HOME
 

Stefan Zweig

L'ETÀ D'ORO DELLA SICUREZZA

LA CULTURA A VIENNA

 

Crocicchio dell'Opera a Vienna 1876. Acquarello di Rudolf Alt. Sopra, Johann Strauss padre [disegno di Berndt].
Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. I diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto, per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo, ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione.
Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune di milioni e milioni. La vita pareva degna di esser vissuta soltanto con tale sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia dei desiderosi di partecipare a quel bene prezioso. Dapprima furon solo i possidenti a compiacersi del privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza divenne anche l'età d'oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la casa contro l'incendio e il furto, la campagna contro la grandine e i temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie, si acquistavano pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe regolate e le casse malattia, mentre i domestici si preparavano coi risparmi un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano in anticipo un obolo per i propri funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire senza preoccupazioni, godeva il presente in tutta tranquillità.
In questa commovente fiducia, di poter chiudere anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa. L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso «il migliore dei mondi possibili». Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un «progresso» ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una religione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienza e della tecnica.
In realtà, sulla fine di questo secolo di pace l'ascesa generale si fece sempre più rapida e molteplice. Nelle strade splendevano di notte al posto delle tremolanti lanterne le lampade elettriche, i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro splendore seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da lontano, già si poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate, già l'uomo si lanciava nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono dalle dimore signorili a quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua dal pozzo o dal ballatoio, non più accendere con pena il fornello. Si diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano più belli, più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre più raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano stati compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale si andava avanti; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti all'individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più insuperabile. Il diritto di voto venne concesso ad una cerchia sempre più vasta e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi; sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e persino più felice l'esistenza del proletariato... Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo cosl a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi. [...]
Non vi era forse città europea in cui l'aspirazione alla cultura fosse appassionata come a Vienna. Appunto perché la monarchia austro-ungarica mancava da secoli di ambizioni politiche e non aveva avuto particolare successo nelle sue azioni militari, l'orgoglio patriottico si era intensamente rivolto al desiderio di un predominio artistico. L'antico impero absburgico, una volta dominatore dell'Europa, aveva da tempo perduto preziose e importantissime province tedesche e italiane, fiamminghe e vallone; era rimasta intatta nel suo splendore la capitale, sede della Corte, conservatrice di una tradizione millenaria. I romani avevano erette le prime pietre di quella città quale castrum, quale posto avanzato a proteggere la cultura latina dai barbari, e più di mille anni dopo l'impeto degli Osmani si era infranto contro quelle mura. Qui erano passati i Nibelungi, lì aveva mandato la sua luce immortale la settemplice costellazione di Gluck, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms e Johann Strauss; qui avevano confluito tutte le correnti della cultura europea. A Corte, fra la nobiltà e fra il popolo, l'elemento tedesco era unito per sangue a quello slavo, ungherese, spagnolo, italiano, francese, fiammingo ed era la vera genialità di questa città musicale il saper fondere armonicamente questi contrasti in qualcosa di nuovo e caratteristico, nell'elemento austriaco e viennese. Questa città assimilatrice e dotata di una particolare sensibilità attirava a sé le forze più disparate, pacificandole e ammorbidendole era dolce vivere in quell'atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino senza averne coscienza veniva educato ad essere supernazionale e cosmopolita. [...]
 

 

Era splendido vivere in quella città pronta ad accogliere ospitalmente ogni cosa straniera e a prodigarsi generosamente, era più naturale godere la vita nella sua aria lieve, pervasa, come quella parigina, di serenità. Vienna era, tutti lo sanno, una città gaudente, ma che cosa è la cultura se non trarre con le lusinghe dell'arte e dell'amore dalla materia grossolana della vita ciò che essa ha di più bello, di più tenero e raffinato? In questa città, dove si era buongustai in senso culinario e molto ci si occupava di un buon vino, di una birra frizzante, di ghiotti dolci e torte, si era poi pretenziosi anche in altri e più sottili godimenti. Far della musica, ballare, recitare, comportarsi con gusto e cortesia costituiva a Vienna una vera arte. Non la vita militare, politica o commerciale era preponderante per il singolo come per la massa il primo sguardo del medio viennese al giornale non era rivolto alla discussione della Camera o agli eventi politici, bensì al teatro, il quale assumeva nella vita pubblica un'importanza appena comprensibile in altre città.
Il teatro imperiale infatti, il Burgtheater, era per i viennesi e per gli austriaci tutti ben più che un palcoscenico dove attori interpretavano opere drammatiche, esso era il microcosmo rispecchiante il macrocosmo, il variegato riflesso di una società, l'unico vero «Cortegiano» per il buon gusto. L'attore di Corte mostrava allo spettatore il modo di vestirsi, di entrare in una camera, di conversare, gli insegnava le parole lecite a un uomo di buon gusto e quelle invece da evitarsi; la scena non era soltanto luogo di divertimento, ma anche guida parlata e plastica del buon contegno, della miglior pronuncia, così che un nimbo di rispetto circondava al pari di aureola tutto quanto avesse anche i più remoti rapporti col Teatro di Corte. [...]
Questo fanatismo per l'arte, e in particolare per il teatro, a Vienna era comune a tutte le classi sociali. Vienna per sua tradizione secolare era una città ben chiaramente stratificata, ma in pari tempo mirabilmente orchestrata. Il podio apparteneva pur sempre alla casa imperiale. La reggia era il centro non soltanto per la ubicazione, ma anche in senso culturale, per la supernazionalità della monarchia. Attorno a quella rocca i palazzi dell'alta aristocrazia austriaca, polacca, ceca e ungherese formavano in certo modo il secondo bastione. Poi veniva la «buona società» costituita dall'aristocrazia minore dagli alti funzionari, dall'industria e dalle «vecchie famiglie», e dopo d'essa seguivano i piccoli borghesi e il proletariato. Tutti questi strati vivevano chiusi in se stessi e con i propri quartieri, l'alta nobiltà nei palazzi del centro, la diplomazia nel terzo rione, l'industria e i commercianti accanto al Ring, la piccola borghesia nei rioni interni, dal secondo al nono, il proletariato alla periferia. Ma tutte le classi si incontravano e si fondevano a teatro e nelle grandi festività, come per esempio al corso dei fiori lungo il Prater, dove trecentomila persone acclamavano entusiaste gli equipaggi adorni dei «diecimila privilegiati». A Vienna tutto quello che portava con sé colori o musica diventava ragione di festa le processioni religiose come quella del Corpus Domini, le riviste militari, la «Burgmusik»; persino ai funerali accorreva la folla ed era ambizione di ogni autentico viennese assicurarsi una bella sepoltura con fastoso corteo e molta gente; il viennese trasformava così anche la propria morte in uno spettacolo per il pubblico. In questa sua simpatia per suoni, colori e feste, in questo suo amore allo spettacolo quale specchio della vita, non importa se sul palcoscenico o nella realtà, Vienna non aveva eguali.
Non era certo difficile ridere della teatromania viennese, la quale in realtà degenerava talvolta nel grottesco andando a spiare anche le più trascurabili vicende private dei suoi beniamini, e può darsi che in parte la nostra indolenza austriaca nel campo politico, la nostra lentezza in quello economico, nel confronto con l'energico impero germanico, sia in parte da ascriversi a simili eccessi da gaudenti. Dal punto di vista culturale però questa supervalutazione dell'avvenimento artistico ha provocato un fenomeno unico, l'inaudito rispetto per ogni manifestazione d'arte, e di qui, nel secolare esercizio, una competenza incomparabile e in grazia di essa alla fine un altissimo livello in tutti i campi estetici. Un artista si sente meglio a suo agio e più vivamente ispirato là dove lo apprezzano o anche lo supervalutano. L'arte raggiunge sempre la sua vetta là dove diviene ragion di vita per tutto un popolo. [...] Mentre nel campo politico, amministrativo, morale tutto procedeva con una certa indifferenza e non ci si scomponeva per ogni trascuratezza e si indulgeva ad ogni peccato, in cose d'arte vigeva l'inesorabilità in esse era in gioco l'onore della città.
Ogni cantante, ogni artista, ogni musicista doveva fare ininterrottamente il suo maggiore sforzo o era perduto. Era meraviglioso essere uno di quei beniamini a Vienna, ma non era facile rimanerlo, giacché nessuna stanchezza veniva perdonata Appunto la coscienza della continua e spietata vigilanza del pubblico costringeva ogni artista alla massima attenzione e conferiva all'insieme un meraviglioso livello. Ognuno di noi viennesi di quegli anni giovanili ha conservato per tutta la vita una misura severa e inesorabile per le interpretazioni artistiche. Chi ha conosciuto la ferrea disciplina che regnava anche nei minimi particolari all'Opera con Gustav Mahler, il misto naturale di slancio e di raffinatezza dei Filarmonici, è oggi difficilmente soddisfatto di una esecuzione teatrale o musicale. Con ciò però abbiamo anche imparato a essere severi verso noi stessi; ci rimase di esempio un livello quale in poche città del mondo poté essere mantenuto per i giovani artisti. Questa relativa competenza giungeva sino al popolo, giacché anche il borghesuccio seduto all'aperto col suo bicchier di vino esigeva buona musica dall'orchestrina, come buon vino dall'oste; al Prater d'altra parte il popolino sapeva esattamente quale delle bande militari avesse maggiore slancio, se gli ungheresi o i tedeschi; chi insomma viveva a Vienna respirava nell'aria il senso del ritmo. Come la musicalità si manifestò in noi scrittori con una prosa particolarmente accurata, il senso del ritmo si impose in altri nelle quotidiane forme di vita. Era impensabile un viennese della cosiddetta buona società che non avesse senso d'arte e compiacenza estetica, non solo, ma persino nelle classi inferiori i più poveri attingevano almeno dal paesaggio un certo istinto per la bellezza e non si poteva essere autentico viennese senza tale amore per la cultura, senza tale comprensione critica e insieme gaudente per le più sacre superfluità della vita.
L'adattarsi al popolo o al paese dove vivono non è per gli ebrei soltanto una misura esteriore di protezione, ma un profondo bisogno interiore. È la loro nostalgia di patria, di pace, di riposo, di sicurezza che li spinge a unirsi con passione alla civiltà da cui sono circondati In nessun luogo forse - fuorché nella Spagna del Quattrocento - tale alleanza fu così felice e feconda come in Austria. Stabilitisi da più di due secoli nella capitale, gli ebrei vi trovarono un popolo sereno e conciliante, capace sotto le apparenze spensierate dello stesso profondo istinto per quei valori intellettuali ed estetici che erano tanto importanti anche per loro stessi. Trovarono anche di più a Vienna un proprio compito personale. Nel corso dell'ultimo secolo l'arte aveva perduto in Austria i suoi antichi tradizionali protettori la casa imperiale e l'aristocrazia. Mentre nel Settecento Maria Teresa faceva insegnar musica alle figlie da Gluck, mentre Giuseppe II discuteva da conoscitore con Mozart le di lui opere e Leopoldo III si dilettava a comporre, gli imperatori successivi, Francesco II e Ferdinando, non ebbero più interesse a cose artistiche e il nostro sovrano Francesco Giuseppe, che nei suoi ottant'anni di vita non ha mai letto o anche solo preso in mano un libro all'infuori dei manuali militari, dimostrava persino una spiccata antipatia per la musica. Anche la nobiltà aveva rinunciato al proprio compito di mecenatismo; passati erano i tempi gloriosi in cui gli Esterbázy ospitavano Haydn; i Lobkowitz, i Kinsky e i Waldstein andavano a gara per avere nei loro palazzi le prime esecuzioni di Beethoven; i tempi in cui una contessa Thun si prosternava ai piedi del grande dèmone, scongiurandolo di non ritirare dall'Opera il suo Fidelio. Già Wagner, Brahms e Johann Strauss ed Hugo Wolf non trovarono più in loro il minimo appoggio; per serbare i concerti filarmonici all'antico livello, per rendere possibile un'esistenza ai pittori e agli scultori, dovette intervenire la borghesia e fu orgogliosa ambizione appunto della borghesia ebraica collaborare in prima linea per conservare nel suo antico splendore la gloria della cultura viennese. Gli ebrei avevano sempre amato la città, vi si erano acclimatati sia nel più intimo dell'anima, ma soltanto attraverso il loro amore per l'arte si sentivano legittimati e divenuti autentici viennesi. Nella vita pubblica non esercitavano fuori dell'arte che scarsa influenza; lo splendore della Corte metteva in ombra ogni ricchezza privata, le alte cariche statali eran riserbate a gruppi ben definiti, la diplomazia agli aristocratici, l'esercito e gli uffici superiori alle antiche famiglie, né gli ebrei tentavano di insinuarsi per ambizione in questi ambienti privilegiati. Rispettavano anzi con molto tatto i privilegi tradizionali [...]
Solo in faccia all'arte tutti a Vienna sentivano gli stessi diritti, perché l'amore per l'arte era considerato un dovere comune e fu perciò incommensurabile la parte che là borghesia ebraica ha avuto nell'aiutare e nel favorire la cultura viennese. Gli ebrei costituivano il vero pubblico, riempivano i teatri, le sale di concerto, compravano i libri, i quadri, frequentavano le esposizioni e dovunque con la loro comprensione più agile, meno inceppata dalla tradizione, divenivano i fautori e i precursori di ogni novità. Quasi tutte le grandi raccolte d'arte dell'Ottocento furono formate da loro, quasi tutti i tentativi artistici da loro resi possibili. Senza l'incessante stimolo dell'interessamento ebraico Vienna, per l'indolenza della Corte, della nobiltà e dei milionari cristiani, che preferivano tenere cavalli da corsa e riserve di caccia, sarebbe rimasta anche artisticamente al disotto di Berlino, così come l'Austria era politicamente preceduta dalla Germania. Chi a Vienna voleva imporre qualcosa di nuovo, chi venendo di lontano chiedeva a Vienna attenzione e largo pubblico, doveva rivolgersi alla borghesia ebrea; quando un'unica volta, nel periodo dell'antisemitismo, si tentò di fondare un cosiddetto teatro «nazionale», non si trovarono né gli autori, né gli attori, né gli spettatori; dopo pochi mesi il teatro «nazionale» si spense miserevolmente, e proprio da quell'esempio fu per la prima volta ben chiaro che i nove decimi di quanto il mondo celebrava come cultura viennese dell'Ottocento era una cultura sostenuta, nutrita e persino in parte creata dagli ebrei di Vienna.
Appunto in quegli ultimi anni [...] gli ebrei viennesi divenuti artisticamente produttivi, se pure per nulla affatto in modo specificamente ebraico, bensì dando con un miracolo di assimilazione l'espressione più intensa allo spirito austriaco e viennese, Goldmark, Gustav Mahler e Schönberg divennero nomi internazionali nella musica creativa; Oscar Strauss, Leo Fall, Kalman portarono a nuova fioritura la tradizione del valzer e dell'operetta; Hofmannsthal, Arthur Schnitzler, Beer-Hofmann, Peter Altenberg conferirono rango europeo alla letteratura viennese, come non l'aveva avuto neppure ai tempi di Grillparzer e di Stifter; Sonnenthal e Max Reinhardt rinnovarono nel mondo intero la fama della città teatrale; Freud e le grandi figure della scienza richiamarono gli sguardi sull'antica e gloriosa università. Dovunque insomma, come eruditi o virtuosi, come pittori o registi, architetti o giornalisti, essi tennero indiscussi alte e altissime posizioni nella vita intellettuale viennese. Si erano ormai completamente assimilati col loro amore appassionato per la città, con la loro volontà di adattamento ed erano felici di servire la gloria dell'Austria; sentivano il proprio austriacismo come una missione di fronte al mondo e - conviene ripeterlo per amore di verità - una buona parte, se non la massima, di quanto l'Europa e l'America ammira oggi nella musica, nella letteratura, nell'arte applicata, nel teatro, quale espressione di un risveglio culturale austriaco, è stato creato dagli ebrei di Vienna i quali, così prodigandosi, raggiunsero il più alto frutto del loro millenario istinto intellettuale.
Un'energia spirituale rimasta per secoli senza uscita si alleò qui a una tradizione già un poco stanca, la nutrì, la ravvivò, la accrebbe e la ringiovanì con nuova energia e con instancabile vivezza solo i prossimi decenni dimostreranno quale delitto contro Vienna sia stato perpetrato cercando di nazionalizzare e provincializzare con la violenza questa metropoli, la cui civiltà e la cui ragion d'essere stavano appunto nel convergere degli elementi più eterogenei, nella sua supernazionalità spirituale. Il genio di Vienna infatti, un genio specificamente musicale, aveva sempre armonizzato in sé tutti i contrasti etnici e linguistici, facendo della propria cultura una sintesi di tutte le culture occidentali. Chi viveva a Vienna si sentiva libero da ogni angustia e pregiudizio; in nessun altro posto era più facile essere un europeo e io so di andare debitore in buona parte a questa città [...] se ho precocemente imparato ad amare l'idea della fraternità come la più alta nel mio cuore.
Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna e i tedeschi del nord guardavano noi vicini del Danubio con un poco d'irritazione e di disprezzo, perché invece di essere «attivi» e di tenere un rigido ordine, godevamo la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo a feste e teatri e per di più facevamo ottima musica. Invece della famosa abilità ed attività tedesca, che ha finito per amareggiare e per turbare l'esistenza di tutti gli altri paesi, invece di questa cupida smania di sorpassa re tutti gli altri e di correre avanti, a Vienna si amavano le placide chiacchierate, i comodi incontri, lasciando che ognuno vivesse a modo suo, con indulgenza bonaria e forse un po' pigra.
«Vivere e lasciar vivere» era il celebre motto viennese, una massima che ancor oggi mi sembra più umana di tutti gli imperativi categorici e che si diffuse irresistibilmente in tutti gli ambienti. Poveri e ricchi, slavi e tedeschi, ebrei e cristiani vivevano insieme, pur punzecchiandosi all'occasione, in buona pace e persino i movimenti politici e sociali eran privi di quell'animosità crudele che è penetrata nella circolazione sanguigna del mondo come un sedimento velenoso rimasto dalla prima guerra mondiale. Nella vecchia Austria ci si combatteva ancora cavallerescamente, ci si insultava nei giornali o alla Camera, ma dopo le concioni ciceroniane gli stessi deputati sedevano in compagnia bevendo la birra o il caffè e dandosi del tu. [...]
Stefan ZWEIG, «Il Mondo di Ieri. Ricordi di un Europeo», Milano, Oscar Mondadori, 1979, pp. 17-29.
HOME