ARTHUR RIMBAUD

POESIE V


PROSE EVANGELICHE


A Samaria, molti hanno manifestato la loro fede in lui. Egli non li ha visti. Samaria (s'inorgogliva) la parvenue, (la perfida), l'egoista, più rigida osservante della sua legge protestante che Giuda delle antiche tavole. Lì la ricchezza universale consentiva ben poco alla discussione illuminata. Il sofisma, schiavo e soldato dell'abitudine, aveva già sgozzato, dopo averli adulati, diversi profeti.
Era una frase sinistra, quella della donna alla fontana: «Voi siete profeta, voi sapete cosa ho fatto.»
Uomini e donne credevano nei profeti. Ora si crede negli uomini di stato.
A due passi dalla città straniera, incapace di minacciarla materialmente, se l'avessero preso per profeta, poiché si era mostrato così bizzarro, che gli avrebbero fatto?
Gesù non ha potuto dire nulla a Samaria.

***

L'aria leggera e attraente della Galilea: gli abitanti lo ricevettero con una gioia curiosa: lo avevano visto, sconvolto da una santa collera, frustare i cambiadenari e i mercanti di selvaggina al tempio. Miracolo della pallida e furiosa giovinezza, credevano.
Sentì la sua mano tra le mani cariche d'anelli e sotto il bacio di un ufficiale. L'ufficiale era inginocchiato nella polvere: e la sua testa era assai piacente, sebbene mezza calva. Le vetture filavano tra le strette vie (della città); un traffico molto intenso per quel borgo; tutto sembrava dover essere troppo contento quella sera.
Gesù ritrasse la sua mano: ebbe un movimento d'orgoglio infantile e femminile. «Voialtri, se non vedete (affatto) miracoli, voi non credete affatto.»
Gesù ancora non aveva fatto nessun miracolo. Aveva, durante una festa di nozze, in una sala da pranzo verde e rosa, parlato con un po' d'alterigia alla Santa Vergine. E nessuno aveva parlato del vino di Cana a Cafarnao, né al mercato, né per i lungofiume. I borghesi, forse.
Gesù disse: «Va', tuo figlio sta bene.» L'ufficiale se ne andò, come si porta una farmacia leggera, e Gesù prosegui per le strade meno frequentate. I convolvoli (arancio) e le borrane mostravano il loro magico rilucere tra i selciati. Infine vide in lontananza la polverosa prateria, e i ranuncoli d'oro e le margherite che chiedevano grazia al giorno.

***

Beth-Saida, la piscina dai cinque corridoi, era un punto di noia. Sembrava che fosse un sinistro lavatoio, sempre battuto dalla pioggia e ammuffito; e i mendicanti si agitavano sulle gradinate interne illividite da riflessi di temporali precursori dei lampi infernali, schernendo i loro occhi azzurri e ciechi, o i panni bianchi e azzurri che avvolgevano i loro moncherini. O lavanderia militare, o bagno popolare. L'acqua era sempre nera, e nessun infermo vi cadeva, neppure in sogno.
È lì che Gesù compì la prima azione grave; con gli infami infermi. Ci fu un giorno, di febbraio, marzo o aprile in cui il sole delle due del pomeriggio faceva stendere una grande falce di luce sull'acqua sepolta; e come fossi stato laggiù, lontano dietro gli infermi, avrei potuto vedere tutto ciò che quel solo raggio destava, gemme e cristalli, vermi, in quel riflesso simile ad un bianco angelo sdraiato di fianco, tutti gli infinitamente pallidi riflessi si muovevano.
Allora tutti i peccati, fili leggeri e tenaci del demonio, che, per i Cuori un po' sensibili, rendevano quegli uomini più spaventosi che mostri, volevano buttarsi in quell'acqua. Gli inferni scendevano, senza più schernire, ma con voglia.
I primi entrati sarebbero usciti guariti, si diceva. No. I peccati li respingevano sulle gradinate, e li forzavano a cercare altri posti perché il loro Demonio può stare solo in quei luoghi in cui l'elemosina è sicura.
Gesù entrò subito dopo il mezzogiorno. Nessuno lavava o faceva scendere le bestie. La luce nella piscina era gialla come le ultime foglie delle viti. Il divino maestro si teneva appoggiato ad una colonna: guardava i figli del Peccato; il demonio tirava fuori la lingua nella loro lingua; e rideva o negava.
Il Paralitico si alzò, quello che era rimasto sdraiato sul fianco, e fu con passo singolarmente sicuro che lo videro percorrere il corridoio e scomparire nella città, i Dannati.

PROSE E VERSI DI COLLEGIO

PROLOGO


I • «Il sole era ancora caldo»

Il sole era ancora caldo; eppure non rischiarava quasi più la terra; come una fiaccola posta innanzi a gigantesche volte non le illumina che di un flebile chiarore, cosi il sole, fiaccola terrestre, si spegneva lasciando scappare dal suo corpo di fuoco un ultimo e flebile chiarore, che pure lasciava ancora scorgere le foglie verdi degli alberi, i fiorellini che scolorivano, e le sommità gigantesche dei pini, dei pioppi e delle quercie secolari. Il vento refrigerante, cioè una brezza fresca, agitava le foglie degli alberi con un fruscio quasi simile a quello che faceva il fragore delle acque argentate del ruscello che scorreva ai miei piedi. Le felci curvavano la loro fronte verde davanti al vento. Mi addormentai, non senza essermi abbeverato con l'acqua del ruscello.

II • «Sognai che»

Sognai che ..........................................................
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........................................................................... ero nato a Reims, nell'anno 1503.
Reims era allora una cittadina, o, per meglio dire, un borgo rinomato però per la sua bella cattedrale, testimone della consacrazione di re Clodoveo.
I miei genitori erano poco ricchi, ma molto onesti: come beni non avevano che una piccola casa che gli era sempre appartenuta e di cui erano proprietari vent'anni prima della mia nascita, ed inoltre, un migliaio di franchi ai quali bisogna aggiungere i pochi luigi provenienti dai risparmi di mia madre...
Mio padre era ufficiale dell'esercito del re. Era un uomo grande, magro, dai capelli neri, con la barba, e con gli occhi e la pelle dello stesso colore. Sebbene non avesse avuto che 48 o 50 anni quando nacqui, gli si sarebbero di certo potuti dare 60 o 58. Era di carattere vivace, ardente, spesso si adirava e non sopportava nulla che gli dispiacesse.
Mia madre era molto diversa: donna dolce, calma, si spaventava per un nonnulla, e ciononostante teneva la casa in perfetto ordine. Era cosi calma che mio padre la faceva divertire come una signorina. Io ero il più amato. I miei fratelli erano meno forti di me, seppure più grandi. Amavo poco lo studio, cioè imparare a leggere, scrivere e far di conto. Ma se bisognava sistemare la casa, coltivare il giardino, fare commissioni, alla buon ora!, quello si che mi piaceva.
Mi ricordo che un giorno mio padre mi aveva promesso venti soldi, se gli avessi fatto bene una divisione, cominciai, ma non potei finire. Ah! Quante volte mi ha promesso soldi, giocattoli, leccornie, e una volta anche cinque franchi, se avessi potuto leggergli qualche cosa. Malgrado questo, mio padre mi mandò a scuola non appena ebbi dieci anni. Perché - mi chiedevo - imparare il greco, il latino? Non lo so. Non ne abbiamo davvero bisogno. Che mi importa di essere promosso, a che serve essere promosso, a nulla, no? E invece sì: dicono che non si ottiene un posto se non quando si è promossi. Ma io non voglio posti; camperò di rendita. E quand'anche ne volessimo uno, perché apprendere il latino? Nessuno parla questa lingua. Qualche volta ne vedo un po' nei giornali, ma grazie a Dio non sarò mai un giornalista. Perché imparare storia e geografia? È vero che abbiamo bisogno di sapere che Parigi è in Francia, ma nessuno domanda a quale grado di latitudine. In quanto alla storia, imparare la vita di Chinaldone, Nabopolassar, di Dario, di Ciro e di Alessandro, e dei loro altri famosi compari dai loro nomi diabolici, è un supplizio! Cosa mi importa se Alessandro è stato celebre? cosa mi importa... Chissà se i latini sono esistiti? Potrebbe essere una lingua inventata; e anche se sono esistiti, che mi lascino vivere di rendita e si tengano per loro la loro lingua. Che male gli ho fatto perché mi pongano al supplizio? Passiamo al greco. Questa sporca lingua non è parlata da nessuno, nessuno al mondo!... Ah! dincibacco di un dincibacco! Diamine! io vivrò di rendita; non è mica bello consumare i calzoni sui banchi di scuola, perdincibacco!
Per essere lustrascarpe, guadagnarsi un posto di lustrascarpe, bisogna passare un esame; perché i posti che vi sono offerti sono quelli di lustrascarpe, o porcaio, o bovaro. Grazie a Dio io non ne voglio, io, dincibacco! E per ricompensa vi si accordano ceffoni; vi si chiama animali, cosa per nulla vera, mezzo uomo, ecc...
Ah! perdincibacco!... Il seguito prossimamente.

ARTHUR.
[1864.]

INVOCAZIONE A VENERE


Madre dei figli d'Enea, o delizia degli Dei,
delizia dei mortali, sotto gli astri celesti
Venere, tutto tu popoli: l'onda ove la nave corre,
il sol fecondo: tutto per te respira,
germina, s'erge e mira il sole lucente!
Tu appari... Innanzi al tuo radioso volto
scompaiono i venti e le nuvole oscure:
l'Oceano ti sorride; fertile d'opere belle,
la Terra schiude i fiori soavi sotto i tuoi piedi;
il giorno è più brillante sotto gli azzurri cieli!
Non appena Aprile riappare, e, gonfio di giovinezza,
viene a recarti una dolce tenerezza,
e di zefiro il soffio forza la sua prigione,
le aeree genti annunciano la tua stagione:
l'incantato uccello subisce il tuo potere, o Dea;
le greggi selvagge scalpitano nell'erbe folte,
e ne fendono l'onda nuotando, e ogni essere vivente,
incatenato alla tua grazia, arde mentre ti brama!
Sei tu che nei mari, nei torrenti, nelle montagne,
nei boschi di nidi popolosi, e nelle verdi campagne,
versando in ogni cuore l'amore caro e pulsante,
li porti tra le età a diffondere il loro sangue!
Il mondo non conosce, o Venere, che il tuo impero!
Nulla si potrebbe senza il tuo levarti al giorno:
nulla ispira senza te, nulla può provare amore!
Al tuo divino concorso nell'opra mia io aspiro!

A. RIMBAUD.
Fuori del collegio di Charleville.
[1869.]

UN CUORE SOTTO LA TONACA
Intimità di un seminarista

«... O THIMOTINA LABINETTE!»


...O Timotina Labinette! Oggi che rivesto gli abiti sacri posso ricordare la passione, ora raffreddata e addormentata sotto la tonaca, che lo scorso anno fece battere il mio giovane cuore sotto la mia mantella di seminarista!...


1° maggio 18...

...Ecco la primavera. La pianta di vite dell'abate*** germoglia nel suo vaso di terracotta: l'albero del cortile ha piccole gemme tenere come verdi gocce sui suoi rami; l'altro giorno, uscendo dallo studio, ho visto alla finestra del secondo piano qualcosa come il fungo nasale del sup***. Le scarpe di J*** puzzano un po'; e ho notato che gli allievi escono troppo spesso a... nel cortile; loro che vivevano nello studio come talpe, rintanati, piegati in due, con la loro faccia arrossata l verso la stufa, con un alito pesante e caldo come quello delle vacche! Essi restano a lungo all'aria aperta, ora, e quando tornano, ridacchiando, richiudono l'istmo dei pantaloni con grande cura - no, mi sbaglio, molto lentamente, - con delle maniere, quasi svenevoli, macchinalmente, per questa operazione che di per sé è completamente futile...


2 maggio...

Il sup*** ieri è sceso dalla sua camera chiudendo gli occhi, con le mani nascoste, timoroso e intirizzito, ha trascinato ai quattro passi nel cortile le sue ciabatte di canonico!...
Ecco il mio cuore che batte il tempo nel petto, e il mio petto che batte contro il lurido banco! Oh! Ora detesto i tempi in cui gli allievi erano come pecoroni sudanti nei loro abiti sudici, e dormivano nella puzzolente atmosfera dello studio, al lume della lampada a gas, nel molle calore della stufa!..
Distendo le braccia! Sospiro, stendo le gambe!... sento certe cose nella mia testa, oh! ma certe cose!...


4 maggio...

...Beh, ieri non ho più resistito: ho disteso le mie ali come l'arcangelo Gabriele, le ali del mio cuore. Il soffio dello spirito santo mi ha percorso tutto l'essere! Ho preso la mia lira e ho cantato:

Avvicinatevi,
O Grande Maria!
O Madre Adorata!
Del dolce Gesù!
Sanctus Christus!
O Vergine incinta,
o madre santa,
abbi pietà di noi!

Oh, se voi sapeste quali misteriosi effluvi mi scuotevano l'anima mentre sfogliavo questa poetica rosa! Ho preso la cetra, e come il Salmista, ho innalzato la mia voce innocente e pura nell'alto dei cieli! O altitudo altitudinum!...
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7 maggio...

Ahimè! La mia poesia ha ripiegato le ali, ma come Galileo io dirò, abbattuto dall'oltraggio e dal supplizio: Eppur si muove! - Si legga: Si muovono! - Avevo commesso l'imprudenza di lasciar cadere la precedente confidenza... J*** l'ha raccolta, J*** il più feroce dei giansenisti, il più rigoroso satellite del sup*** e l'ha portata al suo capo, segretamente: ma, il mostro, perché sprofondassi sotto gli insulti universali, aveva fatto passare per le mani di tutti i suoi amici la mia poesia!
Ieri, il sup*** mi ha fatto chiamare: entro nel suo appartamento, sono in piedi innanzi a lui, forte della mia interiorità. Sulla sua calva fronte fremeva come furtivo lampo l'ultimo capello rosso: i suoi occhi emergevano dal lardo, ma calmi, pacifici; il suo naso, simile ad una mazza, si muoveva del suo solito moto: mormorava un oremus: si leccò l'estremità del pollice, sfogliò qualche pagina del libro, e tirato fuori uno sporco pezzo di carta spiegazzato...

Graaaaaande Maaaariaaaa!...
Maaaadreee Adoooraaataaaa!

Deturpava la mia poesia! Sputava sulla mia rosa! Faceva il Brid'oison, Il Giuseppe, il bestione, per sporcare, per rendere immondo quel virginale canto; balbettava e prolungava le sillabe con un sogghigno d'odio concentrato: e quando giunse al quinto verso,... Vergine incinta! si fermò, preparò la sua voce nasale e sbottò! Vergine Incinta! Vergine Incinta! E lo diceva con un tono, mentre il suo stomaco sporgente s'increspava come rabbrividendo, con un tono così orrendo, che un rossore pudico mi copri il viso. Caddi in ginocchio, e distese in alto le braccia esclamai: Oh, padre!...
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«La vostra lira! La vostra cetra! Giovanotto! La vostra cetra! Gli effluvi misteriosi! Che vi scuotevano l'anima! L'avrei voluto vedere! Giovane anima, io noto lì, in quell'empia confessione, qualcosa di mondano, un pericoloso abbandono, un cedimento, insomma!»
«Tacque, fece fremere dall'alto in basso l'addome, e più solenne: «Giovanotto, avete fede?» «- Padre, perché questa parola? Stanno scherzando le vostre labbra?... Sì, io credo in tutto ciò che mi dice mia madre, la Santa Chiesa!» «Ma... Vergine incinta!... È la concezione questa, giovanotto, è la concezione!...»
«Padre, io credo nella concezione!»
«Avete ragione, giovanotto, è una cosa...»
Tacque. Poi: «Il giovane J*** mi ha fatto un rapporto nel quale constata in voi un allargare le gambe di giorno in giorno più evidente, quando vi trovate nello studio; egli afferma di avervi visto distendervi tutto sotto il tavolo, come un ragazzino... scomposto. Questi sono fatti ai quali non avete niente da poter rispondere... Avvicinatevi, in ginocchio, vicino a me; vi voglio interrogare con dolcezza; rispondetemi: allargate molto le gambe in studio?»
Poi mi metteva la mano sulla spalla intorno al collo, e i suoi occhi si facevano luminosi, e mi faceva dire certe cose sugli allargamenti delle gambe... Ebbene, voglio dirvi che fu disgustoso, io lo so cosa vogliono dire, quelle scene là!... Dunque, mi avevano fatto la spia, mi avevano calunniato il cuore ed il pudore, - ed io non potevo dire nulla, perché i rapporti, le lettere anonime degli allievi gli uni contro gli altri al sup*** erano autorizzate, anzi prescritte, - ed io andai in quella stanza a f... sotto la mano di quel ciccione!... Oh! il seminario!...


10 maggio

Oh! I miei condiscepoli sono spaventosamente cattivi e spaventosamente lascivi! Allo studio la conoscono tutti, questi profani, la storia dei miei versi, e non appena volto la testa, incontro la faccia di bolso di D***, che mi sussurra: E la tua cetra, e la tua cetra, e il tuo diario? Poi quell'idiota di L*** riprende: E la tua lira? E la tua cetra? Poi tre o quattro sussurrano in coro:

Grande Maria...
Madre adorata!

Io sono proprio un gran sempliciotto: - Gesù, non mi dò davvero la zappa sui piedi! - Ma insomma, io non faccio la spia, non scrivo lettere anonime, ed ho dalla mia la santa poesia ed il mio pudore!...


12 maggio...

Dunque non sapete perché muoio d'amore?
Il fiore mi dice: salve: l'uccello mi dà il buongiorno:
salve; è primavera! È l'angelo della tenerezza!
Dunque non sapete perché bollo d'ebbrezza!
Angelo della nonna, angelo della culla mia,
dunque non sapete che io divengo uccello,
che la mia lira freme e che io batto l'ali
come una rondinella?...

Ho composto questi versi ieri, durante la ricreazione; sono entrato nella cappella, mi sono chiuso in un confessionale, e lì la mia giovane poesia ha potuto palpitare ed involarsi, nel sogno e nel silenzio, verso le sfere dell'amore. Poi, siccome vengono a prendermi ogni foglietto che ho in tasca di notte e di giorno, ho cucito questi versi in fondo al mio indumento più intimo, quello che tocca direttamente la mia pelle, e, durante le ore di studio, tiro, sotto la veste, la poesia sul mio cuore, e la stringo a lungo, sognando...


15 maggio.

Gli avvenimenti si sono accumulati, dalla mia ultima confessione, avvenimenti molto solenni, avvenimenti che avrebbero dovuto influire sulla mia futura vita interiore in modo forse molto terribile!

Timotina Labinette, io ti adoro!
Timotina Labinette, io t'adoro! t'adoro!
lasciami cantare sul mio liuto, come il divino Salmista sul suo salterio, come ti ho vista e come il mio cuore è balzato al tuo per un eterno amore!
Giovedì, era giorno d'uscita: noi usciamo per due ore; io sono uscito: mia madre, nella sua ultima lettera, mi aveva detto: «Tu andrai, figlio mio, ad occupare superficialmente la tua uscita dal Signor Césarin Labinette, intimo del tuo defunto padre, al quale tu devi presentarti un giorno o l'altro prima della tua ordinazione;...»
...Io mi presentai al Signor Labinette il quale mi obbligò cortesemente, senza dire una parola, ad essere relegato nella cucina: sua figlia, Timotina, rimase da sola con me, prese una pezza, asciugò una gran ciotola panciuta appoggiandola sul suo cuore, e di colpo mi disse, dopo un lungo silenzio: E allora, signor Leonardo?...
Fino ad allora, confuso di vedermi con questa giovane creatura nella solitudine della cucina, avevo abbassato gli occhi ed invocato il sacro nome di Maria: risollevai il capo arrossendo, e, davanti alla bellezza della mia interlocutrice, non potei che balbettare un debole: Signorina?...
Timotina! com'eri bella! Se fossi un pittore, riprodurrei sulla tela i tuoi sacri tratti con questo titolo: la Vergine della ciotola! Ma non sono che un poeta, e la mia lingua non può che celebrarti incompletamente...
La stufa nera, con i suoi buchi dove fiammeggiavano le braci come occhi rossi, lasciava fuggire, dalle casseruole piccoli fili di vapore, dall'odore celestiale di zuppa di cavolo e fagioli; e davanti a quella, aspirando con il dolce nasino l'odore di questi legumi, guardando il tuo grosso gatto con i begli occhi grigi, o Vergine della ciotola, tu tergevi il tuo vaso! Le piatte bande e chiare dei tuoi capelli s'incollavano pudicamente sulla tua gialla fronte simile al sole; dai tuoi occhi scendeva rapido un bluastro solco fino in mezzo alla tua guancia, come a Santa Teresa! il tuo naso, pieno dell'odore dei fagioli, sollevava le delicate nari; una peluria leggera serpeggiando sulle tue labbra, contribuiva non poco a dare una bell'energia al tuo volto; e, sul mento, brillava un bel segno bruno dove fremevano dei folli dolci peli: i tuoi capelli erano modestamente tenuti sull'occipite da forcine; ma un ciuffo corto se ne fuggiva... Cercai invano i tuoi seni; tu non ne hai: tu disdegni questi mondani ornamenti: il tuo cuore e i tuoi seni!... Quando ti voltasti per colpire col largo piede il gatto dorato, vidi salire le scapole tue e sollevarti le vesti, e fui punto dall'amore dinanzi alla graziosa curva dei due pronunciati archi delle tue reni!... Da quel momento, io t'adorai: io adoravo non i capelli, non le tue scapole, non la curva inferiore e posteriore: ciò che adoro in una donna, in una vergine, è la santa modestia; ciò che mi fa sussultare d'amore è il pudore è la devozione; questo adorai di te, o giovane pastorella!... Provai ad esprimerle la mia passione; d'altra parte il mio cuore, il mio cuore mi tradiva! Non rispondevo che con frasi interrotte alle sue domande; molte volte la chiamai Signora invece che Signorina, nel mio turbamento! A poco a poco, ai magici accenti della sua voce mi sentii soccombere; infine risolsi di lasciarmi andare, e di innescare tutto: e, a non so più quale domanda mi aveva fatto, mi misi una mano sul cuore e con l'altra presi un rosario che avevo in tasca, ne feci emergere la croce bianca, e con un occhio verso Timotina e l'altro al cielo, risposi dolorosamente e teneramente, come il cervo alla cerva:
«Oh, sì, signorina Timotina!!!!!»
Miserere! Miserere! - Nel mio occhio aperto verso il soffitto cadde ad un tratto una goccia di salamoia, che scorreva da un prosciutto appeso sopra di me, e, quando tutto rosso dalla vergogna e ridestato dalla mia passione, abbassai la fronte, mi accorsi che nella mia mano sinistra non stringevo che uno scuro poppatoio invece di un rosario; - mia madre me lo aveva dato lo scorso anno perché lo dessi al piccolo di non so quale madre! - Dall'occhio fisso al soffitto colò la amara salamoia: - ma dall'occhio che ti contemplava, o Timotina, scorse una lacrima d'amore, lacrima di dolore!...
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Un'ora più tardi, quando Timotina mi annunciò uno spuntino a base di fagioli e frittata al lardo, sconvolto dal suo fascino, risposi a mezza voce: «Ho il cuore così pieno, vedete, da rovinarmi lo stomaco!» E mi misi a tavola; oh, ancora lo sento, il suo cuore aveva risposto al richiamo del mio; durante lo spuntino, ella non mangiò: «Non trovi che si senta una specie di odore?» ripeteva; suo padre non capiva; ma il mio cuore aveva compreso: era la Rosa di David, la Rosa di Jesse, la Rosa mistica della scrittura; era l'Amore!
Si alzò di colpo e andò in un angolo della cucina, e mostrando il doppio fiore delle sue reni cacciò il braccio in fondo ad un deforme mucchio di stivali, di varie calzature, dalle quali balzò fuori il gattone; buttò tutto in un vecchio armadio vuoto; poi tornò al posto suo e interroga inquieta l'atmosfera; d'improvviso aggrottò le ciglia ed esclamò:
«C'è ancora odore!...»
«Sì, c'è odore», rispose suo padre scioccamente; (non poteva capire, il profano!).
Mi accorsi che non era altro che gli intimi moti della passione della mia virginea carne,! L'adoravo, e assaporavo con amore la aurea frittata, le mie mani battevano il tempo con la forchetta, e sotto la tavola i miei piedi fremevano d'amore nelle scarpe!...
Ma ciò che mi fu come raggio di luce, come un eterno pegno d'amore, come un diamante di tenerezza da parte di Timotina, fu l'adorabile cortesia che ebbe, quando me ne andai, di offrirmi un paio di candidi calzini, con un sorriso e con queste parole:
«Li volete per i vostri piedi, signor Leonardo?»
...................................................


16 maggio.

Timotina! Io t'adoro, te e tuo padre, te e il tuo gatto:

...Vas devotionis,
Rosa mystica,
Timotina: Turris davidica, Ora pro nobis!
Coeli porta,
Stella maris,


17 maggio.

Cosa mi importa ora dei rumori del mondo e dei rumori dello studio? Cosa mi importa della gente che mi sta vicino, incurvata da pigrizia e languore? Stamattina tutti i volti, appesantiti dal sonno, stavano incollati ai tavoli; un russare, simile al grido della tromba del Giudizio, un sordo e lento russare si alzava da quel vasto Getsemani. Io, stoico e sereno, eretto al di sopra di tutti quei morti come una palma al di sopra delle rovine, disprezzando gli odori e i rumori sconvenienti, mi reggevo il capo con la mano e ascoltavo battere il mio cuore pieno di Timotina, e i miei occhi si annegavano nell'azzurro del cielo, intravisto attraverso i vetri superiori della finestra!...


18 maggio.

Grazie allo Spirito Santo che mi ha ispirato questi versi graziosi: versi che voglio incastonare nel mio cuore; e quando il cielo vorrà che io veda di nuovo Timotina glieli darò, in cambio dei suoi calzini!...
L'ho intitolata «La Brezza»:

Nel suo bozzolo di cotone
dorme lo zefiro dal dolce alito
nel suo nido di seta e di lana
dorme lo zefiro dal gaio mento!

Quando lo zefiro alza la sua ala
dentro il suo bozzolo di cotone
quando corre dove il fiore chiama,
che dolce olezzo in quell'alito soave!

O quintessenziata brezza!
O quintessenza dell'amore!
Quando la rugiada è svaporata
si sente nell'aria un olezzo!

Gesù! Giuseppe! Gesù! Maria!
è come un'ala di condor
che t'assopisce se preghi!
Ci penetra nel cuore e addormenta!

.....................................................................................

La fine è troppo intima e troppo soave: la serbo perciò nel tabernacolo dell'anima mia. Alla prossima uscita la leggerò alla mia divina, aulente Timotina. Aspettiamo con calma e raccoglimento.

......................................................................................

Data incerta. - Attendiamo!...


16 giugno!

Signore: sia fatta la tua volontà: non metterò ostacoli! Se tu vorrai distogliere da questo tuo servo l'amore di Timotina puoi farlo di certo: ma, Signore Gesù, non hai forse amato tu stesso, e non ti ha forse insegnato la lancia dell'amore a compatire le sofferenze degli sventurati? Prega per me!
Oh! Attendevo da tempo l'uscita del 15 di giugno per due ore: avevo sedato la mia anima dicendole: quel giorno sarai libera! Il 15 giugno avevo ravviato i miei modesti capelli, e avvalendomi di un'odorosa pomata rosa, li avevo incollati sulla fronte come le bande di Timotina; mi ero impomatato le sopracciglia, avevo spazzolato con cura la veste nera, soppresso con abilità certe scoccianti deficienze della mia toletta, e mi presentai al sospirato campanello del signor Césarin Labinette. Egli giunse, dopo un lungo tempo, con la calotta alla buona sull'orecchio, un ciuffo di capelli diritti ed impomatati che gli tagliavano di netto il viso come uno sfregio, con una mano nella tasca della vestaglia a fiori gialli e l'altra sul saliscendi... Mi salutò secco e brusco, arricciò il naso gettando un occhio alle mie scarpe coi lacci neri, e mi precedette tenendo le mani nelle tasche, tirando in avanti la vestaglia come fa l'abate*** con la tonaca, e modellando così al mio sguardo il suo didietro.
Lo seguii.
Attraversò la cucina e io entrai nel salotto dopo di lui. Oh! quel salotto! Ce l'ho fisso nella memoria dagli spilli del ricordo! I parati erano a fiori scuri; sul caminetto c'era una gran pendola di legno nero, a colonne; due vasi azzurri con le rose; sulla parete, un quadro della battaglia di Inkermann, un disegno a matita di un amico del Césarin, che raffigurava un mulino con la ruota tuffata in un ruscelletto simile ad uno sputo, disegno simile ad uno scarabocchio per principianti. Come preferisco la poesia!...
Nel mezzo del salotto c'era una tavola con una gran tovaglia verde intorno alla quale il mio cuore non vide che Timotina benché vi fossero anche l'amico del signor Césarin, già esecutore della beneficienza parrocchiale di don *** e la sua consorte, signora di Riflandouille, e benché il signor Césarin, subito dopo il mio arrivo fosse tornato a sedersi lì accanto, appoggiando i gomiti.
Presi una sedia imbottita, pensando che una parte di me si sarebbe poggiata ad una tappezzeria probabilmente fatta da Timotina, salutai tutti e, messo il mio cappello nero sul tavolo, davanti a me, come un bastione, ascoltai...
Io non parlavo, ma il mio cuore parlava! I signori proseguirono la partita a carte già iniziata: notai che baravano senza ritegno e questo mi diede una assai penosa sorpresa. Conclusa che fu la partita, si sedettero in circolo attorno al camino vuoto; io stavo in uno degli angoli seminascosto dall'enorme amico di Césarin la cui sedia mi divideva da Timotina: dentro di me ero felice della poca attenzione che mi si prestava; relegato dietro la sedia del sagrestano onorario, potevo lasciar vedere sul mio volto i moti del cuore senza che nessuno potesse notarmi: mi abbandonai così ad un dolce trasporto; lasciai che la conversazione iniziasse e si animasse fra quelle tre persone; Timotina, infatti, parlava raramente; lanciava al suo seminarista occhiate amorose, e non osando guardarlo in volto, volgeva i suoi chiari occhi verso le mie ben lucidate scarpe!... Io dietro al grosso sagrestano mi lasciavo andare con il mio cuore.
Cominciai a chinarmi verso Timotina alzando gli occhi al cielo. Il suo capo era rivolto altrove. Mi misi a posto, e con la testa inclinata sul petto emisi un sospiro: lei non si mosse. Mi riabbottonai, mossi le labbra, accennai un segno della croce: lei non notò nulla. Allora, rapito, furioso d'amore, mi chinai profondamente verso di lei con le mani giunte come in comunione, emettendo un Ah!... lungo e doloroso. Miserere! mentre gesticolavo - e pregavo, caddi dalla sedia con uno schianto, il grosso sagrestano si voltò ridacchiando e Timotina disse a suo padre:
«Toh! Il signor Leonardo cola a terra!»
Suo padre ridacchiò! Miserere!
Il sagrestano mi ripiantò, rosso dalla vergogna e indebolito dall'amore, sulla mia sedia imbottita, e mi fece posto. Ma io chinai gli occhi, volevo dormire! Quella compagnia era fastidiosa e neppure indovinava quell'amore che penava nell'ombra: volli dormire! Ma udii che la conversazione volgeva su di me!... Riaprii stancamente gli occhi... Césarin e il sagrestano fumavano un sigaro fino, con ogni possibile leziosaggine, cosa che li rendeva spaventosamente ridicoli; la signora del sagrestano, sull'orlo della sedia, col petto concavo chino in avanti e dietro le pieghe del vestito giallo che le si ergevano gonfiandosi sino al collo, allargando attorno a sé l'unica gala, sfogliava deliziosamente una rosa: uno spaventoso sorriso le schiudeva le labbra, e mostrava sulle aride gengive due denti gialli e neri come maioliche di una vecchia stufa. - Tu, Timotina, eri bella, col tuo bianco colletto, con gli occhi in basso e le piatte bande!
«È un giovane di avvenire sicuro: il suo presente fa ben sperare per il futuro, diceva il sagrestano sprigionando un'onda di fumo grigio...»
«Oh! Il signor Leonardo onorerà l'abito!» disse con tono nasale la sagrestana: affiorarono i due denti!...
Io avvampavo, come uno scostumato giovinetto; vidi che le sedie si allargavano via da me e che si mormorava sul mio conto...
Timotina continuava a fissare le mie scarpe; quei due denti odiosi mi minacciavano... il sagrestano rideva con ironia: stavo sempre a testa in giù!...
«Lamartine è morto...» disse d'improvviso Timotina.
Cara Timotina! Era per il tuo adoratore, per il tuo povero poeta Leonardo che buttavi nella conversazione il nome di Lamartine; allora sollevai il capo, sentii che soltanto il pensiero della poesia poteva rendere la verginità a quei bestioni, sentivo le ali palpitare, e raggiante dissi, fissando Timotina:
«Aveva bei gioielli alla sua corona, l'autore delle Meditazioni poetiche!
«Il cigno dei versi è morto!» disse la sagrestana.
«Sì, ma ha innalzato il suo funereo canto», ripresi al colmo dell'entusiasmo.
«Ma - esclamò la sagrestana - anche il Signor Leonardo è poeta! Sua madre mi ha mostrato lo scorso anno saggi della sua musa!...»
Giocai d'audacia:
«Oh, Signora, non ho portato con me né la mia cetra né la mia lira, ma...»
«Oh, ma la cetra la porterà un'altra volta...»
«Ciononostante, se la cosa non dispiace alla onorevole compagnia, - e qui estrassi il foglietto dalla tasca - vi leggerei alcuni miei versi... Li dedico alla Signorina Timotina.»
«Sì, sì, giovanotto! Benissimo! reciti, reciti, vada in fondo alla stanza...» Indietreggiai... Timotina mi guardava le scarpe..; La sagrestana fece la madonna: i due signori si erano chinati l'uno verso l'altro... Arrossii... tossii e cantando teneramente dissi:

Nel suo bozzolo di cotone
dorme lo zefiro dal dolce alito
nel suo nido di seta e di lana
dorme lo zefiro dal gaio mento!

Tutti gli astanti scoppiarono a ridere: i signori si chinavano l'uno verso l'altro per fare commenti grossolani; ma ciò che più atterriva era l'aria della sagrestana, che con lo sguardo al cielo faceva la mistica e sorrideva coi denti orribili! Timotina, Timotina scoppiava dalle risa! Fui percosso da un colpo mortale: Timotina si reggeva la pancia!... «Un dolce zefiro nel cotone, è soave, soave!...» faceva tirando su col naso il vecchio Césarin... Credetti di accorgermi di qualcosa... ma quello scoppio di risa non durò che un secondo: tutti cercarono di ricomporsi, con qualche incontrollabile accesso di ilarità... «Continui, giovanotto, va bene, va bene!»

Quando lo zefiro alza la sua ala
dentro il suo bozzolo di cotone...
quando corre dove il fiore chiama,
che dolce olezzo in quell'alito soave!

Stavolta un'enorme risata scosse il mio uditorio; Timotina guardava le mie scarpe: avevo caldo, i piedi mi bollivano sotto il suo sguardo e sguazzavano nel sudore; mi dicevo infatti: questi calzini che porto da un mese sono un dono dell'amor suo, gli sguardi che rivolge ai miei piedi sono una testimonianza del suo amore: lei mi adora!
Ed ecco che non so che odorino mi parve uscire dalle scarpe: oh! capii le orrende risate degli astanti! Capii che fuorviata dalla cattiva compagnia, Timotina Labinette, Timotina non avrebbe mai potuto dar libero sfogo alla sua fiamma! Capii che anch'io avrei dovuto in me divorare quel dolente amore sbocciato nel mio cuore in un pomeriggio di maggio, nella cucina dei Labinette, dinanzi alla sinuosa curvatura posteriore della Vergine della ciotola!
- Le quattro, ora del rientro, suonavano alla pendola del salotto; ebbro, arso d'amore e folle di dolore, afferrai il cappello, fuggii rovesciando una sedia e attraversai il corridoio mormorando: Adoro Timotina, e fuggii senza fermarmi fino al seminario...
Le falde della mia nera veste mi svolazzavano dietro, al vento, come sinistri uccellacci!...
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30 giugno.

Oramai, lascio alla divina musa la cura di lenire la mia pena; martire d'amore a diciott'anni, penso nel mio scoramento a un altro martire del sesso che fa la nostra gioia e felicità; non avendo più la mia amata, amerò la fede! Cristo, Maria mi stringano al seno: io li seguo, non son degno di sciogliere i lacci ai calzari di Gesù; ma che dolore! che pena! A diciott'anni e sette mesi anch'io porto una croce e una corona di spine! ma, nella mano, invece del giunco, io ho la cetra! Questo sarà il balsamo per la mia piaga!...
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Un anno dopo, 1° agosto.

Oggi sono stato rivestito dell'abito sacro; sto per diventare un servo di Dio; avrò una parrocchia e una modesta perpetua in un ricco paese. Ho la fede; lavorerò per la mia salvezza e, senza essere spendaccione, vivrò come un buon servitore di Dio con la sua serva. Mia madre, la sacra Chiesa, mi riscalderà sul suo seno: che sia benedetta! Che Dio sia benedetto!...
...Quanto alla brutalmente diletta passione che serbo in fondo al cuore, saprò sopportarla con fermezza: senza riaccenderla, potrò talvolta riportarla alla memoria: sono cose molto dolci! - Io, d'altra parte, ero nato per l'amore e per la fede! - Forse un giorno, tornando in quella città, avrò la gioia di confessare la mia cara Timotina...E poi di lei conservo un dolce ricordo: da un anno non mi son tolto i calzettoni che mi ha donato...
Quei calzettoni, o mio Dio! me li terrò ai piedi fin nel tuo santo paradiso!...

GLI STUPRI

«GLI ANTICHI ANIMALI MONTAVANO, ANCHE IN CORSA»


Gli antichi animali montavano, anche in corsa,
con glandi bardati di sangue e d'escrementi.
I nostri padri esponevano il membro fieramente
tra le pieghe della guaina e la grana della borsa.

Nel medioevo per la damina, angelo o troia,
ci voleva un gagliardo dal solido arnese;
anche un Kléber, secondo le mutande che mentono
forse un poco, non doveva mancare di risorse.

D'altronde l'uomo è uguale al più fiero mammifero;
l'enormità del loro membro a torto ci stupisce;
ma una sterile ora è suonata: il cavallo

ed il bue hanno represso i loro ardori, e nessuno
oserà più drizzare il suo organo genitale
nei boschetti dove brulica un'infanzia buffona.

«LE NOSTRE CHIAPPE NON SONO LE LORO. SPESSO HO VISTO»


Le nostre chiappe non sono le loro. Spesso ho visto
gente sbottonata dietro qualche siepe
e, nei bagni sfrontati dove l'infanzia s'allieta
ho osservato il disegno e l'effetto del nostro culo.

Più sodo, pallido in molti casi, è provvisto
di evidenti rilievi che tappezzano la trama
dei peli; per quelle, e solo nel solco
grazioso che fiorisce il lungo e folto raso.

Un'ingegnosità toccante e meravigliosa
come non si vede neppure negli angeli delle sacre pitture
imita la guancia che il sorridere increspa.

Oh! essere così nudi, cercare gioia e riposo,
con la fronte volta alla porzione gloriosa
e liberi entrambi mormorare singhiozzi?