Arnolfo Santelli

ITALIANITÀ

STRANIERO IN ITALIA

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Busoni nasce da italiani e, nonostante i lunghi e anche felici soggiorni all'estero, resta essenzialmente con lo spìrito genuino col quale era nato: seguita cioè a sentire e ad agire italianamente perfino nelle sfumature, come quando dimostra il suo umorismo tutto ottimista, toscano e italiano al cento per cento, che ricorda come sappiano ridere i nipoti di Giovenale e di Boccaccio o del Berni e del Giusti. «A Lipsia c'è edito Palestrina completo, scrive al musicista F. Boghen, lamentando la mancanza italiana di edizioni musicali, dunque il vostro Marcello non solo mi è giunto Benedetto, ma anche Benvenuto» [«F. Busoni da Empoli»]. «Si conservi e non pensi alla barba che diventa grìgia. Se se la tagliasse? Non sarebbe più grigia» [idem].

Certi italiani mi tacciano di rinnegato [asserisce poi nello stesso opuscolo]. Ciò che è curioso è che io sento più italianamente di loro. Se ne accorgeranno forse quando, con la mia esistenza fisica, cesserà il pericolo morale che per loro sta nella mia severità artistica. Io sono un'avversario delle teorie nazionali in musica. Però faccìo un'eccezione per la nostra amatissima Italìa. Io sono italiano e toscano puro sangue; mio padre era empolese, mia madre poi era italianissima, anzi doppiamente italiana, perchè nata a Trieste da genitori veneti.
Sono profondamente contento di trovarmi a tavola dopo tanto tempo con tutti italiani.
Vorrei poter dare all'Augusteo un grande concerto di musiche italiane, a partirsi dal glorioso Palestrina. La nostalgia del mio paese assume un'importanzia quasi eroica nella mia tarda esistenza.

Rispondendo il 15 aprile del 1913 al Sindaco d'Empoli che l'aveva invitato a dare un'audizione empolese:

Profondamente grato a Lei, agli altri egregi rappresentanti del Comune ed altri cortesi, che con gentile pensiero vollero esprimere lusinghiero voto pari al mio desiderio, che mi auguro potere un giorno esaudire, porgo a Lei ossequi mentre rivolgo con antico e sempre vivo affetto un riverente saluto alla mia terra natale.

E ora, dopo aver sentito lui, sentiamo che cosa dicono gli altri di lui:

Empoli sente il dovere di affermare altamente, non solo per sè ma per la Patria nostra, l'italianità di Ferruccio Busoni [afferma F. Pandolfi nella prefazione al citato libretto]. Mai spirito più nobile, scrive nel 1930 Dino Brogi nella sua commemorazione di G. Fabiani parlando di Busoni, sofferse più profonda nostalgia di quella che amareggiò tutta la vita di questo grande incatenato dalla sorte alla lontananza d'una Patria infinitamente adorata.

«C'è tutta una stupidissima leggenda da sfatare e tutta una magnífica verità da spolverare e da scoprire in una qualche pagina della storia del nostro tempo» scrive Gaianus, a proposito delle calunnie mosse a Busoni sulla sua italianità, nel «Resto del Carlino», del 25 gennaio 1927. «Leggenda da ripudiare una volta per sempre, rincalza il «Carlino» del 3 marzo 1930. Busoni fu di anima, di coscienza, di fede, di vita profondamente italiano». «Sia un'altra volta ripetuto, e sempre ad onor del vero, soggiunge T. Fracassini, nei «Musicisti empolesi», che se Busoni dovette tutta la sua carriera artistica e il suo avvenire glorioso alla Germania, la stolta leggenda d'una deplorata germanizzazione in lui, nel significato anche patriottico che gli si volle attribuire, nacque purtroppo in Italia e si sparse all'estero per malevola invidia di chi tentò offuscare nel principe dei pianisti moderni la meravigliosa maestria e la sua gloria mondiale».
Anche il Ministro Balbino Giuliano, nel discorso su Busoni, tenuto a Bologna il 3 marzo 1930, polemizzando a proposito di questa calunnia, afferma che «vuol parlare precisamente per smentire questa leggenda che può sempre trovare qualcuno che ama l'ambiguo». E dopo aver riaffermato che la musica italiana ha sempre trovato nella musica tedesca un'intima collaborazione, conclude inneggiando al Busoni come «ìtalianissimo spirito» («Resto dei Carlino», 3 marzo 1930).
«Amava intensamente l'Itafia, testimonia fra l'altro F. Vatielli. Era entusiasta dei nostri poeti, dei pittori nostri. Ricordo con quanta commossa gioia mi faceva vedere la prima edizione delle poesie di Leopardi... Quando mostrava qualche bella pubblicazione uscita da Case straniere, soleva dire: «Anche in Italia, se si volesse, si saprebbe fare altrettanto» («Resto del Carlino», 27 luglio 1924). «L'ho sempre sentito professare il culto più devoto della Patria» attesta F. Boghen [«Ferruccio Busoni da Empoli»]. «Se poco visse in Italia, egli rimase nondimeno sempre italiano di mente e di cuore, scrisse A. Casella. Io posso, come qualsiasi amico suo, testimoniare che egli ebbe un passaporto italiano sino alla morte. Busoni adorava l'Italia e aspirava continuamente di poterci vivere» [«Il pianoforte»].
E Guido M. Gatti, studiando la personalità e l'arte italiane di Busoni, asserisce che egli «fu e rimase sempre italiano, e sino agli ultimi giorni della sua vita, anelò sempre con nostalgico amore ai porti mediterranei» [«In memorìa di Ferruccio Busoni», Rivista Musicale Italiana, Vol. XXXI, 1924].
Ma le prove dell'italianità che questo preteso Pacuvio offre ai suoi caluniatori continuano nel carattere, nel genio, nella vita, nella morte e nell'opera: F. Vatielli attesta, oltre la «mente altissìrna», la «bontà innata, schietta, del suo animo» [«Resto del Carlino», 27 luglio 1924]. Guido Guerrini asserisce che «aveva tanto vagheggiato, negli ultimi anni, di venire a chiudere la sua vita in Italia.... Era stato il sogno dei suoi ultimi anni». [«Musicista», Giugno, 1938]. Il Dent e Anzoletti narrano le qualità della sua onestà che certe volte arrivava perfino all'ingenuità e al disinteresse, e l'artista stesso afferma il suo carattere niente affatto scettico e patologico con certa insístenza di richiami divini anche in una sola lettera: «Rimetto, so Dio permetterà, la compensazione della mia venuta a Firenze... Grazie a Dio, e senza vantarmene, non cessa il lavoro dello spirito» [Lettera a F. Boghen, «Ferruccio Busoni da Empolì»].
L'italianìtà di vita e di morte è provata dalla sanità delle abitudini e dei costuini che egli trasporta e mantiene in mezzo agli stranieri. In America esclama: «Oh quanto più geniali i miei concittadini d'Empoli» [Dent: «Ferruccio Busoni»]. Quando deve dare un nome ai suoi figlioli e persino ai suoi cani sceglie nomi italiani, come Giotto, il suo cane preferito. Firma le sue opere «Ferruccio Busoni da Empoli». E della Patria patisce la febbrile nostalgia che lo riconduce ogni poco in Italia e che in Italia vorrebbe farlo rimanere, tanto che nel 1909, girando pei colli di Firenze, ideò di farsi costruire una villa a Fiesole.
All'amico Anzoletti abbozza tutto un Programma di orchestra italiana che doveva suonare, come in parte avvenne, nelle principali città italiane. Gioisce se può suonare, come fece a Londra con la Patti, col concorso d'italiani. Per trarre gli spunti delle sue composizioni va a cercare in opere italiane. E muore col ricordo cocente e con parole strazianti della e per la sua Patria.
Quanto poi all'italianità di genio e di opera, lasciamo pure ai musícologi lo stabilire con esattezza se fosse un «classico e un mistico» come lo vorrebbero il Della Corte e il Pannain nella loro «Antologia della Storia della Musica». O un riequilibratore eclettico fra le correnti neo-classica e quella romantica» quale lo definisce Gaianus nel «Resto del Carlino» del 3 marzo 1930, o un «iper-romantico», come lo classifica Guido Guerrini nel «Musicista», Giugno 1938. O un seguace delle teorie dell'Hanslick, per il Mantovani che, studiandolo nel libro busoniano «Nuova estetica dell'arte dei suoni» afferma che i suoi intendimenti estetici «si basano sull'idea fondamentale d'una concezione puramente classica» [«Ferruccio Busoni da Empoli»]. O infine, un precursore di certe correnti estetiche attuali delle più ragionate e promettenti», come lo incasella Guido M. Gatti nella «Rivista Musicale Italiana», XXXI, 1924.
Noi possiamo però dire che gli capitò pressappoco quello che capitò a un altro grande italiano, l'Ardigò che, come narra acutamente anche Giovanni Papini, avendo lavorato con meno ragione di lui nell'orbita d'un pensiero e d'un'estetica in buona parte stranieri, non seppe soffocare gli elementi basilari del proprio spirito e del proprio genio italiani.
«Per quanto abbia fortemente subito l'influenza del pensiero filosofico e musicale tedesco, scrive Casella, era toscano e dei grandi di quella razza ebbe alcune fra le più grandi qualità: senso architettonico ed euritmico, forza sposata all'elasticità, e perfino alla grazia, grandiosità titanica e superumana. A queste qualità aggiungeremo la perfetta, costante chiarezza latina delle idee» [«Il pianoforte»]. «E che cosa prova la sua predílezìone, in Liszt, del melodico invece che del virtuoso? Che cosa il fatto che egli additava la melodia quale cardine della musica, come quanto citava la «Norma» indicando nella «Casta diva» un esempio meraviglioso di svolgimento melodico?» [«Ferruccio Busoni da Empoli»]. Se ama Mozart lo ama soprattutto per la sua «umanità», e se scende a critiche musicali biasima in Wagner la parte troppo cerebrale che non è fatta per lui. Se dell'arte ha un concetto quasi «puro», è perchè la vuole, «alata», in quanto «ci venne dall'alto e deve restare in alto».
E italiano è tutto il suo genio visto anche nella fecondità e nella proteiformità, per cui Busoni inventò perfino un armonio a due tastiere col quale si possono avere, oltre i toni e i semitoni, i terzi e i sesti di toni e nel 1919, a Zurigo, meritò una laurea in filosofia. E Gatti conclude: «la conoscenza del teatro busoniano basterebbe a distruggere le sciocche accuse di apostasia» mosse a Busoni, che sempre aspirò «ad un'arte di cui solo un'anima italiana poteva pienamente godere» [«Rivista musicale italiana», XXXI, 1924].

STRANIERO IN PATRIA

Giovanni Banchini narra il mezzo fiasco delle musiche busoniane che il grande artista, reduce dai trionfi di tutto il mondo, riportò a Roma nell'anteguerra; musiche che essendo di «stile pianistico ultramoderno» furono accolte «con una certa freddezza, che si cambiò in un coro di proteste quando un gruppo di entusiasti volle approvare con applausi insistenti. Il chiasso continuò intensissimo finchè il grande pianista non cominciò la parte finale del programma, una sua mirabile trascrizione di Bach, soggiogando come sempre, con la sua superba interpretazione e la sua insuperabile virtuosità tecnica» [«Il Piccolo», 26 aprile 1925].
Lo stesso Guido M. Gatti afferma giustamente che quello che Busoni «chiedeva al pubblico era di giudicarlo nella sua compiuta personalità d'artista, di non pensare a lui come a un interprete che si dilettasse a comporre musica, ma di penetrare la sua unità estetica, il suo spirito musicale e di apprezzarlo nella sua manifestazione totale. Pianista, direttore d'orchestra, compositore, revisore e trascrittore, ragionatore di problemi estetici, poeta... Nessuna di queste sue attività aveva fisonomia ed origine dilettantesca; erano diverse faccie d'una sola coscienza estetica... Or chi pretende di giudicare un uomo ricordando di lui l'attitudine in un momento solo della sua vita?» [«Rivista musicale italiana», XXXI, 1924].
«La critica in Italia gli è sempre stata severissima», afferma Guido Guerrini nel «Musicista» del giugno 1938. E se «come pianista, suscitava entusiasmi folli, come direttore d'orchestra - sempre in Italia - non incontrava il favore del pubblico. E nulla lo irritava maggiormente di quando il pubblico, alla fine di un suo concerto orchestrale, lo invitava per acclamazione al pianoforte. Ad essere buon direttore d'orchestra ci teneva assai più che ad essere, come era, il più grande pianista del mondo».
«Non stava in Italia perchè l'Italia non gli poteva offrire la posizione sociale e l'ambiente artistico che a lui si convenivano, commenta F. Boghen. Roma o Milano, musicalmente, nell'epoca in cui prese la via del volontario esilio, non valevano certamente Berlino, con le sue orchestre permanenti, i suoi teatri sempre aperti, gl'innumerevoli e importanti concerti, i numerosi Istituti musicali, il fervore diffuso e appassionato di vita musicale» [«F. Busoni di Empoli»]. «Bisogna dire, aggiunge Casella, che egli conobbe un'Italia troppo diversa da quella che egli voleva. In quell'Italietta mediocre e modesta un Busoni non trovava posto. La tragedia sua fu quella di nascere troppo presto. Un Busoni ventenne starebbe perfettamente a posto nell'Italia Littoria» [«Il pianoforte»]. «Sembra assai strano che niuno dei nostri Ministri dell'Istruzione pensasse maì ad assicurare ad uno degli Istituti del Regno la opera di così grande maestro», rincalza T. Mantovani [«F. Busoni da Empoli»]. «Al più vivo e confortante consenso di ammirazione che l'arte di Busoni raccolse in Germania, si deve presumibilmente se il Musicista italiano, che tanto amò e onorò il suo paese, fu tratto a scegliere la sua residenza in terra straniera», conclude il Cordara nello stesso libretto. E il Vatielli: «Mentre in quel paese (la Germania) provava la gioia d'una comprensione affettuosa, d'un riconoscimento incontrastato, il suo paese nulla faceva per riguadagnarselo e sembrava non volesse accorgersi di lui [«Resto del Carlino», 27 luglio 1924].
«Gli occorrevano molti sforzi di volontà per poter suonare ín quell'ambiente», scrive il Dent. «Orchestre e direttori guardavano a lui senza stima». In uno stupendo concerto dato anni dopo a Firenze assieme al violinista Thompson, v'erano, empolesi e parenti inclusi, fra cui il prof. Vittorio Fabiani, l'avv. Lami e il prof. F. Bini, appena «una cinquantina di spettatori», informa il Cordara. Ed egli voleva vincere, come aveva vinto un tempo quella degli stranieri, l'ostilità degl'italiani.
In codesto concerto, interpretando con l'usata potenza fra l'altre musiche la celebre «Polonaise» di Chopin, egli seppe far quasi vedere il mondo oggettivo che quella musica descrive, lo stuolo dei cavalieri galoppanti nella pianura, protesi nel sogno ideale della riscossa della Patria... Quei cinquanta spettatori non poteron reggere all'entusiasmo e si alzarono, narra il Cordara, ad «interrompere l'audizione con una commozione irrefrenabile». Da allora la fama di Busoni pianista si sparse e giganteggiò sempre più in Italia, ma più ancora all'estero dove il carattere speciale dell'arte sua era forse ancora più intimamente compreso ed apprezzato, [«Ferruccio Busoni da Empoli»].
Ma questa sia pur leggera resipiscenza italiana era ancora, a quei tempi, di là da venire per lui che del resto, sempre a fermarsi al citato Cordara, anche allora veniva criticato per le sue trascrizioni di Bach.