molto, il nostro tesoro.
Quando alla fine l'esame fu concluso, e l'eccitazione del momento si fu un poco calmata, Legrand, che vedeva come lo morissi per l'impazienza di conoscere la soluzione di questo straordinario enigma, prese a spiegarne tutte le circostanze fin nei minimi particolari.
«Ricorderete», mi disse, «la sera in cui vi porsi il sommario schizzo che avevo fatto dello scarabaeus. E ricorderete anche che mi irritai con voi perché insistevate a dire che il mio disegno assomigliava a un teschio. Sulle prime, sentendo quella vostra affermazione, pensai che scherzaste; ma poi mi vennero in mente le singolari chiazze sul dorso dell'insetto, e ammisi che la vostra osservazione non era del tutto infondata. Tuttavia, la vostra ironica battuta sulle mie doti di disegnatore mi irritò (mi si giudica un artista di qualche merito), e pertanto, quando mi restituiste il pezzo di pergamena, stavo per accartocciarlo e gettarlo rabbiosamente nel fuoco».
«Il pezzo di carta, volete dire», feci io.
«No; sembrava carta, in effetti, e dapprima anch'io la scambiai per tale, ma quando vi disegnai sopra, mi accorsi subito, che si trattava di un pezzo di sottilissima pergamena. Ricorderete che era molto sporca. Be', proprio mentre stavo per accartocciarla, gli occhi mi caddero sullo schizzo che avevate appena guardato, e potete immaginare il mio stupore quando scorsi la figura di un teschio là dove pensavo di aver disegnato lo scarabeo. Al momento ero troppo sbalordito per riuscire a pensare lucidamente. Sapevo che nei dettagli il mio disegno era troppo diverso da quello, sebbene nei contorni vi fosse una certa generica rassomiglianza. Presi allora una candela e, sedendomi all'estremità opposta della stanza, mi misi a osservare più attentamente la pergamena. La voltai, e sul retro vidi il mio schizzo, così come l'avevo disegnato. La mia prima reazione fu di autentica sorpresa: per quella singolarissima somiglianza dei contorni; per la singolare coincidenza rappresentata dal fatto che, a mia insaputa, sull'altra faccia della pergamena fosse disegnato un teschio, proprio sotto il mio scarabaeus, e che questo teschio, non solo nei contorni, ma nelle dimensioni, assomigliasse a tal punto al mio disegno. L'ho detto, per qualche tempo la singolarità della coincidenza mi lasciò completamente sbalordito. E l'effetto usuale di tali coincidenze. La mente cerca di stabilire un rapporto, una sequenza di causa ed effetto e, non riuscendovi, è colpita da una sorta di paralisi temporanea. Ma quando mi riebbi da tale stato di stupefazione, affiorò nella mia mente una convinzione che mi colpì anche più della coincidenza. Cominciai a ricordare chiaramente, distintamente che quando avevo schizzato il mio scarabaeus, non vi era alcun disegno sulla pergamena. Ne ero assolutamente certo, poiché mi rammentavo di averla voltata e di avere esaminato prima un lato, poi l'altro, alla ricerca dello spazio più pulito. Se il teschio ci fosse stato, non avrei mancato di notarlo. Ecco davvero un mistero che non riuscivo a spiegarmi; ma anche allora, in quel primo momento, parve baluginare, se pur vagamente, nei più remoti e segreti recessi del mio intelletto una parvenza, un lucciolío, di quella verità di cui l'avventura dell'altra notte ha dato così lampante conferma. Subito mi alzai in piedi e, messa al sicuro la pergamena, rimandai ogni ulteriore riflessione a quando mi fossi trovato solo.
«Quando ve ne foste andato, e Jupiter si fu profondamente addormentato, mi dedicai a un più metodico esame del problema. Considerai in primo luogo il modo in cui quella pergamena era venuta in mio possesso. il luogo dove avevamo scoperto lo scarabaeus si trovava sulla costa della terraferma, a un miglio circa a oriente dell'isola, e poco discosto dal limite dell'alta marea. Quando lo presi in mano l'insetto mi diede un tal morso da costringermi a lasciarlo cadere. Jupiter, con la prudenza che gli è consueta, prima di afferrare lo scarabeo che era volato verso di lui, si guardò attorno in cerca di una foglia o qualcosa del genere, con cui catturarlo. Fu in quel momento che i suoi occhi, e anche i miei, caddero sul pezzo di pergamena, che io allora scambiai per carta. Giaceva mezzo sepolto nella sabbia, ne sporgeva un angolo soltanto. Vicino al punto dove lo trovammo, notai i resti di uno scafo; di quella che, pensai era stata una scialuppa di salvataggio. Il relitto aveva l'aria di esser li da chissà quanto tempo perché a mala pena si riusciva a scoprire una qualche somiglianza col fasciame di una barca.
«Bene, Jupiter raccolse la pergamena, vi avvolse lo scarabeo, e me lo consegnò. Subito dopo ci avviammo verso casa, e lungo la strada incontrai il tenente G... Gli mostrai l'insetto, e lui mi pregò di lasciarglielo portare al forte. Avuto il mio consenso, se lo infilò immediatamente nella tasca del panciotto, senza quella pergamena in cui era stato avvolto e che, mentre esaminava l'insetto, avevo continuato a tenere in mano. Forse temeva che io cambiassi idea e pensò bene di mettere subito al sicuro la preda; come sapete, ha una vera passione per tutto ciò che ha attinenza con le scienze naturali. Intanto, senza farei caso, debbo essermi messo in tasca la pergamena.
«Ricorderete che, quando mi accostai al tavolo con l'intenzione di tracciare uno schizzo dello scarabeo, non trovai carta dove ero solito tenerne. Guardai nel cassetto, ma anche lì non ce n'era. Mi frugai in tasca, sperando di trovare una vecchia lettera, ed ecco che la mano cadde sulla pergamena. Vi riferisco in tutti i particolari il modo in cui essa venne in mio possesso, giacché tali circostanze mi rimasero profondamente impresse.
«Senza dubbio mi giudicherete fantasioso, ma il fatto è che avevo già stabilito un certo rapporto. Avevo saldato due anelli di una lunga catena. C'era una barca arenata su una spiaggia, e, non lontano dalla barca c'era una pergamena - pergamena, non carta - con sopra disegnato un teschio. Naturalmente mi chiederete: "e dove sta il rapporto?". Risponderò che il teschio, o testa di morto, è notoriamente l'emblema del pirata. In combattimento i pirati issano sempre la bandiera con il teschio.
«Ho detto che quello era un pezzo di pergamena, non di carta. La pergamena è resistente, quasi indistruttibile. È raro che cose di poca importanza vengano affidate alla pergamena; infatti non si presta quanto la carta alle ordinarie esigenze del disegno o della scrittura. Questa considerazione mi indusse a pensare che quella testa di morto avesse un suo significato, una sua importanza. Né mi sfuggì la forma della pergamena. Sebbene uno degli angoli fosse andato perduto per non so quale ragione, era evidente che la forma originaria era oblunga. Insomma, era esattamente il tipo di foglio quale si poteva scegliere per un memorandum, per appuntare qualcosa da ricordare a lungo e conservare con cura".
«Ma», lo interruppi io, «voi dite che quando disegnaste lo scarabeo, il teschio non era sulla pergamena. Come potete allora stabilire un rapporto tra la barca e il teschio se quest'ultimo, stando a quanto voi stesso ammettete, deve essere stato disegnato (Dio solo sa come e da chi) in un periodo successivo al vostro disegno dello scarabaeus?».
«Ah; qui sta il mistero; sebbene, a questo punto, non mi fosse poi tanto difficile risolvere il problema. I miei passi erano ben calcolati, e non potevano portarmi che a un unico risultato. Ragionai, diciamo, a questo modo: quando mi ero messo a disegnare lo scarabaeus, sulla pergamena non c'era traccia apparente del teschio. Terminato il disegno, l'avevo dato a voi, e vi avevo osservato attentamente finché non me lo avevate reso. Quindi, il teschio non l'avevate disegnato voi, né era presente altra persona che potesse farlo. Quindi, non era attribuibile a nessun intervento umano, e tuttavia era stato fatto.
«A questo punto delle mie riflessioni, mi sforzai di ricordare, e riuscii a ricordare con estrema chiarezza, ogni incidente che si verificò in quell'occasione. Faceva piuttosto freddo (raro, felicissimo caso!), e il fuoco ardeva nel caminetto. Dopo la lunga camminata, mi sentivo accaldato, e stavo seduto vicino al tavolo. Voi, invece, avevate accostato la poltrona al camino. Proprio mentre vi allungavo la pergamena, e vi accingevate a esaminarla, entrò il mio terranova, Wolf, e vi appoggiò le zampe sulle spalle. Con la sinistra lo accarezzavate e cercavate di allontanarlo, mentre la destra, che teneva la pergamena, vi ciondolava tra le ginocchia, vicinissima al fuoco. A un certo momento, pensai che le fiamme arrivassero a lambirla, e fui lì lì per avvertirvi; ma, prima che potessi parlare, vi eravate tirato indietro ed eravate intento a esaminare la pergamena. Quando considerai tutti questi particolari, non dubitai per un solo istante che fosse stato il calore l'agente che aveva fatto apparire sulla pergamena il teschio che vi vedevo disegnato. Come ben sapete, esistono, e da tempo immemorabile, preparati chimici grazie ai quali è possibile scrivere su carta o pergamena in modo tale che i caratteri siano visibili solo se esposti all'azione del fuoco. Qualche volta si usa l'ossido di cobalto, sciolto nell'acqua regia e diluito con acqua quattro volte il suo peso, dà un color verde. Il cobalto puro, sciolto in spirito di nitro, dà un color rosso. Questi colori scompaiono dopo un tempo più o meno lungo, dopo che il materiale su cui si è scritto si raffredda, ma riappaiono se esposti di nuovo al calore.
«Ora esaminai il teschio con la massima attenzione. I contorni esterni, i più vicini all'orlo della pergamena, erano molto più distinti degli altri. Era chiaro che l'azione del calore era stata imperfetta o ineguale. Accesi immediatamente il fuoco ed esposi la pergamena, in ogni sua parte, all'intenso calore della fiamma. Dapprima il solo effetto fu il rafforzarsi delle linee sbiadite del teschio; ma, insistendo nell'esperimento, nell'angolo del foglio diagonalmente opposto a quello in cui era disegnata la testa di morto, divenne visibile una figura che inizialmente supposi fosse quella di una capra. Un più attento esame, tuttavia, mi convinse che chi l'aveva disegnato aveva voluto raffigurare un capretto».
«Ah, ah!», dissi io, «certo non ho alcun diritto di ridere di voi: tanto denaro, un milione e mezzo, è una faccenda troppo seria per scherzarci sopra... Ma non mi pare che stiate saldando il terzo anello della catena: non troverete un rapporto che sia uno tra i vostri pirati e una capra; i pirati, sapete, non hanno niente a che fare con le capre. I contadini, se mai ...».
«Ma se ho appena detto che non era la figura di una capra!».
«E va bene, era quella di un capretto: la stessa cosa, più o meno».
«Più o meno, ma non del tutto», disse Legrand. «Avrete forse sentito parlare di un certo capitan Kidd. lo interpretai subito il disegno come una specie di firma-rebus o geroglifica: kid, capretto; Kidd, il nome del pirata. Ho detto "firma", giacché la sua posizione sulla pergamena suggeriva appunto quest'idea. La testa di morto, nell'angolo diagonalmente opposto, aveva, allo stesso modo, l'aria di un bollo, di un sigillo. Ma ero più che sconcertato per l'assenza di tutto il resto: il corpo, intendo, del documento che mi aspettavo. Il suo testo, insomma".
«Vi aspettavate, suppongo, di trovare una lettera tra il bollo e la firma».
«Qualcosa del genere. Il fatto è che avvertivo, irresistibile, il presentimento di una imminente, straordinaria fortuna. Non saprei dire perché. Forse, dopo tutto, era un desiderio più che una vera convinzione; ma sapete, quelle assurde parole di Jupiter, che lo scarabeo fosse d'oro massiccio, avevano colpito, e profondamente, la mia fantasia. E poi quella serie di accidenti e di coincidenze, talmente straordinarie... Avete notato che tutti si verificarono nel solo giorno dell'anno in cui ha fatto freddo abbastanza da dover accendere il fuoco, e che senza quel fuoco, e senza l'intervento del cane nel momento stesso in cui irruppe nella stanza, non avrei mai notato la testa di morto, e di conseguenza non sarei mai entrato in possesso del tesoro».
«Sì, ma continuate: sono tutto impazienza».
«Bene, avrete sentito, naturalmente, delle molte storie che si raccontano, delle mille voci vaghe che corrono a proposito di denaro sepolto da qualche parte sulla costa atlantica da Kidd e dai suoi. Queste voci devono pur avere avuto qualche fondamento nella realtà. E il fatto che tali voci abbiano continuato a diffondersi per tanto tempo, ininterrottamente, si spiegava, a mio parere, con una sola circostanza: il tesoro sepolto era rimasto sepolto. Se Kidd avesse nascosto il suo bottino per qualche tempo, e poi l'avesse recuperato, queste voci non sarebbero arrivate fino a noi nella loro forma attuale, immutata nel tempo. Tenete presente che tutte le storie parlano di cercatori di tesori, non di scopritori di tesori. Se il pirata fosse tornato in possesso del suo denaro, la cosa sarebbe finita li. Pensai che un qualche accidente (la perdita, ad esempio, dell'appunto indicante la sua precisa ubicazione) l'avesse messo nell'impossibilità di recuperarlo, e che questo accidente fosse noto ai suoi compagni, i quali altrimenti non avrebbero mai potuto sapere che un tesoro era stato nascosto; erano stati loro, coi loro tentativi di ritrovarlo - tentativi affannosi ma vani, perché fatti alla cieca - a far nascere e poi a diffondere fino a renderle di pubblico dominio quelle voci ora tanto comuni. Avete mai sentito parlare di qualche grosso tesoro disseppellito lungo la costa?».
«Mai».
«Eppure è noto che Kidd aveva accumulato enormi ricchezze; perciò diedi per scontato che la terra le custodisse ancora, e forse non vi farà meraviglia se vi dico che sentivo in me una speranza, quasi una certezza, che quella pergamena così stranamente rinvenuta contenesse un appunto smarrito indicante il luogo in cui il tesoro era stato riposto».
«Ma come avete proceduto?».
«Attizzai il fuoco, ed esposi di nuovo la pergamena all'azione del calore; ma non apparve nulla. Pensai allora che forse lo strato di sudiciume che la rivestiva avesse qualcosa a che fare col mio insuccesso; così ripulii accuratamente la pergamena versandovi sopra dell'acqua calda. Fatto ciò, la posi in un tegame di stagno, con il teschio voltato in giù, e misi il tegame su un fornello acceso. Dopo pochi minuti, quando il recipiente si fu completamente riscaldato al fuoco della carbonella, tolsi il foglio, e con indicibile gioia lo trovai macchiato in parecchi punti da quelle che sembravano cifre ordinatamente disposte su righe. Riposi il foglio nel tegame, e ve lo lasciai un altro minuto. Quando lo tolsi di nuovo, si presentava così come potete vedere ora».
E qui Legrand, dopo avere un'altra volta riscaldato la pergamena, la sottopose al mio esame. Fra il teschio e il disegno della capra, erano tracciati, in rosso, i seguenti segni:

53‡‡†305))6*;4826)4‡.)4‡;806*;48†8960))85;1‡(;:‡*8†83(88)5*†;46 (;88*96*?;8)*‡(;485);5*†2: *‡(;4956*2 (5*-4)898*;40692 85);)6†8)4‡‡;1(‡9,48081;8:8‡1;48t85;4)485†528806*81 (‡9;4 8;(88;4 (‡?34;48)4‡;161;:188;‡?;

«Ma», dissi io, restituendogli il foglio, «sono più all'oscuro; che mai. Se per la soluzione dell'enigma mi offrissero tutti i tesori di Golconda, sono certo che non riuscirei a guadagnarmeli».
«Eppure», disse Legrand, «la soluzione non è per nulla difficile come la prima, frettolosa occhiata a questi segni potrebbe indurvi a credere. Questi segni, come ognuno può facilmente arguire, costituiscono un crittogramma: vale a dire, hanno un senso. Ma in base a quello che sapevo di Kidd, non me lo figuravo capace di costruire un crittogramma troppo astruso. Pertanto conclusi subito che questo doveva essere di una specie semplice, ma tale che il rozzo intelletto di un marinaio avrebbe giudicato assolutamente insolubile per chi ne ignorasse la chiave».
«E voi l'avete risolto?».
«Rapidamente; ne ho risolti altri diecimila volte più astrusi. Le circostanze, e una certa predisposizione mentale, mi hanno portato a interessarmi di indovinelli del genere, e dubito che l'ingegnosità umana possa costruire un enigma che l'ingegnosità umana, applicandosi a fondo, non possa risolvere. In effetti, una volta stabilita una serie di segni connessi e leggibili, la difficoltà di ricavarne il significato non mi preoccupava che molto relativamente.
«Nel caso in questione, anzi, in tutti i casi di scrittura segreta, Il primo problema riguarda la lingua del cifrato, poiché i criteri della soluzione, specie per quanto riguarda le cifre più semplici, dipendono dal genio del particolare idioma e variano a seconda di esso. In genere non vi sono alternative; occorre solo sperimentare, basandosi sul calcolo delle probabilità, ogni lingua nota a colui che tenta la soluzione, finché venga trovata quella giusta. Ma, per quanto riguarda il nostro cifrato, la firma risolve ogni difficoltà. Il gioco di parole basato su Kidd non ha senso in nessuna lingua, tranne l'inglese. Non fosse stabilito per questa considerazione, avrei iniziato i miei tentativi con lo spagnolo e il francese, cioè dalle lingue in cui era più naturale che un pirata dei mari spagnoli avesse trascritto un segreto del genere. Stando così le cose, conclusi che il crittogramma fosse in inglese.
«Come potete osservare, non ci sono divisioni tra parola e parola. Se ce ne fossero state, il compito sarebbe stato relativamente facile. In tal caso, avrei cominciato con il confronto e l'analisi delle parole più brevi e, se fosse capitata una parola di una sola lettera, come è più che probabile (a o I, per esempio), avrei considerato la soluzione come certa. Ma, mancando una divisione, mio primo passo fu di accertare quali lettere ricorressero con maggiore frequenza e quali con minore frequenza. Fatti i conti, compilai la seguente tabella:
Il carattere 8 ricorre 33 volte
» » ; » 26 »
» » 4 » 19 »
» » ‡ » 16 »
» » ) » 16 »
» » * » 13 »
» » 5 » 12 »
» » 6 » 11 »
» » † » 8 »
» » 1 » 8 »
» » 0 » 6 »
» » 9 » 5 »
» » 2 » 5 »
» » : » 4 »
» » 3 » 4 »
» » 3" » 4 »
» » ? » 3 »
» » q » 2 »
» » - » 1 »
» » . » 1 »

«Ora, in inglese la lettera che ricorre più frequentemente è la e. Seguono nell'ordine a o i d h n r s t u y c f g l m w b k p q x z. In ogni caso, la e predomina a tal punto, che è raro trovare una frase, di qualsiasi lunghezza, in cui essa non sia la lettera più frequente.
«Già all'inizio, dunque, abbiamo il fondamento di qualcosa di più di una semplice congettura. È chiaro l'uso generale che si può fare della tabella, ma per quel che riguarda il nostro crittogramma, ci varremo solo in parte del suo ausilio. Poiché il segno predominante è 8, presupporremo, tanto per cominciare, che corrisponda alla e dell'alfabeto. Per verificare tale presupposto, vediamo se 8 si trova spesso in coppia, giacché in inglese le coppie di e sono assai frequenti, come per esempio nelle parole meet, fleet, speed, seen, been, agree ecc. In questo caso, lo ritroviamo raddoppiato ben cinque volte, sebbene il crittogramma sia breve.
«Prendiamo dunque 8 come e. Ora, fra tutte le parole della lingua inglese, l'articolo the è la più frequente; vediamo perciò se non si presenti la ripetizione di tre caratteri, nello stesso ordine, l'ultimo dei quali sia 8. Se scopriamo tali ripetizioni, così ordinate, molto probabilmente rappresentano la parola the. Ora, se esaminiamo il cifrato, troviamo non meno di sette volte la serie ;48. Pertanto possiamo supporre che il segno ; rappresenti la lettera t, 4 la lettera h, e 8 la lettera e. Conferma, quest'ultima, della nostra ipotesi: e con ciò abbiamo fatto un gran passo avanti.
«Ma avendo stabilito una parola, siamo in grado di stabilire un punto di estrema importanza: vale a dire, la fine e l'inizio di parecchie altre parole. Prendiamo, ad esempio, il penultimo caso in cui si presenta la serie ;48, non lontano dalla fine del testo. Noi sappiamo che il segno ; che segue immediatamente è l'inizio di una parola, e dei sei segni che seguono questo ;48 ne conosciamo cinque. Trascriviamo questi segni così, con le lettere che sappiamo li rappresentano, lasciando uno spazio vuoto per la lettera incognita:

t eeth.

«Qui possiamo scartare subito il th che non fa parte della parola che incomincia con la prima t; giacché, provando con tutto l'alfabeto alla ricerca di una lettera che possa colmare la lacuna, ci accorgiamo che è impossibile comporre una parola di cui questo th faccia parte. Dovremo dunque limitarci a:

t ee,

e, ripassando l'alfabeto, se necessario, come già abbiamo fatto, arriviamo alla parola tree ("albero") come unica versione possibile. In tal modo otteniamo un'altra lettera, r, rappresentata da più due parole giustapposte: the tree.
«Se guardiamo un po' più avanti, dopo queste parole, ritroviamo la combinazione ;48, che usiamo come terminazione di quanto immediatamente precede. Ne risulta, in quest'ordine:

the tree;4(‡?34 the

o, sostituendo le lettere rispettive quando esse ci siano note:

the tree thr...‡? 3h the.

«Ora, se al posto dei segni che non conosciamo, lasciamo degli spazi vuoti, o mettiamo dei puntini, leggiamo:

the tree thr... h the,

da cui risulta evidente la parola through ("attraverso"). Ma questa scoperta ci fornisce tre nuove lettere: o, u, e g, rappresentate da ‡, ?, e 3.
«Se ora esaminiamo attentamente il testo, in cerca di combinazioni di segni già noti, troviamo, non molto dopo l'inizio, questa serie:

83(88, cioè egree,

che è, ovviamente, la terminazione della parola degree ("grado" e che ci dà un'altra lettera, d, rappresentata da t.
«Quattro lettere dopo la parola degree, troviamo la serie

;46(;88.

Traducendo i segni noti, e rappresentando i segni ignoti con puntini, come in precedenza, leggiamo:

th. rtee.,

serie che immediatamente ci suggerisce la parola thirteen ("tredici") e che ci fornisce altre due lettere, i e n, rappresentate da 6 e da *.
«Riportandoci ora all'inizio del crittogramma, troviamo la combinazione

53 ‡‡†

Traducendo come prima, otteniamo

good ("buono"),

che ci dà la certezza che la prima lettera è a, e che le due prime parole sono A good ("Un buon").
«Ad evitare confusioni, dobbiamo ora disporre per ordine in una tabella tutte le "chiavi" finora trovate. E la tabella è questa:

5 rappresenta a
† » d
8 » e
3 » g
4 » h
6 » i
* » n
‡ » o
( » r
; » t
? » u

«Vi troviamo rappresentate non meno di undici delle lettere più importanti; mi sembra perciò superfluo, per quanto riguarda la soluzione, entrare in altri dettagli. Ho detto abbastanza per convincer-vi che crittogrammi di questa natura sono di agevole soluzione, e per darvi un'idea del carattere razionale del procedimento. Ma tenete presente che il crittogramma che abbiamo davanti appartiene alla specie più semplice. Non mi resta ora che darvi la traduzione completa del testo della pergamena, come l'ho decifrato. Eccolo:
(«"A good glass in the bishop's hostel in the devil's seat twenty-one degrees and thirteen minutes northeast and by north main branch seventb limb east side shoot from the left eye of the death's head a beeline from the tree through the shot fifty feet out" ("Un buon vetro nell'ostello del vescovo sulla sedia del diavolo ventun gradi e tredici minuti nord-est quarta di nord tronco principale settimo ramo lato est calare dall'occhio sinistro della testa di morto una linea d'ape dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi in là")».
«Ma», dissi io, «l'enigma mi sembra ancora più oscuro che mai. Come è possibile ricavare un significato da questo gergo assurdo a base di "sedia del diavolo" e "testa di morto" e "ostello del vescovo"?».
«Ammetto», rispose Legrand, «che se esaminata superficialmente, la faccenda può sembrare ancora alquanto confusa. Il mio primo tentativo fu quello di ridare al periodo le divisioni primitive, secondo le intenzioni del crittografo».
«Volete dire, dargli una punteggiatura?».
«Qualcosa del genere».
«Ma come ci siete riuscito?».
«Ho riflettuto che il crittografo aveva scritto intenzionalmente le parole senza divisioni, per renderne più difficile la soluzione. Ora, un uomo di ingegno non troppo sottile nel far ciò avrebbe quasi sicuramente esagerato. Quando, scrivendo, fosse arrivato la dove fosse stata necessaria una pausa, o un punto, sarebbe stato irresistibilmente portato a giustapporre i caratteri più fittamente del consueto. Se, alla luce di questo presupposto, osservate il manoscritto, troverete facilmente cinque casi del genere, in cui le lettere sono anormalmente accostate. In base a questo indizio, ho apportato le seguenti divisioni:
«"A good glass in the bishop's hostel in the devil's seat - fortyone degrees and thirteen minutes - northeast and by north - main branch seventh limb east side - shoot from the left eye of the death's head - a bee-line from the tree through the shot fifty feet out" ("Un buon vetro nell'ostello del vescovo sulla sedia del diavolo - quarantun gradi e tredici minuti - nord-est quarta di nord - tronco principale settimo ramo lato est - calare dall'occhio sinistro della testa di morto - una linea d'ape dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi in là")».
«Anche questa divisione», dissi, «continua a lasciarmi all'oscuro».
«Lasciò anche me all'oscuro», replicò Legrand, «per qualche giorno; nel frattempo feci diligente ricerca, nei pressi dell'Isola di Sullivan, di un qualche edificio noto col nome di "castello del vescovo", poiché, naturalmente, l'altro termine, "ostello" era ormai desueto. Non avendo raccolto alcuna informazione in proposito, stavo per estendere il raggio delle mie ricerche e procedere in modo più sistematico, quando, una mattina, mi balenò l'idea che questo "ostello del vescovo" potesse avere qualche rapporto con una vecchia famiglia di nome Bessop che, in tempi andati, aveva posseduto un antico maniero, circa a quattro miglia a nord dell'isola. Mi recai pertanto alla piantagione e ripresi le mie indagini tra i negri più vecchi del posto.
Finalmente una delle donne più anziane disse di aver sentito nominare un luogo chiamato Bessop's Castle ("Castello dei Bessop) e che forse mi ci poteva guidare lei stessa; solo non era un castello, né una locanda o ostello, ma un'alta rupe.
«Mi offrii di ricompensarla lautamente per il suo disturbo, e dopo qualche esitazione acconsentì ad accompagnarmi sul posto. Lo trovammo senza difficoltà; poi, congedata la donna, presi ad esaminare la località. Il "castello" consisteva di un ammasso irregolare di picchi e rocce, una delle quali spiccava sia per la sua altezza sia per la sua collocazione isolata e un che di "artificiale" nell'aspetto. Mi arrampicai fino alla cima e mi ci soffermai, più che mai perplesso sul da farsi.
«Mentre ero immerso nelle mie riflessioni, l'occhio mi cadde su di una stretta sporgenza sul lato orientale della roccia, forse una yarda al di sotto della sommità su cui stavo. La sporgenza era di circa diciotto pollici e non era più larga di un piede; una nicchia, nella roccia sovrastante, la faceva vagamente rassomigliare a una di quelle sedie a schienale ricurvo, quali usavano i nostri antenati. Non ebbi il minimo dubbio: quella era la "sedia del diavolo" cui si alludeva nel manoscritto, e mi parve ormai d'aver colto il segreto dell'enigma.
«II "buon vetro", lo sapevo, non poteva riferirsi che a un cannocchiale; poiché il termine glass ("vetro") di rado è usato in un altro senso dagli uomini di mare. Ora, capii subito, si doveva usare un cannocchiale, usarlo da un preciso angolo visivo che non ammetteva la minima variazione. Né esitai a credere che le frasi "quarantun gradi e tredici minuti" e "nord-est quarta di nord" indicassero la direzione in cui puntare il cannocchiale. Tutto eccitato per queste scoperte, mi precipitai a casa, mi procurai un cannocchiale e tornai alla roccia.
«Mi calai sulla sporgenza, e mi accorsi subito che era impossibile starvi seduti se non in un'unica, particolare posizione, il che veniva a confermare la mia ipotesi. Ricorsi allora al cannocchiale. Naturalmente i "quarantun gradi e tredici minuti" potevano indicare solo l'elevazione al di sopra dell'orizzonte visibile, giacché la direzione orizzontale era data chiaramente dalle parole "nord-est quarta di nord". Con una bussola tascabile stabilii subito quest'ultima posizione; poi, puntando il cannocchiale a un angolo il più vicino possibile ai quarantun gradi di elevazione, calcolati approssimativamente, lo spostai cautamente ora in su ora in giù finché la mia attenzione non fu attirata da uno squarcio o apertura circolare nel fogliame di un grande albero che in lontananza sovrastava tutti gli altri. Nel centro dell'apertura scorsi una macchia bianca, ma dapprima non potei distinguere di che si trattasse. Misi a fuoco il cannocchiale, guardai di nuovo, e allora capii che si trattava di un teschio umano.
«A questa scoperta, mi sentii così fiducioso che conclusi di avere ormai risolto l'enigma; poiché la frase "tronco principale settimo ramo lato est" poteva riferirsi solo alla posizione del teschio sull'albero, mentre "calare dall'occhio sinistro della testa di morto" ammetteva anch'essa una sola interpretazione, se riferita alla ricerca di un tesoro sepolto. Capii che bisognava lasciar cadere o calare una palla di fucile attraverso l'occhio sinistro del teschio, e che una "linea d'ape", cioè una linea retta, tracciata dal punto più vicino del tronco attraverso la "palla", vale a dire dove la palla di fucile fosse caduta, e di qui prolungata per cinquanta piedi, avrebbe indicato un punto preciso; e al di sotto di questo punto, pensavo, era almeno possibile che giacesse sepolto un prezioso bottino".
«Tutto ciò», dissi, «è chiarissimo, e sebbene ingegnoso, è anche semplice ed evidente. E dopo che lasciaste l'ostello del vescovo?».
«Be', dopo aver preso accuratamente nota della posizione dell'albero, me ne tornai a casa. Ma nell'istante stesso in cui lasciai la "sedia del diavolo", l'apertura circolare scomparve, né poi riuscii più a scorgerne traccia, da qualunque parte mi voltassi. Era questa, a mio avviso, la massima sottigliezza di tutto quanto il piano: il fatto (poiché ripetute prove mi hanno convinto che si tratta di un fatto) che l'apertura circolare in questione non sia visibile da alcun altro angolo visivo che non sia quello consentito dall'angusta sporgenza della parete rocciosa.
«In questa spedizione all'ostello del vescovo ero stato accompagnato da Jupiter, che senza dubbio da qualche settimana teneva d'occhio il mio contegno assorto e distratto e faceva di tutto per non lasciarmi solo. Ma il giorno dopo mi levai di buon'ora e, elusa la sua sorveglianza, andai alle colline in cerca dell'albero. Faticai molto a trovarlo, ma infine ci riuscii. Quando a notte rientrai a casa, il mio servitore voleva prendermi a legnate. Quanto al resto dell'avventura, credo che lo conosciate quanto me".
«Suppongo», dissi, «che al nostro primo tentativo di scavo non siate riuscito a localizzare il punto a causa dello sciocco errore di Jupiter, che lasciò cadere lo scarabeo dall'occhio destro del teschio invece che dal sinistro».
«Proprio così. L'errore comportava una differenza di circa due pollici e mezzo nella "palla", vale a dire nella posizione del piolo più vicino all'albero. Ora, se il tesoro fosse stato proprio sotto la "palla", l'errore sarebbe stato trascurabile; ma tanto la palla" che il punto più vicino all'albero erano solo due punti per stabilire una linea di direzione, e naturalmente l'errore, minimo all'inizio, cresceva col prolungarsi della linea, per cui, arrivati a cinquanta piedi, eravamo completamente fuori strada.
Se non fosse stato per quella mia idea fissa che il tesoro doveva trovarsi veramente sepolto lì vicino, tutte le nostre fatiche sarebbero state vane".
«Ma la vostra magniloquenza, quel vostro modo di far roteare lo scarabeo... che bizzarria! Ero certo che foste impazzito. E perché poi avete insistito a far calare lo scarabeo, anziché una pallottola?».
«Ecco, a esser franco, ero alquanto seccato dal vostri più che palesi sospetti sulla mia sanità mentale, e così decisi di punirvi senza chiasso a modo mio, con un pizzico di calcolatissima mistificazione. Per questa ragione feci roteare lo scarabeo, per questa ragione lo feci calare dall'albero. Foste voi a darmene l'idea con la vostra osservazione sul singolare peso dell'insetto».
«Capisco. Ma c'è un ultimo punto che ancora mi lascia perplesso. Come spiegare il fatto degli scheletri trovati nella buca?».
«È un problema, questo, cui non saprei rispondere più di voi. Forse c'è un modo plausibile, uno solo, di spiegarlo... e tuttavia e terribile pensare a tanta atrocità, quella che la mia ,ipotesi presuppone. È chiaro che Kidd (se fu Kidd a nascondere il tesoro, cosa di cui non dubito) deve essersi avvalso, in quel lavoro, dell'aiuto di qualcuno. Ma terminata la fase più faticosa, Può aver giudicato opportuno eliminare quanti erano al corrente del suo segreto. Forse bastarono un paio di colpi di vanga, mentre i suoi aiutanti erano ancora intenti al lavoro dentro la fossa; forse ne occorsero una dozzina. Chi potrà mai dirlo?».