EDGAR ALLAN POE

RACCONTI DEL MISTERO E DEL TERRORE


METZENGERSTEIN


Pestis eram Vivus - moriens tua mors ero.
Martin Lutero

L'orrore e la fatalità hanno avuto che fare in tutti i secoli. A che mettere, allora, una data alla storia che sto per raccontare? Mi basta appena premettere che, all'epoca di cui io parlo, sussisteva, nel centro dell'Ungheria, una ferma credenza nelle dottrine della metempsicosi. Di tali dottrine per esse stesse, della loro inattendibilità ovvero della loro probabilità, a me non interessa dire e non dirò nulla. Io posso affermare, nondimeno, che gran parte di tutta la nostra incredulità - secondo che dice La Bruyère, il quale attribuisce tutte le nostre disgrazie a quest'unica causa - «vient de ne pouvoir être seuls».
Ma alcuni punti di quella superstizione ungherese toccavano quasi l'assurdo. I Magiari differiscono essenzialmente dalle autorità Orientali, per ciò che riguarda tale argomento. E, tanto per fare un esempio, citerò le parole d'un acuto e intelligente parigino: «L'âme ne demeure qu'une seule fois dans un corps sensible. Ainsi un cheval, un chien, un homme même, ne sont que la ressemblance illusoire de ces êtres».
Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in discordia per secoli. Non s'erano mai viste due casate tanto illustri reciprocamente inasprite in una inimicizia addirittura mortale. Quest'odio poteva aver avuto origine dalle parole d'una antica profezia: «Un grande nome cadrà da una terribile altezza, allorché simile a un cavaliere sul proprio cavallo, la mortalità di Metzengerstein trionferà sull'immortalità di Berlifitzing».

In sé e per sé, è indubitato che tali parole contenessero poco senso. Ma cause ancor più volgari di quelle hanno condotto - e senza risalire troppo in alto nel tempo - a conseguenze egualmente gravide d'avvenimenti. E d'altro canto i due domini, ch'erano finitimi, avevano esercitato, a lungo, un'influenza rivale nelle vicende d'un tumultuoso governo. Vicini tanto vicini com'essi erano, raramente sono amici, e gli abitanti del castello di Berlifitzing potevano spingere i loro sguardi fin dentro le finestre del palazzo Metzengerstein dove il dispiegamento d'una magnificenza feudale era inadatto a calmare i sentimenti irritabili dei Berlifitzing che erano di meno antica e meno ricca origine. Perché meravigliarsi, allora, se le parole della surriferita predizione - le quali non suonano, per questo, meno bizzarre - avevano potuto determinare e tener desta la rivalità tra due famiglie le quali vi erano già predisposte dalle continue istigazioni d'una gelosia ereditaria? Se qualcosa essa stava a significare, la predizione prometteva il trionfo finale alla parte più cospicua ed è quindi naturale che fosse rammentata con una cotale animosità da quella parte, fra le due, che era più debole e meno influente.
Wilhelm, conte di Berlifitzing, a malgrado del suo alto lignaggio, all'epoca dell'odierno racconto era un vecchio carico di malanni e per metà svanito di mente, il quale poteva essere distinto solo da una radicata antipatia personale ai danni della casata rivale e da un amore così appassionato per i cavalli e la caccia che nemmeno le infermità fisiche e l'età avanzata, come pure la debolezza del suo cervello, potevano vietargli di correre, ogni giorno, i pericoli che quegli esercizi comportano seco.
E Frederick, d'altro canto, barone di Metzengerstein, non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Il ministro G., suo padre, era morto giovane e sua madre, Lady Mary, aveva raggiunto il marito con breve intervallo. Frederick aveva, allora, diciott'anni. Diciott'anni spesi in una città, in una vita collettiva, non sono un grande periodo di tempo. Ma nella solitudine, nella magnifica e solenne solitudine di un antico e aristocrate ritiro, il pendolo oscilla con più profonda e significativa maestà.
In seguito ad alcune particolari modalità dell'amministrazione paterna, non appena il suo avo venne a morire, il giovane barone entro in possesso dei suoi vasti domini. Prima di quel tempo s'era vista raramente, in Ungheria, tanta e così nobile proprietà nelle mani d'un solo. I castelli erano innumerevoli e il più splendido e il più vasto era il palazzo di Metzengerstein, tanto che il limite delle terre attorno non era mai stato ben definito. Il parco principale, ad ogni modo, abbracciava un circuito di cinquanta miglia.
La successione di persona così giovane e dal carattere, pertanto, assai ben conosciuto, non lasciava supporre nulla di preciso attorno alla probabile condotta ch'egli avrebbe seguita. E questa, per la verità, oscurò la fama di Erode nello spazio d'appena tre giorni superando, in magnificenza, le speranze dei suoi più entusiasti ammiratori. Orge ontose, flagranti perfidie, tradimenti, inganni, atrocità inaudite resero ben presto noto ai suoi trepidanti vassalli che nulla, né la loro servile sottomissione, né alcun probabile scrupolo di coscienza da parte del medesimo signore, avrebbero potuto proteggerli, in qualche modo, dagli artigli impietosi di quel piccolo Caligola. La notte del quarto dì, furori viste bruciare le scuderie del castello di Berlifitzing. E così anche il delitto di quell'incendio andò ad aggiungersi, secondo l'unanime opinione dei vicini, alla orribile lista degli atroci misfatti del barone.
Quanto al giovane gentiluomo, egli se ne stette, per tutto il tempo che durò il tumulto provocato da quell'accidente, assorto in apparente meditazione, seduto in una stanza vasta e solitaria, nella parte più remota ed elevata del palazzo avito dei Metzengerstein. La tappezzeria ricca, ancorché sbiadita, che pendeva malinconicamente alle pareti, rappresentava i ritratti fantastici e maestosi di mille antenati illustri. Prelati, colà, riccamente parati d'ermellino, dignitari pontifici familiarmente assisi con l'autocrate o il sovrano, opponevano il loro veto ai capricci d'un re temporale e, col favore del potere, in mano loro, della supremazia papale, trattenevano il ribelle scettro del Gran Nemico. Altrove le cupe smisurate stature dei principi di Metzengerstein, i cui muscolosi cavalli da guerra pestavano le spoglie dei nemici caduti, scotevano, per la loro feroce espressione, anche i nervi più solidi. Ed ancora, simili a cigni, le voluttuose immagini delle dame dei tempi andati fluttuavan negli intrichi d'una danza fantastica, intente all'accento di melodie immaginarie.
Ma nel mentre che il barone prestava orecchio - ovvero affettava di prestarlo - al baccano ognor crescente che veniva dalle scuderie dei Berlifitzing, - e probabilmente rifletteva attorno a un nuovo piano, più risoluto ancora e più audace - i suoi occhi ebbero a posarsi involontariamente sulla figura d'un enorme cavallo, d'un colore innaturale, il quale, secondo la leggenda raffigurata nell'arazzo, sembrava appartenere a un antenato saraceno della famiglia rivale. Il cavallo restava immobile come una statua, nel primo piano del quadro, nel mentre che, poco discosto, il suo cavaliere periva, sconfitto, sotto il pugnale d'un Metzengerstein.
Un'espressione diavolesca increspò le labbra di Frederick, non appena egli s'avvide della direzione che aveva presa il suo sguardo. Pure non distolse gli occhi e non poté, al contrario, liberarsi dall'oppressione di un'ansia che gli era piombata pesantemente addosso come un drappo mortuario e gli era difficoltoso connettere le sue incoerenti sensazioni materiate di sogno, con la sicurezza d'esser desto. E più indugiava in quella contemplazione e più avvertiva che quella magia lo andava possedendo, e più ancora gli sembrava impossibile sottrarre lo sguardo dal perfido fascino di quell'arazzo. E come il baccano esterno salì improvvisamente dì ferocia, egli spostò, con uno sforzo, la propria attenzione sul riverbero rossastro della luce colla quale le scuderie incendiate avevano inondata la stanza. E nondimeno quell'atto fu momentaneo e il suo sguardo tornò da capo a posarsi, come quello d'un automa, sulla parete dalla quale pendeva l'arazzo ed egli s'avvide - devastato dal terrore - che la testa del gigantesco corsiero aveva, nel frattempo, mutata la sua posizione. Il collo della bestia, reclinato dapprima, come compreso di pietà, sul suo signore atterrato, era teso, ora, per tutta la sua lunghezza, verso il barone. Gli occhi, che prima non si distinguevano neppure di tra il pelame, tant'eran socchiusi, brillavano adesso d'una intelligenza quasi umana, rossi come la fiamma. E le labbra contratte scoprivano in pieno i denti sepolcrali e disgustosi. Sopraffatto dal terrore, il giovane si precipitò anelando verso la porta ma nell'atto ch'egli fece, d'aprirla, una luce rossastra irraggiò nella sala e si rifletté secondo un perfetto disegno sull'arazzo. Esitò un istante Il giovane signore sulla soglia e vide - non poté impedirsi, ancorché vacillante, di vedere - che quel riflesso andava a coincidere, riempiendone per intero il contorno, con l'implacabile e trionfante assassino di Berlifitzing saraceno.
Per essere liberato da quell'incubo, il giovane corse di fuori. Sull'ingresso principale del palazzo, egli scorse tre scudieri che, in mezzo ad enormi difficoltà e a rischio della loro stessa vita, tentavano di trattenere, nei suoi balzi convulsi, un gigantesco cavallo color della fiamma.
«Di chi è questo cavallo? Dove l'avete preso?», chiese il giovane con voce irata ma pur rauca e come incerta, poiché s'era accorto che la bestia furiosa era la copia perfetta del misterioso corsiero effigiato nell'arazzo.
«È vostro, signor mio», rispose uno degli scudieri. «Non c'è alcuno che lo reclami per suo, d'altra parte. L'abbiamo catturato nel mentre che fuggiva, fumante e schiumante di rabbia, dalle scuderie in fiamme del castello dei Berlifitzing. Noi ritenemmo, in un primo momento, che fosse uno dei cavalli stranieri allevati dal vecchio conte e difatto l'abbiamo condotto da lui, ma colà ci è stato riferito che non sanno nulla di questo animale. E ciò è per lo meno bizzarro, dal momento che ha tracce visibili, indosso, d'essere scampato miracolosamente alle fiamme».
«Senza contare queste tre lettere incise distintamente sulla fronte», continuò un secondo scudiero indicando un W, un V e un B. «Io pensavo che fossero le iniziali di Wilhelm von Berlifitzing: è naturale. E nondimeno tutti sostengono, colà, di non aver mai visto un simile cavallo».
«Una singolare storia, per la verità», disse il giovane barone come sopra pensiero, ostentando d'essere indifferente e inconscio delle sue stesse parole. «Esso è difatto un meraviglioso cavallo, del tutto eccezionale, per la verità, anche se, come voi stessi avete osservato, ombroso e di carattere difficile a prendersi. Consentite, così, che sia mio», aggiunse dopo una breve pausa. È probabile che un cavaliere come Frederick von Metzengerstein riesca ad aver ragione anche d'un demonio sfuggito alle scuderie dei Berlifitzing».
«Siete in inganno, secondo abbiamo già detto, se credete che il cavallo appartenga al conte», disse uno scudiero. «Se esso, infatti, provenisse di là, noi non avremmo osato condurlo alla presenza d'un personaggio della nobile vostra famiglia».
«È vero», disse seccamente il barone, nel mentre che sopraggiungeva, a passi precipitati e tutto rosso in viso, un paggio di camera dall'interno del palazzo. Questi si avvicinò subitamente all'orecchio del suo padrone e lo informò, ma a bassa voce, per modo che niuna parola poté giungere a soddisfare l'eccitazione incuriosita dei tre scudieri, come fosse scomparso all'improvviso un arazzo da una stanza, fornendo minuti e circostanziati particolari. Frederick, nel mentre che il paggio parlava, era visibilmente agitato da una viva apprensione, ma ritrovò, nondimeno, ben presto la sua calma per modo che, in capo a pochi istanti, il suo volto riprese la consueta espressione di maliziosa risolutezza. E impartì ordinanze perentorie acciocché si chiudesse all'istante la camera in questione e se ne rimettesse la chiave nelle sue mani.
«Avete udito della deplorevole morte occorsa a Berlifitzing, il vecchio cacciatore?», disse al barone uno dei suoi vassalli, allorché il paggio fu scomparso. E in quello stesso mentre il gigantesco cavallo di fiamma che il gentiluomo di Metzengerstein aveva adottato per suo, balzava e si tuffava nell'aria arroventata, raddoppiando di furia, lungo tutto il viale che, dal palazzo, conduceva fino alle scuderie della proprietà.
«No», disse il barone voltandosi di scatto. «È morto?».
«Certamente, signor mio, e nondimeno io ritengo che, per voi, ciò non costituisca quel che si dice una cattiva nuova».
Un sorriso illuminò il volto del barone.
«E come è morto?», s'affrettò a chiedere.
«Nel mentre che s'affannava a tentar di salvare alcuni suoi favoriti cavalli da caccia, egli è miseramente perito tra le fiamme».
«Dav... ve... ero ... ?», esclamò il barone al modo stesso che se si andasse convincendo per gradi della veridicità d'una sua misteriosa supposizione.
«Davvero!», disse il vassallo.
«Orrore!», concluse il barone ma con calma, quasi dimentico del significato di quella parola; e rientrò tranquillamente nel suo palazzo.
A partir da quel giorno, un notevole mutamento si verificò nella condotta esteriore del giovane e dissoluto barone Frederick von Metzengerstein. Egli s'era comportato, per la verità, in modo da provocare il disappunto di molte speranze e da sconcertare i disegni di più d'una madre intrigante. Ora, per contro, le sue abitudini finirono coll'uniformarsi in tutto e per tutto a quelle della società aristocratica del vicinato. Egli, così, non fu più visto fuori dei suoi domini e non coltivò del pari alcun amico nel vasto mondo della società conterranea, ove non si voglia calcolar per un amico quel sovrannaturale e impetuoso cavallo di fiamma ch'egli non ismetteva mai di montare dal giorno dell'incendio.
Dalle famiglie confinanti, tuttavia, continuarono a pervenir gli inviti d'ogni sorta. «Sarà così gentile il signor barone d'onorare la nostra festa colla sua presenza?»; «Sarà così gentile il barone da prender parte alla nostra caccia al cinghiale?»; «Metzengerstein non va a caccia»; «Metzengerstein non può accettare», erano le sue brevi ed altere risposte.
Il ripetersi di tali ingiuriose ripulse non poté, alla lunga, essere sopportato da quella altera nobiltà. Gli inviti divennero, così, meno cordiali, meno frequenti e, a poco a poco, cessarono del tutto. E fu intesa la vedova del defunto conte Berlifitzing esprimere il voto che il «barone potesse esser costretto a starsene in casa, dal momento che disprezzava la compagnia dei suoi uguali, proprio quando avrebbe desiderato di non trovarcisi e ancora, dal momento che a quella di coloro preferiva la compagnia d'un cavallo, a cavalcare quando non ne aveva alcuna voglia». La qual cosa non era, certamente, che una volgare esplosione del rancore ereditario e dimostrava soltanto come le parole che noi usiamo rischiano di perdere ogni loro significato se noi vogliamo a ogni costo conferir loro una estrema energia.
E tuttavia le persone caritatevoli attribuivano il mutamento nella condotta del giovine gentiluomo al suo più che naturale dolore di figlio - ahimè - troppo presto orbato dei suoi genitori. E così facendo, davano a vedere, nondimeno, d'aver dimenticato il suo feroce contegno e la sua indifferenza nei giorni che seguirono immediatamente quella sua duplice perdita. Vi fu taluno che lo accusò d'essersi foggiata un'idea esagerata della propria importanza e della propria dignità, e altri ancora - e tra questi converrà mettere il medico della famiglia - i quali non dubitarono di attribuire il tutto a una sorta di morbosa malinconia ereditata dai suoi avi. Torbide insinuazioni, oltre a queste, e d'ancor più dubbia natura, correvano, nel frattempo, sulle bocche dei pettegoli.
Il perverso attaccamento, per la verità, del barone per la sua nuova cavalcatura - il quale pareva raddoppiare di forza e di passione ogniqualvolta l'animale dava nuova prova e incentivo alle sue sfrenate e demoniache tendenze - fu giudicato, da tutte le persone ragionevoli, al pari d'una orripilante tenerezza contro la natura. Al rosseggiar del meriggio e nelle morte ore notturne, col bel tempo e con la tempesta, sia ch'egli fosse ammalato o in salute, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella del suo gigantesco corsiero del quale l'audacia senza freni s'accordava troppo bene al suo proprio carattere.
E si dettero, ancora, talune circostanze le quali, riferite agli avvenimenti più recenti, crearono un'atmosfera mitica e soprannaturale attorno alle manie del cavaliere e alle qualità della bestia. Fu commisurato meticolosamente lo spazio che questi poteva superare con un suo salto e fu trovato che esso era assai più ampio di quanto non fosse supposto dai più esagerati. Il barone, inoltre, non aveva dato all'animale nessun nome particolare, mentre tutti gli altri cavalli della sua scuderia ne avevano uno. La scuderia per quell'eccezionale corsiero era stata ricavata a una certa distanza dalle altre e nessuno mai, eccettuato il barone, aveva osato varcarne la soglia, foss'anche per attendere alla cura e alla pulizia della bestia. E fu inoltre notato che nessuno dei tre inservienti o palafrenieri i quali erano riusciti, a mezzo d'una corda che terminava in un cappio, a impadronirsi del corsiero in fuga dall'incendio del vicino Berlifitzing, era in grado di affermare con sicurezza d'aver poggiate le mani, nel corso di quella lotta perigliosa o in alcun altro momento successivo, su alcuna parte del corpo dell'animale. Il fatto che un cavallo di nobile razza e di generoso impeto dia prove d'una intelligenza affatto particolare non è cosa che possa destare un interesse del tutto eccezionale e nondimeno, per quel che concerne il caso del cavallo di Metzengerstein, si verificarono circostanze tali da riuscire a impressionare anche coloro che si dicevano scettici e indifferenti di professione. E di fatto si ricordava di una volta che la bestia aveva fatto retrocedere un'intera folla in preda al terrore, la quale un istante prima gli si stringeva attorno ad ammirarlo, solo a causa dell'impressionante profondità del pensiero adombrato nel terribile pestar del suo zoccolo, e d'una altra volta ancora in cui il giovine Metzengerstein s'era volto a riguardare dalla parte opposta, sbiancato in viso, per isfuggire a una subita occhiata scrutatrice del cavallo che parea riguardarlo con una espressione di serietà e quasi d'umanità.
Niuno, tra i servi, sollevò mai qualche dubbio sull'affezione del tutto eccezionale che il giovine gentiluomo portava al cavallo per le sue brillanti qualità, niuno ove si eccettui un insignificante servitorello le cui difformità erano sempre tra i piedi delle persone e alle cui opinioni non era il caso d'attribuire soverchia importanza. Egli aveva la tracotanza d'affermare - seppure il suo parere merita d'esser rammentato - che il suo padrone non era mai salito in sella senza un inesplicabile e quasi impercettibile brivido e che, al ritorno dalle sue lunghe cavalcate, non mancava di tradire, ogni giorno, un'espressione trionfante di malvagità la quale gli tendeva tutti i muscoli facciali.

Una notte d'uragano, Metzengerstein si destò all'improvviso da un sonno pesante, usci come impazzito dalla sua stanza, salì in gran furia sul suo cavallo di fuoco e scomparve in un balzo negli intrichi della selva. L'avvenimento era così comune che nessuno vi pose mente; epperò i servi attesero il ritorno del barone con viva ansietà poiché, qualche ora dipoi che era scomparso, i mirifici edifizi del palazzo di Metzengerstein avevano cominciato a scricchiolare e a vacillar dalle fondamenta sotto l'azione d'un fuoco improvviso e irriducibile il quale ricopriva le costruzioni d'una massa livida e spessa di fumo. E nondimeno, allorché la gente se ne avvide, le fiamme avevano già menata innanzi di tanto la loro opera distruttrice che qualsiasi sforzo per salvare una parte soltanto delle costruzioni apparve palesemente vano, e così gli accorsi se ne stettero attoniti là intorno, preda d'uno stupefatto, se non apatico silenzio. Ma un oggetto nuovo e terribile affissò ben presto l'attenzione della moltitudine e mostrò come sia molto più intenso - l'interesse che può fomentare, in una folla, la contemplazione d'una umana agonia che non il più orripilante spettacolo offerto dalla materia inanimata.

Sul lungo viale di querce vetuste che menava, dalla selva, all'ingresso del palazzo di Metzengerstein apparve all'improvviso un corsiero, montato da un cavaliere scapigliato e con le vesti in disordine, il quale spiccava tali sbalzi da sfidare, per l'impeto, fino il Dèmone dell'uragano.
Il cavaliere - era evidente - non riusciva a frenare quella corsa impazzita, ed appariva, dall'espressione atterrita della sua faccia e dal convulso agitarsi del suo corpo, ch'egli stava sostenendo uno sforzo sovrumano. E purtuttavia, all'infuori d'un unico grido - e come fu inteso rintronare! - che gli sfuggì dalle labbra, lacerate dai suoi stessi morsi che la intensità del terrore gli suggeriva sempre più frequenti, non fu udito alcun suono che provenisse da lui. Un solo istante ancora e lo scalpitio degli zoccoli stridette più alto ed acuto che il ruggito delle fiamme e l'urlio del vento. Un solo istante ancora e, dopo aver superato, in un sol balzo, il fossato e la soglia, il cavallo si slanciò su per le scale del palazzo, prossime a crollare, col suo cavaliere in groppa, nitrendo alto fra i turbini del fuoco.
E all'improvviso, allora, s'acquetò la furia dell'uragano e sopravvenne una tetra calma di morte. Salì una candida fiamma e avviluppò tutto il palazzo come un sudario e, vampando su per l'aria tranquilla, dardeggiò in lontananza una luce soprannaturale. In quello stesso mentre, una spessa nube di fumo s'appesantì sull'antica costruzione e prese la forma d'un gigantesco cavallo.


MANOSCRITTO TROVATO IN UNA BOTTIGLIA


Qui n'a plus qu'un moment à vivre
N'a plus rien à dissimuler.
Quinault, Atys

Del mio paese, della mia famiglia ho ben poco da dire. Soprusi e l'accumularsi degli anni mi hanno allontanato dall'uno e straniato dall'altra. La ricchezza ereditata mi consenti di beneficiare di un'istruzione d'ordine non comune, e uno spirito contemplativo mi i mise in grado di classificare metodicamente il copioso materiale che i miei studi precoci avevano diligentemente accumulato. Sopra ogni altra cosa, mi dilettavano le opere dei filosofi tedeschi: non per sconsiderata ammirazione della loro follia eloquente, ma per la facilità con cui l'abituale rigore del mio intelletto mi consentiva di scoprirne le falsità. Mi si è spesso rimproverata l'aridità dell'ingegno, e imputata a delitto la deficienza d'immaginazione; e in ogni circostanza il pirronismo delle mie opinioni mi ha reso ambiguamente famoso. E in verità il vivo interesse per le scienze fisiche mi ha, temo, contagiato la mente d'un errore assai comune nell'epoca presente: intendo l'abitudine di rapportare i fatti, anche i meno suscettibili a tale rapporto, ai principi di quella scienza. In complesso, nessuno potrebbe essere meno incline di me a lasciarsi sviare dagli ignes fatui della superstizione così sfuggendo ai severi recessi del vero. Ho ritenuto opportuno fare questa premessa nel timore che il racconto incredibile che mi accingo a narrare sia considerato delirio di un'immaginazione incolta piuttosto che l'esperienza reale di una mente per cui sogni e fantasticherie sono stati sempre lettera morta, cose vuote di senso.
Dopo molti anni trascorsi viaggiando in terre lontane, nell'anno 18... salpai dal porto di Batavia, nella ricca e popolosa isola di Giava, diretto all'arcipelago della Sonda. Viaggiavo come passeggero, da null'altro indotto che da una sorta di nervosa inquietudine che come un demone mi torturava.
Era una bella nave, la nostra: circa quattrocento tonnellate, con rinforzi di rame, costruita a Bombay in legno di teak del Malabar. Portava un carico di cotone e olio delle Laccadive. A bordo avevamo anche copra, zucchero di palma, burro di bufala indiana, noci di cocco, e alcune casse d'oppio. Lo stivaggio era malamente distribuito, e di conseguenza la nave non teneva bene il mare.
Salpammo con una bava di vento e per molti giorni ci tenemmo lungo la costa orientale di Giava senza che nulla occorresse a ingannare la monotonia della nostra rotta tranne qualche raro incontro con le giunche dell'arcipelago al quale eravamo diretti.
Una sera - stavo appoggiato al coronamento di poppa - notai, verso nord-ovest, una singolarissima nube isolata. Singolarissima e per il colore e per il fatto che era la prima che incontravamo da quando eravamo salpati da Batavia. La osservai attentamente fino al tramonto, quando d'un tratto dilagò verso oriente e verso occidente, cingendo l'orizzonte d'una sottile striscia di vapore, simile alla lunga linea di una spiaggia piatta. Subito dopo, attrassero la mia attenzione il color rosso cupo della luna e l'aspetto dal mare, così strano: poiché il mare andava rapidamente mutandosi, e l'acqua sembrava più trasparente del consueto. Sebbene potessi scorgere chiaramente il fondale, quando calai lo scandaglio constatai che l'acqua era profonda quindici tese. L'aria si era fatta intollerabilmente calda ed era carica di esalazioni a spirale, simili a quelle che si levano dal ferro arroventato. Come scese la notte, cessò ogni fiato di vento: impossibile immaginare una bonaccia più completa. La fiamma di una candela ardeva a poppa senza alcun moto percettibile, e un lungo capello, tenuto stretto fra due dita, pendeva senza che si potesse scorgere la benché minima vibrazione. Tuttavia, poiché il capitano diceva di non vedere alcun segno di pericolo e la deriva ci spingeva verso la spiaggia, egli ordinò di ammainare le vele e di gettare l'ancora. Non furono disposti turni di guardia, e i membri dell'equipaggio, quasi tutti malesi, si sdraiarono tranquillamente sulla tolda. Scesi sottocoperta, non senza sinistri presentimenti: tutto, a dire il vero, mi faceva temere un simun. Parlai delle mie apprensioni al capitano, ma egli non badò a quanto dicevo e si allontanò senza degnarmi di una risposta. L'inquietudine mi impedì tuttavia di dormire, e verso mezzanotte salii sul ponte. Come posi piede sull'ultimo gradino della scala di boccaporto, trasalii a un forte ronzio non diverso da quello prodotto dal rapido moto circolare di una ruota da mulino, e prima di poterne accertare la causa, sentii che tutta la nave, fino al suo stesso centro, era scossa come da un fremito. Un istante dopo una valanga di spuma l'inclinò sul fianco e, investendoci da prora a poppa, spazzò tutto quanto il ponte.
L'estrema furia della raffica finì per essere, in gran parte, la salvezza della nave. Sebbene completamente invasa dall'acqua, poiché gli alberi erano andati perduti, dopo un minuto si levò pesantemente dal mare, barcollò per qualche tempo sotto l'immane pressione della tempesta, e infine si raddrizzò.
Per quale miracolo sfuggissi alla morte, non saprei dire. Stordito dall'urto della massa d'acqua, quando rinvenni mi trovai incuneato fra il dritto di poppa e il timone. Con grande difficoltà mi rimisi in piedi e, guardandomi intorno in preda alla vertigine, fui sulle prime atterrito all'idea che ci trovassimo tra i frangenti; tanto era tremendo, al di là di ogni immaginazione, il vortice di montagne spumeggianti, l'oceano che ci inghiottiva. Dopo un po' udii la voce di un vecchio svedese che si era imbarcato con noi giusto prima che salpassimo. Lo chiamai, gridando con tutte le mie forze, e subito, barcollando, venne a raggiungermi a poppa. Scoprimmo ben presto di essere i soli superstiti del sinistro. Tranne noi due, tutti, sul ponte, erano stati spazzati via; il capitano e i secondi dovevano essere morti nel sonno, poiché le cabine erano completamente allagate. Senza nessuno che ci desse una mano, non potevamo sperare di fare gran che per la salvezza della nave, e i nostri sforzi furono dapprima paralizzati dalla convinzione che, da un momento all'altro, saremmo andati a fondo. Naturalmente il nostro cavo s'era spezzato come spago al primo soffio dell'uragano, saremmo stati immediatamente perduti. Filavamo a una velocità spaventosa, col mare in poppa, e le onde ci investivano e passavano sopra di noi. L'intelaiatura della parte poppiera era irrimediabilmente danneggiata, e quasi dovunque gravissime erano le avarie; ma con estrema gioia scoprimmo che le pompe non erano bloccate e che la zavorra non si era spostata di molto. La gran furia della bufera era passata, così che ormai non avevamo più da temere la violenza del vento; ma la prospettiva che esso cadesse del tutto ci empiva di sgomento, convinti come eravamo che la nave, così fracassata, non avrebbe retto alla tremenda onda lunga che sarebbe seguita. Ma questa pur logica apprensione non pareva destinata a trovare immediata conferma. Per cinque giorni e cinque notti, durante i quali nostro solo nutrimento fu un po' di zucchero di palma ricuperato a fatica dal castello di prua, lo scafo volò a una velocità incalcolabile sotto il rapido succedersi di colpi di vento che, senza uguagliare l'iniziale violenza del simun, erano pur sempre più terribili di ogni tempesta che fino allora avessi incontrato. Per i primi quattro giorni la nostra rotta fu, con lievi variazioni, Sud-Est e Sud: quasi certamente, saremmo finiti sulla costa della Nuova Olanda. Il quinto giorno, sebbene il vento fosse girato di un quarto di bussola verso nord, il freddo divenne estremo. Il sole si levò con un estenuato lucore giallastro e salì di pochissimi gradi all'orizzonte, senza emettere una vera e propria luce. Non c'erano nubi in vista, e tuttavia il vento aumentava di forza e soffiava improvviso e discontinuo. Verso mezzogiorno, per quel tanto che potevamo calcolare, l'aspetto del sole attrasse di nuovo la nostra attenzione. Non diffondeva, propriamente, una luce, ma una luminescenza opaca e scialba, senza riflessi, come se tutti i suoi raggi fossero polarizzati. Subito prima di affondare nel mare rigonfio, il fuoco al suo centro si spense di colpo, quasi bruscamente estinto da una qualche potenza ignota. Non era più che un diafano alone argenteo, quando precipitò nell'insondabile oceano.
Invano attendemmo il sesto giorno: per me quel giorno non è arrivato ancora - per lo svedese non arrivò mai. Da allora in poi ci avvolse un piceo sudario di tenebra, così che non potevamo scorgere un oggetto a venti passi dalla nave. Ci avviluppava una notte senza fine, mai mitigata dalla fosforescenza marina cui eravamo avvezzi nei tropici. Notammo anche che, sebbene la tempesta seguitasse a infuriare con implacata violenza, non osservavamo più quello spumare, quel ribollire delle acque che fino a quel momento ci avevano seguito. Attorno a noi tutto era orrore, e ombra fitta e un nero, afoso deserto d'ebano.
Un terrore superstizioso si insinuò a poco a poco nello spirito del vecchio svedese, e la mia anima si smarrì in silenzioso stupore. Tralasciammo di attendere a ogni manovra, ormai peggio che inutile e, dopo esserci legati il più saldamente possibile al troncone dell'albero di mezzana, volgevamo lo sguardo amaro sull'immensità dell'oceano. Non avevamo modo di misurare il tempo, né potevamo farci un'idea della nostra posizione. Tuttavia eravamo più che certi di esserci spinti più a sud di ogni altro navigatore prima di noi, e molto ci stupiva di non incontrare le solite barriere di ghiaccio. Frattanto ogni istante minacciava di esser l'ultimo; ogni ondata gigantesca si avventava su di noi per sopraffarci. Mare lungo, e d'un turgore che mai avrei immaginato possibile: che non ne fossimo subito inghiottiti è un miracolo. Il mio compagno parlava del modico peso del nostro carico e mi rammentava le eccellenti qualità della nave; ma io non potevo non sentire tutta la disperazione della speranza e tetramente mi preparavo a quella morte che, pensavo, nulla poteva ritardare più di un'ora giacché, a ogni nodo percorso dalla nave, le enormi ondate nere divenivano più gonfie e orride e sinistre. Talora, ad altezza maggiore di un volo di albatro, boccheggiavamo e il respiro ci mancava, talora ci prendeva la vertigine nella precipite discesa in qualche acqueo inferno, dove l'aria stagnava, né suono alcuno turbava i sonni del kraken.
Eravamo in fondo a uno di questi abissi, quando il subito grido del mio compagno paurosamente squarciò la notte. «Guarda! guarda!», mi urlò nelle orecchie, «Dio onnipotente! Guarda! guarda!». Mentre parlava, notai una luce rossastra, opaca e fosca, che spioveva lungo i fianchi dell'enorme voragine in cui ci trovavamo e accendeva tremuli riflessi sul ponte della nave. Levai gli occhi, e vidi uno spettacolo che mi gelò il sangue. A un'altezza spaventosa, proprio sopra di noi, proprio sull'orlo dell'abisso scosceso, si librava una nave gigantesca di forse quattromila tonnellate. Benché sollevata sulla cresta di un'onda anche cento volte più alta, le sue dimensioni apparivano maggiori di quelle di qualunque nave di linea o mercantile delle Indie d'allora. La carena enorme, di un nero denso e opaco, non era, come quella delle altre navi, adorna di figure a intaglio. Dal portelli aperti sporgeva ininterrotta una fila di cannoni d'ottone dalle cui lucide superfici riverberavano i fuochi di innumerevoli lanterne da combattimento che dondolavano appese all'alberatura. Ma quello che soprattutto ci empì d'orrore e stupore, era che la nave reggesse a vele spiegate la furia di quel mare soprannaturale, di quell'uragano incontenibile. Quando la scorgemmo, se ne vedeva solo la prora, mentre lentamente si levava dal fosco, orrido baratro che le si apriva dietro. Per un attimo di intenso terrore sostò sulla vetta vertiginosa quasi a contemplare la propria sublimità, poi tremò, vacillò, e piombò giù.
In quell'istante, non so quale subita calma pervase il mio spirito. Brancolando, mi spinsi quanto più potei verso poppa e attesi impavido la catastrofe incombente. Il nostro vascello stava infine rinunciando alla lotta e a capofitto sprofondava nel mare; di conseguenza l'urto della massa, precipitando, colpi quella parte dello scafo che già era quasi sott'acqua, con l'inevitabile risultato di scaraventarmi con irresistibile violenza sull'alberatura della nave sconosciuta.
Mentre cadevo, la nave si arrestò, poi virò completamente di bordo; e alla confusione che seguì attribuii il fatto di essere sfuggito all'attenzione dell'equipaggio. Senza difficoltà, raggiunsi non visto il boccaporto principale, che era parzialmente aperto, e ben presto trovai modo di acquattarmi nella stiva. Perché lo facessi, non so dire. Un indefinibile senso di paura, che si era impadronito della mia mente al primo scorgere gli uomini che erano a bordo, mi aveva forse indotto a cercare un nascondiglio. Riluttavo ad affidarmi a gente che al primo, sia pur rapido sguardo, mi aveva dato, con la sua aria indefinibilmente strana, tanti motivi di dubbio e timore. Ritenni quindi opportuno scovare nella stiva un luogo ove nascondermi. Questo feci spostando una piccola parte delle tavole mobili così da crearmi un rifugio adatto tra le enormi coste della nave.
Avevo appena terminato il mio lavoro, quando un suono di passi nella stiva mi costrinse a servirmene. Un uomo passò accanto al mio nascondiglio con faticosa e instabile andatura. Non riuscii a vederlo in volto, ma potei osservare il suo aspetto. V'erano in esso tracce evidenti di estrema vecchiezza e infermità. Le sue ginocchia vacillavano sotto il gran peso degli anni, e tutta la persona tremava di quel fardello. Borbottava tra sé a voce bassa e rotta parole di una lingua che non potei capire, e frugò in un angolo in mezzo a un mucchio di strumenti bizzarri e logore carte nautiche. I suoi modi erano uno strano miscuglio della querula scontrosità propria della seconda infanzia, e della solenne dignità d'un dio. Infine risalì sopra coperta, e non lo vidi più.
Si era impadronito del mio animo un sentimento cui non so dare nome - una sensazione che non ammette analisi, cui le lezioni dei tempi passati sono inadeguate, e della quale, temo, lo stesso futuro non mi fornirà la chiave. Per una mente conformata come la mia, quest'ultima considerazione è il Male. Non potrò mai - so che non lo potrò mai - soddisfare la mia curiosità circa la natura di queste mie idee. E tuttavia non mi sorprende che tali idee siano indefinite, giacché traggono origine da fonti affatto inusitate. Un nuovo senso, una nuova entità si sono aggiunte alla mia anima.

Molto tempo è trascorso da quando per la prima volta misi piede sulla tolda di questa nave terribile e, credo, i raggi del mio destino stanno per concentrarsi in un unico fuoco. Uomini incomprensibili! Immersi in meditazioni che non posso penetrare, mi passano accanto senza notarmi. Nascondermi è pura follia, perché questa gente non vuole vedermi. Giusto adesso sono passato davanti agli occhi del secondo; poco prima mi sono avventurato nella cabina privata del capitano, dove ho preso i materiali con cui scrivo e ho scritto finora. Di tanto in tanto continuerò questo diario. È vero che forse non troverò modo di trasmetterlo al mondo: tuttavia voglio tentarlo. All'ultimo momento racchiuderò il manoscritto in una bottiglia e la getterò in mare.

È sopravvenuto un incidente che mi ha dato nuovo spunto di meditazione. Cose siffatte sono davvero opera di un capriccio del caso? Mi ero arrischiato a salire sopra coperta e mi ero buttato, senza destare l'attenzione di alcuno, su un mucchio di cordami e vecchie vele in fondo alla scialuppa. Mentre meditavo sulla singolarità del mio destino, presi distrattamente a imbrattare con un pennello da catrame gli orli di una vela di coltellaccio accuratamente ripiegata che mi stava accanto, posata su un barile. Ora la vela è stata spiegata sulla nave, e quelle pennellate casuali si dispiegano anch'esse, disegnando una parola: SCOPERTA.
Recentemente ho fatto parecchie osservazioni sulla struttura del vascello. Benché bene armata, non è, a mio parere, una nave da guerra. Alberatura, costruzione e attrezzatura permettono di escludere una supposizione del genere. Ciò che non è, posso facilmente vederlo; ciò che è, temo sia impossibile dirlo. Non so come sia, ma osservando la strana foggia e la singolare guarnitura dei pennoni, la mole enorme e la sovrabbondante velatura, la prora semplice e austera, la poppa desueta, a tratti mi balena per la mente una sensazione di cose familiari, e sempre a queste indistinte ombre della memoria si mescola un inspiegabile ricordo di antiche cronache straniere e di età remote...
Ho guardato il fasciame della nave. È costruita con un materiale a me sconosciuto. C'è in questo legno, una qualità che, noto con sorpresa, lo rende inadatto allo scopo cui è stato destinato. La sua estrema porosità, intendo una porosità che non dipende dallo sfacelo dei tarli, conseguenza della navigazione in questi mari, né da decrepita marcescenza. La mia potrà forse apparire un'osservazione azzardata, ma questo legno avrebbe tutte le caratteristiche della quercia spagnola, se mai la quercia spagnola potesse essere dilatata e spianata con mezzi artificiali.
Rileggendo quest'ultima frase, mi torna nitido alla mente il curioso apoftegma di un vecchio lupo di mare olandese: «È certo», soleva dire, quando la sua veracità veniva messa in dubbio, «così come è certo che esiste un mare, dove la nave stessa cresce di mole, come il corpo vivo del marinaio»...
Circa un'ora fa, ho avuto l'ardire di infilarmi in un gruppo di marinai. Non mi badarono per nulla, e sebbene stessi proprio in mezzo a loro, parvero assolutamente ignari della mia presenza. Al pari di quello che per primo avevo visto nella stiva, tutti recavano i segni di una canuta vecchiaia. Avevano ginocchia tremolanti d'infermità; spalle piegate dall'età decrepita; pelle aggrinzita che crepitava al vento; e voci basse, tremule e rotte; occhi ingrommati dagli anni e lucenti; e grigi capelli incolti nella sferza della tempesta. Intorno a loro, per tutta la tolda, giacevano sparsi strumenti matematici di foggia stravagante e obsoleta...
Ho menzionato, non molto tempo fa, quella vela spiegata. Da allora in poi la nave, sotto la spinta del vento, ha continuato la sua orrida corsa verso sud, spiegato ogni straccio di vela, dalla vela di gabbia alle bome dei coltellacci inferiori, immergendo di continuo i pennoni di parrocchetto nel più terrificante inferno d'acqua che mente umana possa immaginare. Ho appena lasciato il ponte, dove mi era impossibile reggermi in piedi, sebbene la ciurma non sembri gran che a disagio. E per me il miracolo dei miracoli che questa nostra enorme mole non venga subito inghiottita, e per sempre. Noi siamo certo condannati a stare continuamente sospesi sul ciglio dell'eternità senza mai tuffarci definitivamente nell'abisso. Da marosi mille volte più formidabili di quanti io abbia mai veduto scivoliamo via con la speditezza di sfreccianti gabbiani; e le onde colossali levano la testa sopra di noi come demoni del profondo: demoni limitati alle sole minacce, ai quali è vietato distruggere. Sono portato ad attribuire la nostra reiterata buona sorte alla sola causa naturale che possa spiegare un effetto simile. Debbo supporre che la nave sia governata da qualche forte corrente o da un impetuoso riflusso...
Ho visto il capitano a faccia a faccia, nella sua cabina, ma, come prevedevo, non mi ha prestato la benché minima attenzione. Sebbene agli occhi di un osservatore casuale non vi sia nulla nel suo aspetto che possa rivelarlo più o meno che umano, tuttavia un sentimento di irreprimibile riverenza e timore si mescolava alla sensazione di stupore con cui lo riguardavo. Ha all'incirca la mia statura, cinque piedi e otto pollici. La corporatura è proporzionata e compatta, non pesante, né in altro senso rimarchevole. Ma è la singolarità dell'espressione che gli segna in volto quell'intensa, mirabile, sconvolgente evidenza di una vecchiaia così estrema, così assoluta, che stimola nel mio spirito un senso - un sentimento ineffabile. La sua fronte, benché appena rugata, sembra segnata dall'impronta di millenni. I capelli grigi sono reliquie di un remoto passato, e gli occhi ancor più grigi sibille del futuro. Il pavimento della cabina era tutto ricoperto di in-folio strani, chiusi da fermagli di ferro, di strumenti scientifici guasti e mappe antichissime, da lungo tempo dimenticate. Teneva il capo chino sulle mani e con occhio ardente, inquieto, studiava una carta che a me parve una regia patente e che, ad ogni modo, recava la firma di un monarca. Mormorava fra sé - come quel primo marinaio che vidi nella stiva - sommesse, querule sillabe in una lingua ignota; e benché mentre parlava mi fosse vicinissimo, la sua voce parve giungermi da un miglio di distanza.
La nave e tutto ciò che contiene sono impregnati dello spirito di epoche remote . I marinai vanno su e giù silenziosi, come spettri di secoli sepolti; gli occhi hanno un'espressione ansiosa e inquieta; e quando le loro figure m'incrociano nella luce stranita delle lanterne da combattimento, mi sento come mai mi sono sentito in passato, sebbene durante tutta la mia vita io abbia trattato in antichità, assorbendo l'ombra delle colonne prostrate di Balbec, Tadmor, Persepoli, finché la mia anima è divenuta anch'essa una rovina.
Quando mi guardo intorno, mi vergogno della mia apprensione di prima. Se tremavo alla raffica che finora ci ha inseguiti, non rimarrò inorridito davanti a questa guerra di vento e d'oceano, di cui parole come tornado e simun - logore, inadeguate parole - non possono render l'idea? Dovunque, nelle immediate vicinanze della nave, è il nero della notte eterna, e un caos di acque senza schiuma; a circa una lega da noi, su ambo i lati, si scorgono a intervalli, indistinti, prodigiosi baluardi di ghiaccio, che torreggiano nel cielo desolato, simili alle mura dell'universo...
Come immaginavo, la nave è di fatto sospinta da una corrente, se con tale parola si può propriamente definire una marea che, urlando e stridendo tra il biancore del ghiaccio, punta tuonando a sud, con la velocità di precipite cascata...

Concepire l'orrore delle mie sensazioni e, suppongo, assolutamente impossibile; e tuttavia la curiosità di penetrare i misteri di queste tremende regioni vince la mia stessa disperazione, e mi riconcilierà il più orrido aspetto della morte. È evidente che stiamo precipitosamente avanzando verso qualche rivelazione sconvolgente, verso qualche incomunicabile segreto, la cui conquista è la morte. Forse questa corrente ci conduce direttamente al Polo Sud. Tale ipotesi, apparentemente così stravagante, è, bisogna ammetterlo, suffragata da ogni probabilità...
I marinai percorrono il ponte con passi tremuli e inquieti; ma i loro volti esprimono piuttosto l'ardore della speranza che l'apatia della disperazione.
Intanto il vento è ancora in poppa, e poiché inalberiamo una folla di vele, a volte la nave si solleva, tutta quanta, alta sull'acqua. Oh, orrore sopra orrore! Di colpo, a dritta e a sinistra, il ghiaccio si spalanca, e noi vertiginosamente ruotiamo in immensi cerchi concentrici tutt'intorno agli orli di un gigantesco anfiteatro, la sommità delle cui mura si perdono nella tenebra e nella distanza. Ma poco tempo mi rimarrà per meditare sul mio destino! Rapidamente i cerchi si restringono - piombiamo nella morsa del gorgo - e fra i rombi e i mugghii e i tuoni dell'oceano e della tempesta, la nave trema - oh Dio! - sprofonda!

Nota. Il «Manoscritto trovato in una bottiglia» fu originariamente pubblicato nel 1831, e solo molti anni dopo venni a conoscenza delle carte del Mercator, nella cui rappresentazione l'oceano, attraverso quattro bocche, precipita nel Golfo Polare (Settentrionale) per venire inghiottito dalle viscere della Terra; il Polo vi è raffigurato da una roccia nera, che torreggia a prodigiosa altezza.


L'APPUNTAMENTO


Attendimi laggiù! Non mancherò
Di ritrovarti in quella vuota valle.
In morte della moglie, di Henry King, vescovo di Chichester.

O uomo segnato dal fato e dal mistero! smarrito nella lucidità della tua stessa immaginazione e caduto nelle fiamme della tua giovinezza! Di nuovo nella mia fantasia ti contemplo! Ancora una volta la tua immagine s'erge dinnanzi a me! Non, oh, non quale tu sei, nella fredda valle e nell'ombra, ma quale dovresti essere, mentre dissipi una vita di esaltata meditazione in quella città di diafane visioni, la tua Venezia, marino Elisio diletto alle stelle, ove dai palazzi palladiani le ampie finestre fissan dall'alto il loro sguardo profondo e torvo nei segreti delle sue acque silenti. Sì, lo ripeto, quale dovresti essere. Certo vi sono altri mondi oltre a questo, altri pensieri oltre a quelli della moltitudine, altre speculazioni oltre a quelle del sofista. Chi metterà dunque in discussione la tua condotta? Chi ti biasimerà per le tue ore allucinate, o denuncerà come spreco di vita le occupazioni in cui straripavano le tue inesauste energie?
Fu a Venezia, sotto l'arcata coperta che ivi chiamano il Ponte dei Sospiri che incontrai per la terza o quarta volta la persona di cui parlo. È un ricordo confuso quello che mi riporta alla mente le circostanze di quell'incontro. E tuttavia ricordo (ah! come potrei dimenticare?) la notte fonda, il Ponte dei Sospiri, la bellezza della donna, il Genio del Fantastico che incedeva per l'angusto canale.
Era una notte inconsuetamente buia. Il grande orologio della Piazza aveva battuto la quinta ora della sera italiana. La piazza del Campanile si slargava silenziosa e deserta, e i lumi dell'antico Palazzo Ducale si andavano rapidamente spegnendo. Ritornavo a casa dalla Piazzetta lungo il Canal Grande. Ma quando la mia gondola giunse di fronte all'imbocco del canale di San Marco, una voce di donna, erompendo a un tratto dal suoi recessi, squarciò la notte in un unico grido selvaggio, isterico, senza fine. Sconvolto da quel suono, balzai in piedi, mentre il gondoliere, lasciatosi sfuggir di mano il suo unico remo, lo smarrì senza possibilità alcuna di recuperarlo nella tenebra di pece, sì che restammo in balia della corrente che qui porta dal canale maggiore a quello minore. Simili a un gran condor neropiumato planammo dolcemente verso il Ponte dei Sospiri, quando mille torce balenanti dalle finestre e giù per le scalinate del Palazzo Ducale mutarono a un tratto quella tenebra fonda in un albore livido e innaturale.

Un bimbo, sfuggendo alle braccia della madre, era caduto da una finestra superiore del maestoso edificio nel canale cupo e profondo. Quietamente le acque silenti si erano richiuse sulla loro vittima e sebbene la mia gondola fosse la sola in vista, molti intrepidi nuotatori, già in acqua, cercavano invano alla superficie quel tesoro che, ahimè, avrebbero potuto trovare solo nell'abisso. Sulle larghe lastre di marmo nero all'entrata del palazzo, pochi gradini sopra il pelo dell'acqua, stava immobile una figura che nessuno tra chi allora la vide avrebbe mai dimenticato. Era la marchesa Afrodite, idolo di Venezia tutta, la più gaia fra le gaie, la più leggiadra ove tutte erano belle, ma pur sempre la giovane sposa del vecchio, intrigante Mentoni, la madre di quella gentile creatura, il suo primo e unico figlio, che ora giù nel fondo delle torbide acque accoratamente pensava alle dolci carezze di lei e negli sforzi di chiamarne il nome esauriva la sua piccola vita.
Era sola. I suoi piccoli piedi nudi splendevano argentei nel digradante nero specchio di marmo. La chioma, solo a metà disciolta per la notte dall'acconciatura da ballo, si raccoglieva, tra una pioggia di diamanti, in composite volute, boccoli simili a quelli del giovane giacinto, intorno alla sua testa classica. Un drappeggio bianco come la neve, diafano come un velo, sembrava coprire esso solo la delicata figura; ma l'aria di mezza estate e di mezzanotte era calda, afosa e senza vento, e nessun moto nella statuaria forma agitava, sia pur nelle pieghe, quel manto vaporoso che le pendeva attorno come il greve marmo pende attorno alla Niobe. Tuttavia, strano a dirsi, i suoi grandi occhi luminosi non eran volti in basso verso la tomba in cui giaceva sepolta la sua più fulgida speranza, ma fissi in tutt'altra direzione! La prigione dell'antica Repubblica è, credo, il più maestoso edificio di tutta Venezia; ma come poteva quella dama contemplarla con sguardo così intento quando sotto di lei il suo unico figlio affogava? Non solo, ma quella nicchia scura, tenebrosa, si spalanca proprio di fronte alla finestra della sua stanza: che cosa poteva esservi dunque in quelle ombre, in quell'architettura, nei cornicioni inghirlandati d'edera e solenni, di cui la Marchesa di Mentoni non avesse stupito già mille volte in passato? Assurdità! Chi non ricorda che in momenti come questo l'occhio, come uno specchio infranto, moltiplica le immagini della propria sofferenza e vede in innumerevoli luoghi distanti il dolore che gli è vicino?
Molti gradini più in alto della Marchesa e dentro l'arco della grande porta sul canale, stava, vestita degli abiti di gala, la figura satiresca dello stesso Mentoni. Di tanto in tanto pizzicava una chitarra e appariva ennuyé a morte quando a intervalli dava istruzioni per il salvataggio del bimbo. Stupefatto, inorridito, non avevo più la forza di abbandonare la posizione eretta che avevo assunto non appena udito il grido, e certo offrivo agli occhi dei trepidi spettatori un'immagine spettrale e sinistra, mentre pallido in volto, le membra irrigidite, scivolavo frammezzo a loro nella mia funerea gondola.
Tutti i tentativi riuscirono vani. Molti anche fra i più accaniti in quella ricerca allentavano i loro sforzi e cedevano a una cupa prostrazione. Sembrava esservi ben poca speranza per il bimbo (e quanto meno per la madre!). Ma ecco: dall'interno dell'oscura nicchia che, come già s'è detto, faceva parte della prigione dell'antica Repubblica e fronteggiava la finestra della Marchesa, una figura ravvolta in un mantello emerse nella luce e, arrestandosi un attimo sull'orlo del balzo vertiginoso, si tuffò a capofitto nel canale. Quando un istante dopo, stringendo a sé il bimbo che ancora viveva e respirava, si drizzò sulla lastra di marmo accanto alla Marchesa, il mantello, appesantito dall'acqua di cui era intriso, gli si slacciò e, ricadendo in pieghe ai suoi piedi, rivelò agli spettatori stupefatti la persona squisita di un uomo giovanissimo del cui nome risuonava allora la più gran parte d'Europa.
Il salvatore non disse parola. Ma la Marchesa! Accoglie il suo bambino, se lo stringe al cuore, s'aggrappa alla piccola forma e la soffoca di carezze. Ahimè! Le braccia di un altro lo hanno sottratto allo straniero, le braccia di un altro l'hanno strappato via di lì portandolo lontano, furtivamente, dentro il palazzo! E la Marchesa! Il suo labbro, il suo labbro leggiadro, ha un tremito; i suoi occhi che, come l'acanto di Plinio, sono «dolci e quasi liquidi», s'empiono di lacrime. Sì, i suoi occhi s'empiono di lacrime ed ecco! La donna tutta rabbrividisce nell'anima: la statua, ecco, rivive! Il pallore del volto marmoreo, il turgore del marmoreo seno, il candore stesso dei marmorei piedi, li vediamo ravvivarsi a un tratto d'un flusso purpureo, incontenibile; la sua delicata figura vibra d'un fremito lieve come a Napoli gli splendidi gigli d'argento nell'erba vibrano alla brezza gentile.
Perché mai arrossirà la dama? A tale domanda non v'è risposta se non che, avendo abbandonato, nella trepida foga e nel suo terrore di madre, l'intimità del boudoir, ha tralasciato di costringere nelle pantofole i minuscoli piedi e si è affatto scordata di gettare sulle sue spalle veneziane il manto loro appropriato. E quale altro motivo poteva mai esservi per quel suo rossore? per lo sguardo di quegli occhi ardenti e supplici, per il tumulto inconsueto di quel seno palpitante? e per il tocco convulso della mano tremante che, mentre Mentoni entrava nel palazzo, quasi casualmente si posò sulla mano dello straniero? Quale poteva essere la ragione del tono sommesso, singolarmente sommesso, delle assurde parole che la dama pronunciò rapidamente nel dirgli addio? «Tu hai vinto», disse, se il mormorio dell'acqua non m'ingannò, «tu hai vinto - un'ora dopo l'alba - c'incontreremo - e così sia».

Il tumulto s'era placato, le luci s'erano spente dentro il palazzo, e lo straniero, che ora riconoscevo, era rimasto solo, in piedi, sui gradini. Tremava tutto, in preda a un'inimmaginabile agitazione, e il suo occhio vagava all'intorno in cerca di una gondola. Non potei fare a meno di mettergli a disposizione la mia, ed egli accolse di buon grado il gesto cortese. Ci facemmo dare un remo al portone che s'apriva sul canale e procedemmo insieme verso la sua residenza, mentre egli andava rapidamente ritrovando il proprio autocontrollo e parlava in termini di viva e manifesta cordialità della nostra pur vaga conoscenza anteriore. Vi sono temi che amo trattare con minuziosa precisione. La persona dello straniero (mi si conceda di chiamarlo ancora «straniero», poiché per tutti era ancora tale), la persona dello straniero, dicevo, rientra appunto in questi temi. Di statura era piuttosto al disotto che al disopra della media, anche se v'erano momenti di passione intensa in cui la struttura di fatto si espandeva contraddicendo tale asserzione. La delicata, quasi esile simmetria della sua figura faceva pensare più alla prontezza d'azione che aveva mostrato al Ponte dei Sospiri che non al vigore erculeo di cui, come è noto, diede agevole prova in più pericolose emergenze. La bocca e il mento degni di un dio, gli occhi ardenti, singolari, densi, liquidi, le cui sfumature variavano da un puro nocciola al nero del giaietto, intenso e lucente, una profusione di capelli neri e ricciuti dai quali a tratti balenava una fronte di inconsueta ampiezza, luce e avorio insieme: tali erano le sue fattezze, di una classica regolarità quale non ho mai veduto se non forse nell'effigie marmorea dell'imperatore Commodo. Eppure il suo volto era uno di quelli che tutti gli uomini hanno visto in un certo momento della loro vita e non hanno rivisto mai più. Non aveva un'espressione peculiare, definita, così predominante da fissarsi nella memoria: era, il suo, uno di quei volti che si vedono e tosto si dimenticano, ma si dimenticano con un vago e incessante desiderio di richiamarli alla memoria. Non che lo spirito di ogni subita passione non proiettasse, ad ogni attimo, la sua immagine distinta sullo specchio di quel volto, ma lo specchio, al pari di uno specchio vero, non tratteneva alcuna traccia della passione una volta che questa s'era spenta.

Congedandosi da me la notte della nostra avventura, mi sollecitò, con particolare urgenza, mi parve, ad andare a trovarlo il mattino seguente molto di buon'ora. Subito dopo il levar del sole, mi trovai pertanto al suo palazzo, uno di quegli edifici imponenti, di cupa eppur fantastica pompa che torreggiano al disopra delle acque del Canal Grande nei pressi di Rialto. Venni introdotto per uno scalone elicoidale tutto intarsi di mosaico in una sala, il cui ineguagliato splendore rifulse al dischiudersi della porta in un'onda di luce che mi accecò e mi abbagliò col suo sfarzo.
Sapevo che il mio conoscente era più che ricco. Era corsa voce sui suoi possedimenti in termini che avevo persino definito assurdi ed esagerati. Ma mentre mi guardavo attorno, non riuscivo a persuadermi che la ricchezza di qualsiasi privato, in Europa, potesse offrire la principesca magnificenza che ardeva e fiammeggiava tutt'intorno.
Sebbene, come ho detto, il sole fosse già sorto, la stanza era ancora sfolgorante di lumi. Da questa circostanza, come pure da una cert'aria di sfinitezza nel volto del mio amico, deduco che per tutta la notte precedente egli non si fosse coricato. Fine evidente dell'architettura e delle decorazioni della stanza era stato quello di abbagliare e sbalordire. S'era prestata scarsa attenzione alle esigenze di ciò che tecnicamente si definisce effetto d'insieme o alle peculiarità degli stili nazionali. L'occhio vagava di oggetto in oggetto senza arrestarsi su alcuno: né sulle grottesche dei pittori greci, ne sulle sculture del più glorioso periodo dell'arte italiana, né sugli enormi rilievi dell'Egitto primitivo. Ovunque, nella stanza, ricchi damaschi tremavano alla vibrazione d'una musica sommessa e malinconica, la cui origine non era dato divinare. I sensi erano oppressi da profumi misti e contrastanti che esalavano da strani incensieri spiraliformi insieme a molteplici lingue di fuoco violetto e smeraldino, guizzanti e fiammeggianti. Su tutto, attraverso finestre formate da un'unica lastra di vetro color porpora, si riversavano i raggi del sole appena sorto. Balenando qua e là in migliaia di riflessi, da tende che si svolgevano giù dalle loro cornici come cataratte d'argento fuso, i raggi dello splendore naturale si mescolavano infine con mutevole effetto alla luce artificiale e posavano a onde in più sfumate masse sul ricco tessuto - oro liquido - di un tappeto del Cile.
«Ah! ah! ah! ah!», rise il proprietario, indicandomi una sedia mentre entravo nella stanza e abbandonandosi lungo disteso su un'ottomana. «Vedo», disse, notando che non potevo immediatamente riconciliarmi con la bienséance di una così singolare accoglienza, «vedo che siete stupefatto della mia sala, delle mie statue, dei miei quadri, dell'originalità delle mie concezioni in fatto di architettura e di tappezzerie! Siete ubriacato dalla mia magnificenza, non è vero? Ma perdonatemi, mio caro signore (e qui il tono della sua voce si abbassò, ritrovando una nota di genuina cordialità), perdonatemi per questa impietosa risata. Avevate un'aria così assolutamente stupefatta. Inoltre, certe cose sono talmente risibili che uno deve ridere: ridere o morire. E morire ridendo deve essere la più gloriosa fra tutte le morti gloriose. Sir Thomas More - un uomo magnifico Sir Thomas More - morì, voi lo ricordate, ridendo. Ma anche nelle Absurdities di Ravisius Textor c'è una lunga lista di personaggi che pervennero alla stessa splendida fine. E sapete», proseguì in tono meditativo, «che a Sparta (che ora è Palaeochori), a Sparta, dico, a occidente dell'acropoli, in mezzo a un caos di rovine a stento visibili, c'è una specie di socle sul quale sono tutt'ora leggibili le lettere $ËÁÓÌ$, che indubbiamente sono ciò che resta di $ÃÅËÁÓÌÁ$. Ora, a Sparta c'erano mille templi e sacelli dedicati a mille diverse divinità... È curioso, curioso davvero che l'altare del Riso sia sopravvissuto a tutti gli altri! Ma nel caso presente», riprese con singolare alterazione di voce e di modi, «non ho alcun diritto di divertirmi a spese vostre. Potevate ben essere sbalordito. L'Europa tutta non può produrre nulla di più bello di questo mio regale studiolo. Le altre mie stanze non sono per nulla all'altezza di questa: sono il nonplusultra dell'insipida moda corrente. Ma questa è meglio della moda, non è vero? Però basta vederla perché faccia furore... fra quanti, intendo, se la possono permettere a prezzo di tutto il loro patrimonio. Comunque, ho preso le mie misure contro simili profanazioni. Con un'unica eccezione, voi siete il solo essere umano all'infuori di me e del mio valet, che sia stato ammesso ai misteri di questi imperiali recessi da quando sono stati bardati così come li vedete!».
Ringraziai con un inchino: l'opprimente sensazione di splendore e il profumo e la musica, unitamente all'inattesa eccentricità del suo modo di parlare e di comportarsi, mi impedivano infatti di esternare a parole l'apprezzamento di quello che avrei potuto interpretare come un complimento.
«Qui», riprese, levandosi in piedi e appoggiandosi al mio braccio mentre lentamente si aggirava per la sala, «qui sono i dipinti dai Greci a Cimabue e da Cimabue ai nostri tempi. Molti sono scelti, come vedete, con scarsa deferenza alle opinioni dei cosiddetti intenditori. Tutti, comunque, tappezzano acconciamente una sala come questa. Ci sono anche alcuni chefs d'oeuvre dei grandi ignoti; e qui disegni incompiuti di uomini celebri ai loro tempi, i cui nomi sono stati consegnati dalla perspicacia delle accademie al silenzio e a me. Che ne pensate», disse, volgendosi di scatto mentre parlava, «che ne pensate di questa Madonna della Pietà?».
«Ma è di Guido!», dissi con tutto l'entusiasmo di cui la mia natura è capace, poiché ero stato fino allora assorto nella contemplazione della sua suprema bellezza. È proprio di Guido!... Come avete potuto ottenerla? È senza dubbio, in pittura, quello che la Venere è in scultura».
«Ah!», disse pensoso, «la Venere? la bella Venere? la Venere dei Medici? con la piccola testa e le dorate chiome? Parte del braccio sinistro (qui la sua voce si abbassò così da essere a stento udibile) e tutto il destro sono opera di restauro, e nella civetteria di quel braccio destro v'è, a mio avviso, la quintessenza dell'affettazione. A me date il Canova piuttosto! Anche l'Apollo! È pur esso una copia, non v'è dubbio, e sarò cieco e pazzo, ma non riesco a scorgere la tanto esaltata ispirazione dell'Apollo! Non posso - compatitemi pure! - non posso fare a meno di preferirgli l'Antinoo. Non fu Socrate a dire che lo statuario trova la sua statua entro il blocco di marmo? E allora Michelangelo non fu per nulla originale nel suo distico:

"Non ha l'ottimo artista alcun concetto
che un marmo solo in sé non circonscriva"».

È stato osservato, o dovrebbe esserlo, che, considerando i modi del vero gentiluomo, avvertiamo sempre una differenza fra il suo contegno e quello del plebeo, pur non essendo in grado di specificare immediatamente e con esattezza in che consista la differenza. Premesso che tale osservazione si applicava in pieno al contegno esteriore del mio conoscente, la sentii in quel fatale mattino ancor più pienamente applicabile al suo temperamento, alla sua personalità morale. Né potrei meglio definire quella singolarità di spirito che sembrava collocarlo a così essenziale distanza da ogni altro essere umano, se non come una naturale disposizione al pensare, intensamente e ininterrottamente, che permeava anche i suoi atti più banali, insinuandosi nei suoi momenti di giocosità e intrecciandosi ai suoi stessi sprazzi d'allegria come quei serpi che attorcendosi escono dalle maschere ghignanti dei cornicioni tutt'intorno al templi di Persepoli.
Non potei, tuttavia, fare a meno di osservare, e più d'una volta, frammezzo a quel tono misto di leggerezza e di solennità con cui rapidamente discorreva di argomenti di scarsa importanza, una cert'aria di trepidazione, un certo grado di nervosa enfasi negli atti e nelle parole, una volubile eccitabilità di modi che ogni volta mi apparve inesplicabile e che in certi istanti persino mi allarmò. Spesso, inoltre, arrestandosi in mezzo a una frase di cui evidentemente aveva dimenticato l'inizio, sembrava ascoltare con la massima attenzione, come in momentanea attesa di un visitatore o intento a suoni che dovevano esistere solo nella sua immaginazione.
Fu durante una di queste fantasticherie o pause di manifesta astrazione che, voltando una pagina dell'Orfeo, la stupenda tragedia del poeta e dotto Poliziano (la prima tragedia della letteratura italiana), posata accanto a me su un'ottomana, scopersi un brano sottolineato a matita. Era un passo verso la fine del terzo atto, un passo intriso di struggente emozione che, sebbene contaminato da qualche impurità, nessun uomo può leggere senza un brivido di insolito turbamento, nessuna donna senza un sospiro. L'intera pagina recava le tracce di lacrime recenti e, sull'interfoglio a fianco vi si leggevano questi versi in inglese, vergati da una scrittura tanto diversa dai tipici caratteri del mio conoscente, che ebbi qualche difficoltà a riconoscerla come sua:

Tu fosti, amore, per me tutto
quanto l'anima mia bramava,
una verde isola nel mare, amore,
una fontana e un'ara
tra fatate ghirlande di frutti, di fiori;
e i fiori eran tutti per me.

Oh, sogno troppo splendido non dura;
oh, stellata Speranza, che sorgesti
solo per offuscarti!
Giunge una voce dal Futuro e grida
«Avanti! Avanti!» - ma sopra il Passato
(abisso tetro) il mio spirito aleggia
sempre: muto, immoto, atterrito!

Perché adesso, ahimè,
la luce della vita è per me spenta.
«Mai più - mai più - mai più»,
(tale è il linguaggio del solenne mare
alle sabbie del lido),
mai fiorirà l'albero folgorato,
né l'aquila ferita alzerà il volo!

Ora tutti i miei giorni son visioni,
e nelle notti i miei sogni
son là dove il tuo scuro occhio s'affisa,
là dove la tua orma rifulge
tra quali danze eteree,
su quali rivi italiani.

Ah! maledetto giorno
che ti portò oltre l'onde
da Amore alla patrizia vecchiaia scellerata
e al profano guanciale!
da me lontano, dal nostro clima di brume
dove piangono i salici d'argento!

Che questi versi fossero scritti in inglese, lingua di cui non credevo che il loro autore fosse a conoscenza, non mi sorprese eccessivamente. Ben conoscevo infatti la vastità delle sue cognizioni e il singolare piacere che provava a tenerle segrete; ma il luogo da cui era datata la composizione fu, devo ammetterlo, motivo di non poco stupore. In origine era stato scritto Londra, e poi attentamente cancellato ma non così perfettamente da celare la parola a un occhio indagatore. Dico che ciò fu per me motivo di non poco stupore, perché ben ricordavo che, in una precedente conversazione col mio amico, gli avevo chiesto per l'appunto se avesse mai incontrato a Londra la Marchesa di Mentoni (che in quella città aveva dimorato alcuni anni prima del matrimonio), e la sua risposta, se non erro, mi aveva dato a credere che egli non avesse mai visitato la metropoli inglese. E qui potrei anche ricordare d'aver sentito dire più di una volta (senza naturalmente dar credito a una voce che implicava tante improbabilità) che la persona di cui parlo non solo per nascita, ma per educazione, era Inglese.
«C'è un quadro», disse, senza avvedersi che avevo notato la tragedia, «c'è ancora un quadro che non avete visto». E, scostando una tenda, scoperse un ritratto a grandezza naturale della Marchesa Afrodite.
L'arte umana non avrebbe potuto più perfettamente ritrarre la sua sovrumana beltà. La stessa eterea figura che la notte precedente avevo visto levarsi di fronte a me sui gradini del Palazzo Ducale mi stava nuovamente davanti. Ma dall'espressione del volto, irradiato di sorrisi, ancora traspariva (incomprensibile anomalia!) quell'ombra fugace di malinconia che sempre si troverà inseparabile dalla perfezione del bello. Il braccio destro era ripiegato sul seno, e col sinistro additava in basso un vaso bizzarramente foggiato. Un piccolo piede fatato, esso solo visibile, sfiorava appena il suolo, e, a stento discernibili nella luminosa atmosfera che sembrava avvolgere e aureolare la sua bellezza, levitavano due ali, le più leggiadre che sia dato immaginare. Il mio sguardo si spostò dal quadro alla figura dell'amico, e spontaneamente mi tremarono sul labbro le possenti parole del Bussy d'Ambois di Chapman:

«Egli s'aderge lassù
Come una statua romana! E starà immoto
Finché la Morte non lo abbia fatto marmo!»

«Venite!», disse alla fine, volgendosi verso un tavolo d'argento massiccio e riccamente smaltato sul quale erano alcune coppe fantasticamente decorate, e due grandi vasi etruschi foggiati secondo il medesimo straordinario modello di quello in primo piano nel ritratto e colmi, così mi parve, di Johannisberger. «Suvvia», disse bruscamente, «beviamo! È presto, ma beviamo! È davvero presto», continuò pensoso, mentre un cherubino dal pesante martello d'oro faceva risuonare la sala del primo rintocco dopo l'aurora. «È davvero presto, ma che importa? Beviamo! Libiamo a quel sole solenne che queste vistose lampade e questi incensieri sono così smaniosi di sopraffare!». E, dopo avermi fatto brindare con lui da un calice ricolmo, vuotò rapidamente, l'una dopo l'altra, diverse coppe di quel vino.
«Sognare», continuò, riprendendo quel suo tono di svagata conversazione e sollevando alla ricca luce di un incensiere uno dei magnifici vasi, «sognare è stata la cura principale della mia vita. Perciò mi sono costruito, come vedete, un asilo di sogni.
Avrei potuto erigerne uno migliore nel cuore di Venezia? Intorno a voi vedete è vero, una mistura di decorazioni architettoniche. La castità della Ionia è offesa da artifici antidiluviani, e le sfingi d'Egitto sono adagiate su tappeti d'oro. Tuttavia l'effetto risulta incongruo solo per i pavidi. Le unità di luogo, e soprattutto di tempo, sono gli spauracchi che precludono all'umanità la contemplazione della magnificenza. Anch'io una volta ero un fautore del "decoro", ma di quella sublimazione della follia la mia anima è sazia ormai. Tutto ciò che ora è qui meglio s'adatta al mio intento. Come questi incensieri arabescati, il mio spirito si contorce nel fuoco, e il delirio di questa scena mi va conformando alle più straordinarie visioni di quella terra di sogni reali per la quale partirò tra breve». S'interruppe tutt'a un tratto, chinò la testa sul petto, e parve ascoltare un suono che io non potevo udire. Alla fine, ergendo la sua figura, levò in alto lo sguardo e declamò i versi del Vescovo di Chichester:

«Attendimi laggiù! non mancherò
di ritrovarti in quella vuota valle».

Un istante dopo, accusando il potere del vino, si gettò lungo disteso sopra un'ottomana.
Fu ora che s'udì un passo rapido per le scale, cui ben presto seguì un fragoroso picchio alla porta. M'affrettai a prevenire un'ulteriore molestia, quando un paggio di casa Mentoni irruppe nella stanza e balbettò con voce soffocata dall'emozione queste parole incoerenti: «La mia signora! - La mia signora! - avvelenata! - avvelenata! - Oh, la bella, la bella Afrodite!».
Sbigottito, mi precipitai verso l'ottomana e tentai di destare il dormiente perché apprendesse la sconvolgente notizia. Ma le sue membra erano rigide, le labbra livide, e gli occhi poc'anzi risplendenti erano inchiodati nella morte. Vacillando tornai verso il tavolo, la mano mi cadde sopra una coppa incrinata e annerita, e il senso di tutta l'orrenda verità mi balenò subitamente nell'anima.