IN ATTESA DELLA CRONOLOGIA... 


LA BIOGRAFIA DI GUIDO GUERRINI

IN TERRA D'ESILIO

Ma CFR: SOPRATTUTTO LA
RICOSTRUZIONE DI QUESTO SPEZZONE BIOGRAFICO DI LAURETO RODONI

Non avendo trovato possibilità di sistemazione in Patria, e d'altra parte repugnando [del tutto falso, n.d.c.] a lui italiano di continuare a vivere in Germania, Busoni non vide altra via di scampo che rifugiarsi in terra neutrale; e fra i pochi Paesi ancora estranei al conflitto, scelse la Svizzera, come quella che gli offriva più probabili la tranquillità e il lavoro. Non già che il Maestro sentisse attrazione per le bellezze naturali di quel Paese (il Busoni non ha mai sentito la poesia dei campi e quella elvetica sarebbe stata, semmai, troppo oleografica per i suoi gusti), ma optò per la Svizzera soltanto perché lassù sperava di trovare quell'isolamento spirituale di cui «gli sembrava» di aver tanto bisogno. E diciamo «gli sembrava», perché poi, in fondo in fondo, la vera attrazione della Svizzera era invece costituita per lui dal fatto che essa era divenuta un affollatissimo centro internazionale. E Busoni si sente a suo agio soltanto se a contatto con uomini di lingua, di abitudini, di latitudini diverse. Il conversare in quattro o cinque lingue, su argomenti che trattino soltanto di cose dello spirito, senza barriere di confine, senza limitazioni o restrizioni, ha sempre costituito per Busoni il più profondo godimento.
In Isvizzera il suo nome è ben conosciuto. Ma egli non spera di trovarvi né amici né ammiratori. Giunto invece a Zurigo verso la fine di ottobre, vi è accolto con ogni deferenza e anche là gli si forma presto d'intorno una piccola corte di seguaci, in massima parte giovani. Affitta una villetta sulla collina in vista del Lago e vi si ritira per annegare nel lavoro il disgusto accumulato durante il soggiorno statunitense, e soverchiare il disagio morale che gli danno il forzato esilio e gli orrori della guerra. Lavora alla partitura di «Arlecchino» e all'edizione di Bach: «Che cosa può sopravivere alla guerra, se non l'arte?».
Fra i pochi amici, fedelissimo e devoto gli fu in quel tempo il Dottor Volkmar Andreae, direttore dell'orchestra Municipale di Zurigo, il quale, figlio di madre italiana ma di cultura solidamente germanica, poteva come pochi comprendere ed amare il Maestro, che gli ricambiava amicizia e stima. Andreae, uomo di elettissimo spirito e dispregiatore di ogni meschina vanità personale, aveva dedicato tutto se stesso all'elevazione spirituale del suo Paese.
Egli offrì subito al Maestro piena collaborazione, sì che in gennaio Busoni potè tenere il suo primo concerto con l'orchestra, diretta dallo stesso Andreae, eseguendovi il Concerto in mi bem. di Beethoven, la «Fantasia indiana» e la «Todtentanz» di Liszt. Essendo poi l'Andreae richiamato alle armi, volle che fosse il Busoni a sostituirlo nella direzione dei concerti d'abbonamento. Così che il Maestro si trovò nuovamente a capo di una grande orchestra e di una importante istituzione di concerti.
Nel febbraio [
1916] inizia il suo lavoro direttoriale con un concerto dedicato interamente a composizioni sinfoniche di Liszt: i «Preludi», il Concerto in la min. (esecutore Egon Petri), il «Faust». Meno divertenti per lui i concerti che seguirono (i programmi erano stati fissati in precedenza), dovendo dirigere il Concerto per violino di Ciaikowsky (che non gli era simpatico), l'Addio di Wotan («Oh questi eroi, come dice Heine, che hanno il coraggio di cento leoni e il cervello di due scimmie»), la «Sinfonia Italiana» di Mendelssohn (una delle poche composizioni romantiche rimaste ancora nella simpatia del Maestro), il «Rondò arlecchinesco», l'«Eroica», ecc.
(Fra parentesi. A proposito dell'«Eroica» troviamo una strana lettera a Egon Petri, la quale ci rivela come, dopo tanto sconfinato amore pel grande di Bonn, sorgesse ora sulla sua opera qualche punta di dubbio. Eccola:

L'atteggiamento latino rispetto all'arte, con la sua fredda serenità e la sua insistenza sul rispetto della forma, mi rinfresca. Fu soltanto con Beethoven che la musica acquistò quell'espressione brontolona e accigliata che era sì abbastanza naturale alla sua persona, ma che forse avrebbe dovuto rimanere nell'orbita della sua solitudine. [- Perché siete di così pessimo umore? - vien fatto spesso di chiedergli, specialmente nel secondo periodo]).

Dopo i concerti orchestrali, il Maestro tenne quattro concerti pianistici, dedicati rispettivamente a Bach, Beethoven, Chopin, Liszt, ribadendo in tal modo la norma di dedicare le sue virtù d'interprete all'arte e alla cultura, e non più al vano virtuosismo.
Nel maggio, una corsa in Italia, per dirigere un concerto all'Augusteo, riapre le antiche piaghe. - «Soltanto due giorni fa mi pervenne il resoconto della 'Tribuna' sul Concerto diretto da me all'Augusteo. Esso rivela ben poca benevolenza; e se anche volessi consolarmi con l'ignoranza evidente che traspare dall'articolo, pure ciò non varrebbe a cancellare l'ovvia mala intenzione di chi lo scrisse... È ingiusto il maltrattarmi così!» - (Lettera ad A. Serato, 12 maggio 1916).
A ritemprarsi e a rasserenarsi [del tutto errato, n.d.c.], nell'estate, dal giugno in poi, il Maestro fu ospite, a San Remigio di Pallanza, del marchese Silvio della Valle di Casanova, uomo di bella cultura che si era avvicinato al Maestro attraverso certi manoscritti inediti di Liszt che erano in suo possesso. Era pure ospite di San Remigio Umberto Boccioni; così che una più calda e aperta amicizia si riaccese fra i due artisti, che passarono in intimità spirituale quasi un mese, durante il quale il Boccioni fece il ritratto al Maestro.
Questa gioia però ebbe breve luce, ché il pittore, richiamato alle armi nel luglio, morì nell'agosto al fronte, cadendo da cavallo. E mentre i giornali italiani e svizzeri parlarono di lui, esaltando più l'eroe che l'artista (del quale ben pochi avevano compreso il genio), Busoni, nel suo profondo dolore, tessé nella «Neue Zürcher Zeitung» l'elogio funebre dell'amico scomparso, rendendo di pubblica ragione una delle sue ultime lettere dal fronte.

Posso soltanto ringraziarti per avermi dato il coraggio di sopportare questa spaventevole esistenza... Dopo una tale prova, io terrò in totale disprezzo tutto ciò che non sia la mia arte. Nulla è più terribile che l'arte. Tutto ciò che io sto facendo ora è nulla al confronto di una giusta pennellata, o di un'armoniosa linea di versi, o di un appropriato accordo...

Come si vede, al disopra dell'eroe era in Boccioni l'artista, e l'averne trascurato l'essenziale aspetto aveva indignato il Maestro, che detestava le impertinenze e le ipocrisie della stampa.
Egli stesso, del resto, da qualche tempo ne era vittima. Non appena giunto in Isvizzera, si cominciò a vociferare che egli avesse presa la cittadinanza elvetica. Pochi mesi dopo, uno scritto del Direttore del Teatro de la Monnaie di Bruxelles dava la falsa notizia, sul «Journal de Genève», che Busoni aveva tenuto un Concerto a Bruxelles per desiderio dell'autorità tedesca. L'amico Da Motta smentiva la cosa, in lettera aperta sullo stesso giornale, ma ormai la calunnia aveva preso il vento e raggiungeva i giornali italiani. Busoni, pur non degnando di intervenire personalmente in tale ignobile fangaio, scrisse a Émile Blanchet di Losanna una lettera in cui non solo l'amarezza è mal contenuta, ma da cui trasuda un giustificato sdegno.

Tutto il mondo è paese. Ovunque si trovano difetti, ovunque si trovano - volendo - qualità. Tutte le Nazioni, prese in massa, sono antipatiche (sì, tutte!), ma ciascuna produce personalità «d'eccezione». Per questa sola e importantissima ragione mi sembrerebbe miserevole cosa cambiare la nazionalità, dacché non è ancora stato provato che qualcuna (tutte comprese) sia meglio delle altre. Per ciò io «non» mi sono fatto svizzero e voi potete fare questa smentita a Parigi se la gente dà a ciò così grande importanza. È già abbastanza esser nati con una nazionalità appiccicata sulla schiena!

Penso però - scrive al Philipp - che la mia arte si sia affinata e che essa esprima tutto ciò che «di buono» rimane dentro di me.

Tutto questo episodio, malignamente gonfiato, deformato, falsato, e la lettera riportata, acuirono le accuse di antitalianità che già in precedenza erano state mosse a Busoni. [...]


TURANDOT

In agosto Arlecchino è finito e se ne progetta l'esecuzione al Teatro dell'Opera di Zurigo. Ma questo Capriccio in un solo atto non basta a far serata e occorre abbinarlo con altra opera. Il Maestro allora, per risparmiare al pubblico l'ambiguità di uno spettacolo con la musica di due autori diversi e a sé il disagio inevitabile in certi accostamenti, pensa di sviluppare la musica di «Turandot» e trarre, dalla Suite, un'opera di teatro. Di tutta la produzione di Ferruccio Busoni, questa fu certo l'opera che gli costò minor fatica e gli procurò più lieta gioia di creatore. In cento giorni le trecento pagine della partitura furono compiute, e la fantasiosa vicenda gozziana ne uscì rivestita di musica fresca, scorrevole, vivace, italianissima. E il fenomeno più strano è che quest'opera, composta in esilio, durante l'incubo della guerra e nel periodo forse più nero di tutta l'esistenza del Maestro, rechi invece i segni di una giocondità e serenità mai prima apparse nell'arte sua, nemmeno nei momenti della sua più felice esistenza.
Il che ci prova come il cervello dell'artista sia un congegno imperscrutabile dal quale nascono, si formano e prendono vita e anima fantasmi e giochi che nessun rapporto hanno col mondo esteriore; e come non sia possibile giudicare dall'opera lo stato d'animo del creatore.
L'insieme di questi due lavori forma una specie di «Commedia dell'arte», in cui la fantasia si alterna alla realtà, la umanità alla caricatura, la fiaba alla satira. E dalla «Commedia dell'arte» sono ispirati, come forma, spirito e andamento, anche i due libretti, opera dello stesso Busoni. La prima rappresentazione ha luogo l'
11 maggio 1917.
L'accoglienza fu calorosa e le due opere ebbero poi molte riprese sui teatri tedeschi, vivo e morto l'autore. Dovevano però trascorrere ancora 24 anni perché esse fossero eseguite in Italia. Ed è proprio ad «Arlecchino» e a «Turandot» che si deve se il nome di Ferruccio Busoni, circoscritto finora al solo ambito della letteratura pianistica, va, anche nella sua Patria, conquistandosi, gradino per gradino, un'alta cima di dominio.
L'esistenza statica e monotona di Zurigo diviene intanto ogni giorno più deleteria per l'animo del grande giramondo: Il 1° aprile 1916, suo cinquantesimo anniversario, facendo come al solito il bilancio dell'opera compiuta e di quella da compiere, sembra al Maestro che la sua vita sia stata gettata inutilmente e che ormai sia troppo tardi per compiere la grande massa di lavoro che ancora gli lievita dentro. Sebbene circondato da buoni amici, il Maestro si sente solo perché isolamento gli sembra il non vivere in grandi metropoli. Si sente inutile, seppure in fervida attività, perché il vivere gli appare vano quando non sia in perpetua comunione spirituale con fluttuanti moltitudini.—« Ho nostalgia delle grandi città!» scrive al Philipp. Gli sono offerte lezioni; gli viene proposta ancora una Classe superiore di pianoforte, ma egli non regge ormai più a guidare i giovani lungo quello spinoso cammino ch'egli stesso ha dovuto così faticosamente percorrere. Perfino assidersi dinanzi al pianoforte perché le mani non arrugginiscano, gli costa indicibile sforzo; e i suoi concerti si fanno sempre più rari.
La guerra gli pesa sull'animo e gli rende penoso anche il lavoro.
[Dalla fotografia di quel tempo è evidente il suo deperimento generale, pel quale egli stesso, scrivendo alla moglie, diceva: «Vedi come tre anni di guerra hanno consumato un uomo».]
Al principio del
1917, Da Motta è chiamato a dirigere il Conservatorio di Lisbona, così Busoni perde l'amico e tenta di colmare il vuoto circondandosi ancora una volta di giovani. La sua modesta casa, come già l'appartamento di Berlino, diviene a poco a poco cenacolo di discepoli intorno al Maestro. Fra i più devoti è Filippo Jarnach, figlio di un pittore spagnolo ma di scuola francese, che Busoni chiama il proprio «famulus» e che diverrà poi allievo, collaboratore e continuatore dell'opera del Maestro.
Jarnach vive al suo fianco, riduce per canto e pianoforte le partiture dell'«Arlecchino» e di «Turandot»; segue passo passo il nascere e lo svilupparsi del «Dottor Faust». Ma un altro fedelissimo compagno è inseparabile del Maestro: Giotto, un superbo San Bernardo. I due formano un caratteristico gruppo che tutti gli zurighesi ormai conoscono, e che percorre ogni sera, verso il tramonto, la Bahnhofstrasse che conduce alla Stazione ferroviaria.
La Stazione è divenuta meta quotidiana del Maestro; spesso vi rimane ore intere ad osservare, assorto e accigliato, arrivi e partenze di treni. Spesso, allo stesso Ristorante della Stazione, si riunisce agli amici e ai discepoli per stordire, magari con un bicchier di vino, la debilitante nostalgia.
Lavora al «Faust» [Il 29 settembre 1917 B. scrive a Gerda: «Proprio in questo momento, appena terminata la colazione, ho scritto l'ultima battuta della prima scena della mia quarta Opera («Dottor Faust»). Ora però debbo rivolgere la mia mente a qualcos'altro, che più urge in questo momento».], ma, come già per le altre opere, alterna la grande concezione con lavori di minor mole, che gli danno riposo e respiro. Compone così quella deliziosa raccolta di esercizi e studi per pianoforte, pubblicata sotto il titolo di «Klavierübung». Gemmata collana di ingegnose combinazioni pianistiche, nate certamente sotto le dita e per le dita, ma densa di trovate armoniche e ritmiche, che rendono quest'operetta interessante anche ai non virtuosi e che, specialmente con certi studi, offre la chiave di volta per la comprensione di alcune delle più ardite conquiste armoniche di composizioni maggiori. Dello stesso carattere e periodo (fine del 1917) è pure quel gioiello della «Sonatina in diem nativitatis Christi», che vorremmo più conosciuta e maggiormente eseguita, non foss'altro a riconoscimento dei meriti di pioniere che Ferruccio Busoni ebbe nelle conquiste della musica contemporanea.

Anche il
1918 trascorre così pel Maestro in una malinconia sempre più profonda, che nemmeno il lavoro riesce ad alleviare. Si sente solo. Possibile che perfino gli amici lo abbiano abbandonato? Le sue lettere di quel tempo sono pesanti e tristi; l'animo, in passato così fanciullesco e primaverile, è ora sommerso da un cupo pessimismo. Il corrispondere con gli amici che faceva prima il suo più lieto ristoro, gli è divenuto penoso, perché lo irrita il pensiero che un'altra persona, quella dell'ignoto censore, si frapponga fra il suo pensiero e quello dell'interlocutore. Tiene rari [errato, n.d.c.] concerti nelle principali città della Svizzera, e cerca nel lavoro alla partitura di «Faust» qualche tregua all'incubo della guerra.
L'armistizio (novembre 1918) dà al mondo un momento di sollievo. [...] Ferruccio Busoni, con lungimiranza acutissima, già prevede (lettera al marchese Casanova) che la disfatta militare tedesca sarà il segnale per la resurrezione della Germania; la rivoluzione renderà finalmente libere quelle anime già troppo a lungo condannate al silenzio.