FABIO FANO

VITA E MISSIONE ARTISTICA

1. INFANZIA, STUDI E PRIMA FIORITURA ARTISTICA.
GIRI DI CONCERTI PIANISTICIE SINFONICI:
ANNI D'INSEGNAMENTO AL CONSERVATORIO
DI NAPOLI (1886-1902)



Fu una singolare coincidenza, che alla rinascita della musica strumentale in Italia nel secolo scorso, precisamente nelle due città che in un primo tempo furono di essa i principali centri, Roma e Napoli, abbiano avuto parte i due grandi rivali nel virtuosismo pianistico internazionale: Franz Liszt e Sigismund Thalberg. L'influenza di Liszt in Roma fu di gran lunga più importante, perché ben altra era la sua personalità artistica: quella di Thalberg in Napoli fu limitata e casuale, ma nondimeno effettiva. Ed è di Napoli che qui dobbiamo occuparci.
In questa città, a detta degli stessi napoletani, un secolo fa il gusto della musica strumentale pura, di fronte alla preponderante fioritura operistica nelle più svariate manifestazioni e in tutte le gradazioni dal sublime al ridicolo, era ancor più decaduto che nelle altre parti d'Italia, sebbene il fenomeno fosse generale; eppure proprio in Napoli doveva sorgere la maggior luce di rinascita. Quivi appunto il Thalberg andò a trascorrere l'ultimo periodo della sua vita, avendo acquistato nel 1858 una villa presso Posillipo ove, dopo un ultimo giro concertistico mondiale, si ritirò in definitiva quiete nel 1864. Ma ancor prima di andarvi a soggiornare stabilmente, ebbe colà come allievo il piccolo Beniamino Cesi, nato nel 1845, affidatogli da Luigi Albanesi (secondo maestro del Cesi, dopo il padre di questo, Napoleone), e destinato a onorevole avvenire di didatta e concertista di pianoforte.
Sebbene la scuola di Thalberg, il quale aveva specialmente coltivato, come pianista e come compositore, la forma della parafrasi o fantasia su motivi d'opera, non fosse la più atta ad allontanare gli studiosi da quella caduca tendenza che imperversava ovunque, e in Italia era senz'altro dominatrice della esigua vita concertistica - né qui era sorretta dalla genialità di un Liszt o dalla perizia di un Thalberg - non le mancava tuttavia virtù di educare ad uno stile pianistico più puro, come dimostrano sufficienteniente alcuni Studi per pianoforte del Thalberg stesso, di gusto fine e castigato.
Certo si è che il Cesi dimostrò con la sua attività ulteriore, di essersi abbeverato alle fonti della grande arte strumentale, diffondendo a sua volta fra i suoi numerosi discepoli il culto di essa, e in particolar modo la conoscenza di quel Bach che ancora, a cento anni dalla sua morte, era da noi quasi ignorato. L'austerità e insieme l'ampiezza della cultura musicale del Cesi sono poi attestate direttamente dal suo repertorio concertistico e dal suo programma d'insegnamento, entrambi comprendenti i grandi maestri delle più varie scuole ed epoche. È dunque a lui che fa capo, dal punto di vista didattico e culturale, la rifioritura di gusto strumentale che si diramò da Napoli, e che ebbe parte cospicua nel rispettivo movimento generale italiano.
Tuttavia la gloria di avere infuso a questa rinascita il soffio di una profonda genialità, insieme estendendola a più vasto campo e dandole più vasta risonanza, era riserbata, com'è ben noto, a Giuseppe Martucci. Questi, non poi tanto più giovane del Cesi - era nato a
Capua il 6 gennaio 1856 da Gaetano e da Orsola Martucciello - entrò dodicenne alla sua scuola: e da quel momento ebbe inizio la sua vera educazione artistica. Aveva già avuto i primi rudimenti musicali da suo padre, sonatore di tromba e maestro di banda in un reggimento borbonico, il quale nel 1860 si era trasferito con la famiglia da Capua a Pozzuoli ove esercitò l'insegnamento privato. Nella sorella Teresa, più giovane di lui di due anni, il piccolo Giuseppe ebbe la prima compagna di successi concertistici, con la piccola tournée a due durata dal 1864 al 168, in cui essi tennero, come allora si diceva, «accademie» di pianoforte nei paesi circonvicini di Pozzuoli, Capua, S. Maria Capua Vetere, Caserta, Aversa, Nola, Marigliano, Maddaloni, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, e finalmente a Napoli, ove sonarono la prima volta il 20 maggio 1866 per gli alunni del Liceo Vittorio Emanuele e diedero nello stesso anno e in quelli successivi altre accademie in vari collegi. I successi ovunque ottenuti dai due piccoli concertisti sono attestati da documenti firmati da pubbliche autorità dei rispettivi paesi. I programmi non è da credere che uscissero dal gusto del tempo, come si vede già dai pochi particolari registrati in quei documenti: fratello e sorella si presentavano ora insieme, eseguendo pezzi a quattro mani, ora separatamente in pezzi a solo, e Giuseppe dava anche i primi saggi della sua abilità di improvvisatore nonché di compositore in erba, eseguendo tra l'altro una polka che fece molta impressione, come riferisce un articolista di Napoli, per l'abbondanza di «capricci e variazioni».
Ma questi primi trionfi di fanciullo prodigio non furono altro che l'occasione di far conoscere al pubblico sia di musicisti che di profani le doti già manifeste del Martucci, e di far nascere in lui l'esigenza di un più approfondito studio. In lui, diciamo, giacché sin d'allora il suo temperamento era informato a coscienziosità più unica che rara, mentre il padre, piuttosto che assecondarla, pare pensasse a fini pratici. Nel 1867 il Nostro per incoraggiamento del Cesi entrò come alunno «esterno» al Conservatorio di Napoli; l'anno dopo vi vinse un concorso per un posto di alunno interno. Ebbe a maestro di pianoforte, come s'è detto, il Cesi, che ancor giovanissimo teneva quella cattedra, e a maestro di composizione Paolo Serrao, didatta rispettabile, il quale però pur essendo autore di pagine pianistiche di gusto armonico non volgare, era essenzialmente legato allo stile e al gusto prevalentemente operistico della scuola napoletana non più in fiore, per cui non poteva aprire al discepolo ampi orizzonti, specie nella musica strumentale. Dal Cesi dunque il Martucci ricevette quella base di classicismo che doveva rimanere elemento essenziale dell'opera sua: e dal Serrao, oltre a quell'esperienza di scrittura contrappuntistica che costituì sempre per gli allievi compositori il più difficile tirocinio (si conservano autografi i Partimenii dei Mattei armonizzati dal giovinetto in elegante stile fondo) anche quel residuo di gusto melodrammatico che si trova nelle sue prime composizioni pianistiche nonché nelle poche parafrasi su temi d'opera.
Anche quest'ultimo elemento, del resto, aveva il suo lato positivo, in quanto implicava una dimestichezza con lo stile dell'opera italiana necessaria a integrare la cultura di un giovane musicista, sia pure vocato alla musica extra-teatrale come il Martucci. Un grazioso episodio narrato da un condiscepolo del Martucci, Michele Esposito, ci mostra i due scolari dodicenni nel dormitorio del Collegio (cioè Conservatorio) intenti una sera a eseguire al pianoforte, col canto e con l'azione, il «duetto dello schiaffo» nella Forza del destino, mentre avrebbero dovuto invece esercitarsi a eseuire una fantasia del loro maestro Serrao su temi dell'opera Virginia del Mercadante allora direttore. E nei programmi dei primi concerti che diede dopo qualche anno di raccoglimento e di studio, ancora pagò il suo tributo (ma se ne farà carico ad un fanciullo?) a quella tendenza di moda, come pure nelle prime composizioni: si conserva ancora, manoscritta, una fantasia per trio di piano, violino e violoncello sull'operetta La Belle Hélène di Offenbach, da lui scritta a tredici anni; un'altra per pianoforte sulla Forza del destino, che eseguì a Napoli nel 1871, fu anche data alle stampe. Nello stesso anno, però, compose pure una Messa di gloria rimasta inedita, a suggello della quale poneva nel manoscritto la spiritosa confessione: «Questo pezzo è stato finito la sera del 3 febbraio 1871 con il sonno e con la fame».
In realtà, ciò che nella sua attività di adolescente tralignava dalla linea severa di studio che si era imposta, era dovuto più che altro alla irrazionale volontà paterna, che per di più lo costringeva a lasciare il Conservatorio a sedici anni, prima di aver compiuto i corsi, per darsi a più proficua attività di lezioni e di concerti. Ma egli, pur obbedendogli, non si lasciò fuorviare nell'intima vita artistica; e nel trionfale giro di concerti che fece negli anni successivi nelle principali città d'Italia e all'estero (in Francia, Inghilterra, Germania) si orientò definitivamente verso l'arte strumentale più pura. I suoi autori divennero ben tosto quei grandissimi che anche il pubblico italiano dal gusto rinnovellato doveva poi prediligere. Già un programma che eseguì a Napoli nel 1874 comprendeva musiche di Mozart, Beethoven, Schumann, Mendelssohn, Chopin. Il consenso dei pubblici e della critica si fece sempre più caldo; né gli mancarono elogi dei numi dell'arte pianistica del tempo: Liszt, che lo udì a Roma nel 1874, e Rubinstein a Napoli nel medesimo anno.
Ciò che ancora vi poteva essere di esteriore e di mondano in questa carriera precoce, non era che la necessaria vernice di un'attività sempre più rivolta verso l'intrinseco: e pur questa vernice era destinata a presto scomparire o quasi, giacché dopo il suddetto giro di concerti all'estero (che si svolse nel 1877-78 e nel quale il Nostro ebbe a compagno il già celebre violoncellista Alfredo Piatti) e con la nomina del Martucci a professore di pianoforte nel Conservatorio di Napoli (1880) il periodo più fitto di suoi concerti pianistici poté dirsi finito, e la sua attività artistica prese un carattere più calmo e più raccolto. Che le sue composizioni pianistiche di quel primo periodo risentano dello stile virtuosistico e da salotto sin allora imperante in Italia, e anche in parte della sentimentalità della canzone napoletana, non può far meraviglia; era quello il primo getto di una natura musicale ancor greggia, ma che già si manifestava feconda e sostenuta da una tecnica sicura. L'essenziale è che egli continuava nel campo pianistico l'opera culturale del maestro, che presto l'avrebbe estesa al campo della musica da camera e orchestrale, e che altrettanto presto dall'esecutore e dal didatta doveva germogliare il creatore.
Infatti, mentre a Napoli si formavano sotto l'auspicio di mecenati dell'aristocrazia (primo per benemerenze il principe di Ardore) una società di musica da camera, nelle esecuzioni della quale il Martucci si alternava col Cesi, e un'orchestra stabile che diede il primo concerto, sotto la direzione del Martucci, il 23 gennaio 1881 e che presto ebbe un notevole repertorio sinfonico che eseguì anche altrove, nascevano le prime importanti composizioni del Nostro, come il Quintetto, premiato ed eseguito alla Società dei Quartetto di Milano nel 1878, la Sonata per piano e violoncello, i due Trii, l'oratorio Samuel, e il Concerto per pianoforte e orchestra, eseguito la prima volta a Napoli nel 1886, sotto la direzione del Serrao. Alcune di queste opere, come vedremo, sono già espressioni artistiche autentiche e mature, sebbene egli le abbia poi in parte rivedute. Ma per ora importa mettere nella giusta luce specialmente l'attività svolta dal Martucci riguardo alla cultura musicale. Si sa che egli era specialmente devoto alla grande arte strumentale; ma, a parte la dimestichezza con quella teatrale di cui già s'è detto di cui testimoniano anche le riduzioni per piano e canto da lui fatte, certo a scopo puramente pratico, da opere belliniane come Adelson e Salvini e Il Pirata - era anche vivo il suo interesse per la polifonia vocale italiana del periodo aureo; e se in questo campo egli non poté far molto, va tuttavia ricordato che nel 1894, richiesto dal critico milanese Nappi del programma per un concerto sinfonico vocale da farsi a Milano, propose di formare la prima parte con pezzi di Palestrina, Lotti, Marcello ecc. e di includere «un bellissimo Gloria ad 8 parti del Carissimi, una rarità [soggiunge] che possediamo nella nostra Biblioteca » (di Bologna, donde la lettera fu scritta); il che dimostra che egli era anche appassionato ricercatore di antichità musicali, come attesta anche Michele Scherillo, riferendosi agli anni di insegnamento del Martucci in Napoli, e come del resto provano nel modo più eloquente le stesse trascrizioni del Martucci di cui a suo luogo parleremo.
Ma non tutti i compiti possono congiungersi in una sola persona, e quello del risveglio del culto palestriniano doveva essere riserbato ad altri, ed è ben lungi ancora oggi dall'essere adempiuto. Quello che era proprio del Martucci era già di per sé abbastanza vasto: e dire ciò che egli fece in questo campo, ricordare cioè le esecuzioni beethoveniane e mozartiane e wagneriane e altro, sarebbe oziosa ripetizione, se non cercassimo insieme di chiarire il significato di questa sua attività.
Cosa importava, cosa significava far risorgere in Italia l'amore della musica strumentale e, d'altro canto, diffondere e far radicare quello dell'arte wagneriana? Non soltanto, come potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, si riparava con ciò ad una gravissima lacuna culturale, ma si combatteva insieme quella forma di nazionalismo musicale che per evitare il pericolo dell'imitazione servile, pretendeva elevare barriere fra nazione e nazione, precludendo al pubblico e agli studiosi italiani la conoscenza della musica non nostrana, con che andava di pari passo il pregiudizio secondo il quale la natura musicale italiana sarebbe essenzialmente portata all'arte vocale, non a quella strumentale.
Ora, che in Italia per molto tempo il pubblico e buona parte dei musicisti avessero praticamente dimenticato che vi fosse altra musica fuori di quella teatrale, si può comprendere: l'ondata di canto che la genialità dei maggiori operisti italiani aveva diffuso nel popolo era realmente inebriante (in senso buono, beninteso) e inoltre rispondeva mirabilmente a quel momento storico, si che pareva quasi non esservi luogo ad altro nel mondo musicale italiano. Ma il male era che di questa predilezione alcuni volevano fare una teoria e una norma per l'avvenire, e dispiace dire che tra i più tenaci promotori di questa tendenza fu Giuseppe Verdi. Non già - commetteremmo grave ingiustizia verso quel grande se non precisassimo - che egli volesse la musica italiana limitata al teatro: ché anzi continuamente incitava allo studio e alla diffusione degli antichi capolavori dell'arte vocale pura; ma, in massima, era contrario al culto della musica strumentale in italia, partendo dal principio nazionalistico di cui abbiam detto sopra. Di fronte a lui in tale questione stavano a Milano il Boito e minori personalitàmusicali, specialmente critiche - esempio tipico Filippo Filippi - le quali pareva non dovessero osare di misurarsi in questioni musicali con tal colosso, ma che pure, quanto a principi estetici, avevano ragione.
Avevano ragione, perché il disdegno e la paura dell'imitazione servile non giustificano che si debba inculcare ai giovani musicisti il precetto dell'ignoranza dell'arte straniera; e quanto alla teoria dell'inclinazione dei vari popoli all'una o all'altra forma d'arte, essa non può avere che un valore empirico e relativo. Del resto, lo stesso Verdi era ben lungi dal fare a se stesso un norma assoluta di ciò che predicava agli altri; e, in momenti di maggior serenità e spregiudicatezza, manifestava opinioni più larghe. È però significativo che, nelle sue lettere finora conosciute, il nome di Martucci non compaia mai; né si sa che i due grandi musicisti si siano mai incontrati. Ciò si comprende: i loro campi l'azione erano diversi - il che non significa, s'intende, che non potessero materialmente incontrarsi. Non già che li separasse una radicale diversità di indirizzo artistico, ché anzi una stessa base di classicismo c'è nell'opera di entrambi; li separava bensì una opposizione di principi estetici, che si può compendiare in due termini particolarismo nazionalista e universalismo.
Il Martucci, dunque, fu assertore di universalismo: e lo fu senza prendere alcun atteggiamento polemico, ma semplicemente, per spontanea e connaturata missione. Il senso di questa missione fu in lui così forte che, a ripercorrere la sua vita di artista, l'opera di compositore sembra quasi il coronamento, più che il centro, della sua attività: e in un certo senso si può anche dire che lo sia: solo in un certo senso, si badi; non già cioè perché essa sia, come qualcuno pretende, la parte di lui meno importante e geniale ché anzi a suo luogo mostreremo il contrario - ma perché in certo modo essa pure si inserisce nel quadro di quella resurrezione di una forma d'arte elettissima e, in Italia, ridotta a un pio ricordo di tempi andati.
Certamente in tale missione egli non fu solo, giacché i germi della rinascita erano gettati, dal più al meno, sparsamente in importanti centri di tutta Italia, e in alcuni furono anche portati a fioritura da altri insigni musicisti, come lo Sgambati a Roma e Cesare Pollini a Padova; pure, per riconoscimento ormai unanime, il Martucci fu quello che, grazie alla sua multiforme natura musicale, poté svolgere detta missione nel modo più completo, specie per quel che riguarda i concerti sinfonici e sinfonico-vocali; si che di quel fervido movimento in generale egli può a buon diritto esser chiamato il protagonista o, per usare espressione più nobile, che solo superficialmente può apparire enfatica, l'eroe e l'apostolo.
Fu veramente un soffio purificatore che egli portò nell'ambiente concertistico e, in generale, nel gusto musicale italiano; la rivelazione di un mondo nuovo, che - e ciò va detto anche a onore del suo pubblico, dove si raccoglieva naturalmente il fiore dei musicisti ed esteti ed amatori fu accolta con religioso stupore, con raccoglimento ed entusiasmo insieme. Era come se le sinfonie di Beethoven, per addurre ad esempio la sua fondamentale rivelazione nel campo sinfonico, per gli italiani nascessero allora poco importa se alcune di esse, intere o a pezzi, erano già state talvolta eseguite da altri -; ma questo ritardo di divulgazione fu compensato da una più immediata o, se la parola può sembrare eccessiva, almeno più rapida comprensione.
In effetto, non solo per ogni popolo, ma anche per ogni individuo, l'opera d'arte in certo modo nasce dal momento in cui entra nel suo spirito, ed è legata alle circostanze e all'ambiente in cui questo contatto avviene, prima di tutto all'interprete che gliela fa rivivere. Così, certamente, per coloro che ebbero la fortuna di assistere a quelle rivelazioni e che ne hanno la memoria ancor viva, le prime impressioni ricevute dai capolavori sinfonici tedeschi e dagli squarci wagneriani restano legate alla severa e pura immagine di Giuseppe Martucci.
L'associare all'interpretazione della musica strumentale pura, che per lui era l'arte d'elezione, quella frequente di squarci sinfonici di opere di Wagner e, più tardi, l'integrale esecuzione di alcune di esse, non indicava certo in lui smania di novità forestiere, né predilezione preconcetta (del resto nei suoi programmi entrano anche pezzi di opere non solo di Mozart, Weber e Schumann, ma anche di Cherubini, Rossini, Berlioz ed altri), ma piuttosto l'intuizione della ricchezza sinfonica contenuta nell'arte wagneriana, e quindi l'opportunità di farne conoscere al pubblico italiano, in concerti, brani sparsi ma significativi, almeno fintantoché non fossero raggiunte le condizioni per la sua diffusione completa: e certamente le esecuzioni wagneriane del Martucci nelle sale da concerto trovarono nei primi tempi un pubblico meglio preparato a gustarle di quanto non sarebbe stato quello di teatro. È giusto ricordare che anche in questa opera di diffusione egli ebbe a compagni altri direttori, specialmente Luigi Mancinelli e Franco Faccio.
Così, in complesso, la parte scelta dell'ambiente musicale italiano tornava alle tradizioni più sane di cultura elevata e universale; perché tali erano, checché si potesse pensare e dire in contrario, le sue vere tradizioni; basti al proposito ricordare che, nell'età aurea della polifonia vocale italiana, quella del Rinascimento, cantori e compositori italiani, fiamminghi, spagnoli, tedeschi e inglesi erano più o meno in continuo contatto che produceva scambievoli influenze non degeneranti, salvo casi particolari, in passive imitazioni. E questa rinata sana corrente culturale non faceva in fondo che estendere al campo musicale ciò che in quello letterario e filosofico era già un fatto maturo, giacché la cultura italiana del Risorgimento, nonostante la diffidenza di alcuni verso chi attendesse a forestiere discipline, era tutta penetrata dalla luce spirituale di Shakespeare, Goethe, Schiller, Kant, Victor Hugo, per non fare che alcuni dei maggiori nomi. A buon diritto dunque si può dire che la missione del Martucci, per il suo valore estetico e storico, entra nel quadro del Risorgimento italiano, appunto perché questo, nella sua profonda essenza, non ha nulla a che vedere con le esclusività nazionalistiche. Se dunque oggi da noi Bach, Beethoven, Mozart, Brahms e gli altri sommi loro fratelli non sono più sentiti come stranieri ma come nostri, sappiamo a quali uomini e prima di tutto a quale uomo lo dobbiamo. È vero che quel movimento, purtroppo, doveva poi perdere man mano la sua purezza col sorgere di nuove tendenze nel nuovo secolo; è vero che le vedute del nazionalismo musicale, mai scomparse del tutto, erano destinate a prender nuovo vigore, nella forma più gretta, nell'infausto periodo a noi più vicino; ma tuttavia rimasero più che altro nel campo della critica e della storia della musica, e non poterono più impedire gli scambi già felicemente avviati, ai quali si mescolarono altri certo non benefici, ma solo per colpa dei generale traviamento dei gusti. E ciò che vi è di puro in una corrente estetica non può perire: è bensì compito grave ed essenziale della presente generazione musicale il liberarlo da ciò che l'ha intorbidato.