LUIGI BÀCCOLO


CHE COSA HA VERAMENTE DETTO
IL MARCHESE DE SADE


3. LE AZIONI, LE PASSIONI E GLI EROI
O IL SILENZIO DELLE LEGGI

Sade e la Rivoluzione

L'entrata di Sade nella Rivoluzione ha inizio da un equivoco. Ribellione ai poteri costituiti (il governatore della Bastiglia), grida sediziose al popolo ("Si sgozzano i prigionieri, venite a liberarli!"): Sade se ne farà bello il 6 frimaio dell'anno II, mentre in realtà si trattava di una delle sue collere consuete per essergli stata negata la passeggiata sulle torri della Bastiglia. Sade entra dunque nella Rivoluzione sospinto, più che dai diritti dell'uomo, dai diritti dell'uomo Sade. Di quello storico sommovimento traeva come frutto immediato una piccola gioia e una gran disperazione: da una parte la testa mozza del governatore De Launay portata in giro su una picca (la morte dei suoi persecutori, lui l'aveva proclamata nella lettera alla moglie, del 28 marzo 1781), dall'altra il manoscritto delle 120 Journées de Sodome, definitivamente perduto nel saccheggio del popolo vendicatore (sarà poi ritrovato e pubblicato un secolo più tardi).
Senza dubbio, al gusto teatrale di Sade sarebbe stata più gradita la liberazione a furor di popolo il 14 luglio; invece fu un decreto dell'Assemblea sulle "lettres de cachet" a farlo uscire da Charenton, il 2 aprile del 1790. Povero, abbandonato dalla moglie e dai figli, cinquantenne ma pieno di speranze e di manoscritti vergati in prigione: Dialogue entre un prétre et un moribond (1782), Les in fortunes de la vertu (1787), Justine ou le malheurs de la vertu (1788), Aline et Valcour (1785-88), Les crimes de l'amour (17871788), Historiettes, Contes et Fabliaux (1787-88).

In verità, se non sempre rivoluzionario, rivoltoso Sade era stato sempre: ma che fosse per schietta ispirazione di libertà e di giustizia, è difficile sostenere. Quel che non gli andava dell'antico regime erano le lettres de cachet con cui un povero aristocratico di libertino poteva esser imprigionato senza processo; erano i magistrati prevenuti contro i libertini, questi amici della Natura e della Filosofia; erano le suocere intestardite a cacciare il naso negli affari privati dei generi e delle filles: non c'è traccia, nel Marchese prima delle sue prigioni, di altre ribellioni più ideali. Senza quegli inconvenienti, si può giurare che il gentiluomo Sade si sarebbe trovato a suo agio sotto il dispotismo.
Per il libertino, dice giustamente Jean-Jacques Brochier [JEAN-JACQUEs BR0CHIER: Le marquis de Sade et la conquête de l'Unique, Paris 1966], non si presentano che due soluzioni sociali: o il dispotismo o la rivoluzione permanente, cioè l'anarchia. Accettare la democrazia, per il libertino-filosofo vuoi dire accettare di scomparire. Ne è prova Casanova, che dal suo rifugio di Dux non cesserà di scagliare fulmini contro la "cacodemocrazia", mentre sospira al bel tempo dei Re che, segregando i turbolenti e aprendo la borsa alle belle, creavano il migliore dei mondi possibili per il povero avventuriero figlio di commedianti.
Lo scoppio della Rivoluzione pone fine (provvisoria) alle prigioni di Sade. Si prepara il "tempo puro" dell'anarchia, come lo chiama Maurice Blanchot, [Ne L'inconvenance majeure, prefazione a "Français, encore un effort", Parigi 1965] il "delirio del corpo sociale", come lo aveva chiamato Restif de la Bretonne nei suo Monsieur Nicolas: tutte le energie si liberano e tutte le passioni dell'uomo, prima che nuove leggi tornino a mortificarle [È il momento del "silenzio delle leggi", il momento propizio alle grandi azioni. Quando le leggi riprendono a parlare, "una pericolosa letargia assopisce l'animo di ogni uomo; senza vizi, ma anche senza virtù" (Juliette, IV, 220-221). L'ora per Sade, delle Azioni delle Passioni e degli Eroi, è dunque quella della deflagrazione; l'ora neutra tra il dispotismo crollato e il dispotismo sorgente. L'anarchia è vicina allo stato di natura che vede gli uomini "puri" cioè "liberi e crudeli", prima che la specie fosse degradata dalla "morale umana e dalla infame civilizzazione" (Jul., IV, 300)]. Che l'energia è sinonimo di virtù, Sade poteva averlo imparato da Machiavelli; ma il concetto era nell'aria: "Sì, io sono il più virtuoso degli uomini, perché sono il più forte", diceva ancòra Monsieur Nicolas. Ma tutt'e tre, avventuriero, marchese sbastigliato e poligrafo miserabile, Casanova Sade e Restif, non sopportano poi la vista della bestia trionfante, ossia della plebe al potere [Certo anche li infastidiva la coincidenza di certi principi giacobini con il Vangelo: "È inaudito (Jul., IV, 251) che i Giacobini della Repubblica francese abbiano voluto abbattere gli altari di un Dio che parlava esattamente il loro linguaggio". Non diversamente Restif diceva: il cristianesimo è una religione da sanculotti, e Gesù Cristo, Pietro e Paolo erano dei Jacobins outrés (Monsieur Nicolas, vi, 49). E si veda il "buon sanculotto signor G. Cristo", cit. dal KAMEN nella sua Inquisizione spagnola, pag. 289 (Feltrinelli)]; come la maggior parte degli intellettuali, che predicano la rivoluzione ma indietreggiano quando la predica dà i suoi frutti. Meno di un anno dopo la sua liberazione, Sade scrive all'avvocato Reinaud di Aix la sua professione di fede: non rimpiange l'ancien régime che lo ha reso infelice, ma la libertà non lo consola di vedere re e nobili alla mercé della canaglia sanculotta. La noblesse, mon souverain: adesso che è uscito dalla Bastiglia, gli piacerebbe tornare nei suoi ranghi, e che i badauds che lo hanno liberato rientrassero nei loro. Le idee rivoluzionarie andavano bene quando per fissarle non aveva che penna carta e fantasia, accesa dal sogno di un reame africano comunista di cui si dirà più oltre.

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Il re da cui è stato tenuto in prigione per quindici anni, Sade in fondo lo ama: le carceri del Terrore, dirà, mi hanno fatto rimpiangere la Bastiglia; probabilmente non si rendeva conto che rimpiangeva la sua giovinezza, quegli anni meravigliosi - dovevano essere tali nella memoria – in cui tra collere e disperazioni nasceva alla letteratura e alla filosofia. La libertà dell'individuo? Ma per il vero Sade, la vera libertà non ha luogo se non nei libertini, in quel chiuso mondo di caste che Roland Barthes ha così ben esaminato nel suo saggio "L'arbre du crime" [Ora in appendice a Le voyage d'Italie, Tchou, Parigi 1967]: le tre caste dei libertini, delle vittime, delle creature neutre piuttosto ombre che persone vere.
Tale, si sa, è la società sadiana. L'altra società, quella nata nell'Ottantanove, si va organizzando sotto i suoi occhi. E il Marchese è nella difficile situazione del sognatore, che non vuol essere tagliato fuori dal reale, soprattutto ora che il sogno pare stia per calarsi finalmente nell'opera letteraria, e non sa rinunciare al successo. Il "ci-devant" firma ora "Sade, homme de lettres"; vuole essere stampato, rappresentato, applaudito e pagato. Perciò deve barcamenarsi. Detenuto, nel 1794, nelle prigioni del Terrore, assicurerà di aver composto e fatto gettare nella carrozza dell'indegno Capeto ("mon souverain"...), rientrante dalla fuga di Varennes, una lettera fulminante [Ma Gilbert Lely dubita della veridicità di quell'episodio, forse inventato per salvar la testa da Fouquier-Tinville]. In realtà, la sua posizione di quegli anni è di un moderato, dell'empia setta anche lui: adora il re, ma detesta gli antichi abusi; accetta le due Camere secondo l'uso inglese, ma disprezza il Terzo Ordine: non sa lui stesso se è aristocratico o democratico. Si adegua ai tempi, semplicemente. Spesso, come accade agli intellettuali, li sbaglia. Così, nel 1792, è abbastanza naturale che il re gli diventi sotto la penna un "scellerato e traditore"; ma quando nel 1797 pubblica Juliette non pare rendersi conto che i tempi sono mutati, e scrive con scoppio polemico ritardato: "Uomini filosofi e liberi vedono con pena al di sopra di loro un uomo non migliore di loro... Nulla al mondo è più inutile di un re... È altrettanto male uccidere un calzolaio che un re, ossia non più che uccidere una mosca o una farfalla... Credi, Leopoldo [si tratta del granduca di Toscana], che la tormazione della tua persona non è costata alla comune madre più che la formazione di una scimmia". Maria Antonietta è definita "la prima puttana di Francia".
La generosità di Sade di fronte alla sventura, non bisogna dunque esagerarla. Comunque, incomincia sempre dalla parte giusta: Caritas Christi incipit ab ego... E neppure il suo opportunismo: uomo di forti energie e voglie, non intendeva esser staccato dagli avvenimenti, anche quando ciò lo costringeva a servirsi ampiamente del metodo delle due verità: una per sé per gli intimi e per i profondi, l'altra per il gregge e i potenti. La vita pubblica gli è necessaria dopo tanta segregazione, e guadagnare gli è necessario per vivere. Membro attivo della Section des Piques, incaricato della riforma degli ospedali, opera bene: il dottor Ramon afferma che per merito suo i malati poterono godere di un letto ciascuno, mentre prima erano coricati a due e anche a tre insieme [A riprova, ove occorresse, di quanto sia rischioso confondere il "pensiero" di Sade con quello dei suoi personaggi, suppergiù in quello stesso periodo Olympia Borghese confessava a Juliette: "Vorrei incendiare contemporaneamente, in Roma, tutti gli ospedali, tutti gli ospizi, tutti i ricoveri di carità, tutte le scuole gratuite" (Jul., IV, 186). Gli ospedali, spiega monsignor Chigi (ivi, pag. 211) sono una istituzione perniciosa per la società, prolungando l'esistenza dei poveri che dovrebbero invece essere sterminati come bestie inutili e perniciose: "Una delle prime leggi della natura è che nulla deve esserci di inutile nel mondo".] "Nella rivoluzione fino al collo", il candore di Sade è perfino commovente quando, nel '93, si fa esultante per la nomina a giurato: "Sono giudice, sì, sono giudice!". Gli pareva un riscatto, lui l'eterna vittima dei giudici. E con i tempi quali sono, la sua carica non è certo di tutto riposo. A stento, scrive a Gaufridy, riesce a disimpegnare la propria responsabilità da certe "inumanità" in cui vorrebbero coinvolgerlo i compagni (che di quella indulgenza gli serberanno rancore). I suoi vecchi nemici, i Montreuil, riesce a farli rientrare in una lista épuratoire, fra gli aristocratici discriminati – "questa è la mia vendetta!" -: una generosità che la sua filosofia avrebbe deriso. Nel settembre 1793, ottiene un gran successo col discorso "Ai Mani di Marat". Il pornografo si fa scrittore politico e oratore ufficiale. Compone varie petizioni per la sua Sezione, osservazioni per la riforma degli ospedali, il grande libello "Francais, encore un effort..."
Che veramente pensi tutto quel che scrive, è difficile credere: ma scrive. Da quando, nel carcere di Vincennes, ha scoperto la scrittura e lo stile, ci si è affidato con l'abbandono di chi era nato a questo; in realtà, finiva con l'identificare l'esistenza fisica con lo scrivere, come se ogni pagina fosse una inspirazione e una espirazione dei suoi polmoni. Come dice benissimo Blanchot a proposito della sua opera politica, la ricerca di Sade è affidata al "movimento di scrivere", la sua efficacia è nella "forza ripetitiva" di uno scrittore senza altre pause che quelle necessarie per il respiro. Una musica ininterrotta insomma, nella quale si risolvono, in quanto melodia e tecnica, le sue innumerabili contraddizioni.
Per salvare quella musica, a cui si conserverà fedele come alla sua scoperta e sua giustificazione, Sade non ha paura dei compromessi nella vita pratica: quando ritornerà l'èra delle sue prigioni, non dovrà costargli troppo il rinnegare la propria nobiltà ("I miei antenati sono stati agricoltori o negozianti, io non sono mai stato nobile"), l'esecrare figli e nipoti emigrati, l'insultare alla memoria del re e della regina: insomma il cercare con ogni mezzo di salvare quella testa, nella quale albergava il solo mondo degno del filosofo, e l'origine delle passioni: "il mio temperamento (...) agli ordini del mio cervello".
E, non che scagliargli la prima pietra, sarebbe piatta ironia rimproverargli di non essere coerente col suo sistema, che insegnava a non contrastare alla Natura quando con la morte provvede alla trasformazione dell'eterna materia. Evitata per un pelo la ghigliottina, il Marchese è salvato da Termidoro, vive in miseria sotto il Direttorio, che però gli consente, in quella che fu l'epoca più licenziosa della Francia, di pubblicare La nouvelle Justine e l'Histoire de Juliette, salvo a cedere a Napoleone, "quel villanzone dal mantello con le api" secondo la deliziosa definizione del Lely, il còmpito di imprigionarlo per oscenità. Il tiranno di turno, dopo l'infame Capeto e il sanguinario Robespierre, lo farà arrestare il 6 maggio 1801; ma l'ultimo a scandalizzarsene avrebbe dovuto essere proprio Sade, che aveva meditato molto sulla Storia e sulle eternamente simili vicende della politica.
E tuttavia di cose politiche era piatto scrittore, quando si trattava non di inventare ma di subire o di fissare gli eventi del reale sotto gli occhi; essendo, il reale, ribelle a lasciarsi contaminare o influenzare dalla filosofia. Sade non sapeva destreggiarsi che con i concetti e i fantasmi; o, per dirla ancòra col Blanchot, Sade non distingue il suo pensiero dalla potenza della sua immaginazione". Gli opuscoli politici Discorso ai Mani di Marat, Petizione ai rappresentanti del popolo francese, La "Section des Piques" ai fratelli e amici, non superano il lavoretto preparato e svolto con diligenza. Qualche sussulto sincero quando dal piano del giornalismo si passa a quello del ricordo autobiografico, e il ci-devant detenuto sfoga il suo rancore: "Eravate privo della libertà, Sire - scrive a Luigi XVI reduce da Varennes - ma nel più bel palazzo del mondo, mentre gli infelici vittime innocenti delle vostre lettres de cachet languivano nelle orrende bastiglie".
I luoghi comuni della politica militante si colorano qui, a malapena - con qualche vivacità solo quando l'astrazione del tema sia riempita dalla filosofia o dai rimpianti dell'uomo. I compagni di sezione dovettero far gran conto della prosa politica di Sade: l'inconfondibile uomo di lettere che "scrive bene", che sa citare a tempo Tito e Caligola, Eliogabalo e Vespasiano, che fa del "pensiero" accessibile a tutti, mentre sotto sotto ghigna prendendo il Dio dell'Universo o l'Essere supremo a testimone dei doveri dei re e della comune bassezza: "L'uomo vede forse la regina delle formiche? E Dio può vedere il re degli uomini?".
Gilbert Lely dice che l'Idea sul sistema della sanzione delle leggi, è il più originale di questi opuscoli: quello in cui Sade raccomanda ai rappresentanti del popolo legiferanti, il rispetto del popolo stesso, sovrano nell'approvazione e nella sanzione, e unico tutore della propria libertà. È vero che Solone, Bruto, i Tarquini, Tiberio, Nerone appaiono troppo spesso nomi al servizio di una retorica scolastica e della cadenza di una prosa (benché la venerazione dell'antichità romana fosse schiettissima in Sade, come provano il suo progetto di dar nomi di eroi romani alle strade di Parigi, e meglio ancòra tutta l'ultima parte di Juliette e il già studiato Voyage d'Italie); ma non manca il buon senso delle osservazioni e delle proposte, come dove avverte che il berretto della libertà fa presto a trasformarsi nel berretto del galeotto, o che l'armata rivoluzionaria progettata dalla Convenzione nazionale per la difesa di Parigi può con troppa facilità diventare un'armata di pretoriani al servizio di nuovi despoti; o dove suggerisce che ogni legge sia sottoposta a discussione davanti alle assemblee primarie formate in ogni capoluogo, e secondo il principio maggioritario accolta o respinta o corretta.

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Quel che salta agli occhi è l'urto fra quel che Sade pensava e diceva in privato (ed erano pensieri di un moderatismo prudente) e gli ardori che si imponeva scrivendo di politica; ardori a freddo per i "sublimi martiri della libertà" Marat e Le Pelletier: "Santa e divina libertà (... lasciaci unire i cipressi alle ghirlande di quercia di cui ti incoroniamo"... Sade doveva compiacersi di simili tratti di eloquenza tanto più meritori in quanto meno sinceri; bomme de lettres con tutti i vizi di quell'animale, doveva trarre ampio compiacimento dalle difficoltà superate nell'esaltarsi su comando, dall'armonia del periodo, e anche, suggerisce Lely, dagli obbligati applausi dei compagni che sostituivano per lui gli applausi che un popolo di malo gusto negava ai suoi parti teatrali.
Deve glorificare, è vero, l'altruismo di Marat, definire crudele l'opinione che fa dell'egoismo la base delle azioni umane: cioè deve rinnegare l'abbicì della sua filosofia. Ma è da credere che l'autore teatrale respinto dai teatri di Parigi, il romanziere clandestino, si sia sentito ebbro di orgoglio il giorno che la Section des Piques decretava la stampa del suo discorso, e l'invio alla Convenzione, alle Armate, ai dipartimenti nonché a tutte le autorità di Parigi.
Con l'arte retorica Sade essendosi sempre trovato a suo agio, si sente negli scritti politici la soddisfazione e qua e là l'ammiccamento dell'uomo che si esalta della propria oratoria rotonda più che delle idee, ed è retorico nel cantare la liberazione dei popoli dal dispotismo quanto è schietto nel cantare la propria liberazione dalle grinfie di madame de Montreuil: "Unica dea dei Francesi, santa e divina LIBERTÀ, permetti che al piede dei tuoi altari noi spargiamo ancòra qualche lacrima sulla perdita dei due più fedeli amici tuoi (... ) Sublimi martiri della libertà, ormai collocati nel tempio della Memoria, di là, venerati dagli uomini, voi volerete in alto, simili agli astri benèfici che li illuminano"... E via di questo passo, piatto da far pietà.
Ma gli sfoghi privati suonano tutt'altra musica, assai più persuasiva: "Affari importanti mi trattengono qui (a Parigi), e la paura di essere impiccato in Provenza sulle forche democratiche. (...) Ma non prendetemi per un fanatico. Non sono che imparziale, addolorato di perder tutto, più addolorato ancòra di vedere il mio sovrano in catene (... ) Valenza, Montauban, Marsiglia son diventate teatro di orrori, nei quali dei cannibali eseguono ogni giorno drammi all'inglese (drammi sanguinari) da far rizzare i capelli" (lett. del 2 maggio 1790 a Reinaud di Aix). E alla fine del Terrore, il 21 gennaio del 1795, scriverà a Gaufridy: "La mia detenzione nazionale, con la ghigliottina sotto gli occhi, mi ha fatto cento volte più male che tutte le immaginabili bastiglie".
Scrittore di solitudine, a contatto con i suoi simili o piuttosto dissimili, in mezzo a una società che da troppo tempo aveva dimenticato trasfigurandola in quella che Guido Piovene ha definito la sua "antisocietà di démoni" (la società dei suoi romanzi), anche Sade si corrompe come certi metalli a contatto con l'aria. O, a volerla dire romanticamente, Sade è come l'albatros di Baudelaire, maladroit et honteux non appena scende sulla tolda della nave dall'azzurro di cui è re. Per discorrere degnamente di politica, Sade non ha bisogno di meno che degli otto torni del romanzo Aline et Valcour con i suoi reami africani.

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Resta, naturalmente, Français, encore un effort, il pamphlet del 1795 con cui la filosofia di Sade fa il suo maggior sforzo per uscire alla luce della Rivoluzione, abbandonando l'antro dei romanzi neri. Non avrebbe certo osato darne lettura ai compagni della Section des Piques, ai quali ammanniva solo chiacchiere generiche.
Il libello, piccola summa della sua filosofia sociale, si direbbe frutto di una risoluzione meditata di Sade: di accettare la Rivoluzione a patto di esserne accettato come Sade, non come cittadino militante in una sezione. Lo scrittore il filosofo, il profeta Sade chiedono di essere ascoltati. Da cima a fondo, il pamphlet è un solenne ‘favete linguis’ e un sottinteso ‘odi pro fanum vulgus’; scritto solamente per coloro che sanno capire. Repubblicano sì, ma non senza equivoci: il primo dei quali è già l'inserimento del pezzo tra un dialogo e l'altro di una scuola di libertinaggio, la Philosophie dans le boudoir. Inserimento arbitrario, dice Lely, il cui scopo sarebbe di rinfrescare azioni e costumi dell'operetta libertina, troppo profumata di ancien régime.
Crediamo che l'intento di Sade fosse più serio e chiarificatore: si trattava di fondere le due personalità che a molti certo sfuggivano, dello scrittore erotico e del politico; di proclamare a viso aperto che quelle due personalità ne formavano una sola, e che tra politica ed erotismo non esisteva soluzione di continuità se non convenzionalmente. La politica è un erotismo, o quanto meno ne è una premessa. Pamphlet repubblicano certo; ma fino a che punto ortodosso si può vedere già da questo, che quando tra un'orgia e l'altra il Cavaliere si accinge a leggere Français... con patriottica enfasi, madame de Saint-Ange congeda il contadinotto Augustin - precedentemente convocato a portare il contributo della sua giovane virilità con questa frase: "Esci, Augustin: questo non è per te". Come dire che la filosofia politica è un affare di lusso fra aristocratici, mentre alla plebe maschile e femminile resta l'onore di servire lorsignori nei loro vizi. Poi, a porte chiuse, Sade brandisce la fiaccola e si scaglia nella predicazione, con la gioia nuova di poter gridare a viso aperto quel che aveva finora sussurrato ai pochi degni di capire: guerra a tutte le religioni compreso il deismo, morte all'infame Robespierre restauratore del culto, omaggio devoto alla Natura sola guida (ma nella sua mente profonda è da supporre che la Natura sia già anche ‘la garce, la grande putain’ che vedremo dominare i suoi romanzi), libertà per il libertinaggio, per il furto, per l'assassinio:
("Io domando quale valore possono avere per la natura individui che non le costano né pena né cura (...) Costa l'uomo alla natura? E supponendo di sì, costa più di una scimmia o di un elefante?"),
case chiuse, anzi aperte giorno e notte, sia per gli uomini che per le donne, libertà di sodomia:
("Non c'è nulla di pericoloso in simili manie: si arrivasse anche ad accoppiarsi con morti o con animali, si tratta sempre di piccolezze prive di inconvenienti, dal momento che la corruzione è spesso utilissima ai governi e mai nociva"),
libertà di incesto: ("Pericoloso, l'incesto? Al contrario, estende i legami familiari e rende per ciò più attivo l'amore dei cittadini per la patria").
Uscito dal chiuso della retorica da tavolino, Sade si lancia negli spazi infiniti dell'eloquenza, assapora l'ebbrezza di poter proclamare dalla tribuna, cittadino virtuoso della repubblica, quelle medesime cose che dal fondo del carcere lo avevano fatto passare per un criminale o un demente. Gli "orrendi scritti" di una volta rischiavano di diventare prosa nazionale, e il diabolico Sade è abbastanza ingenuo da crederlo possibile, da non rendersi conto che nessuna società può ammettere sul serio di esser messa con la testa in giù e le gambe in su: se arriva ad accettare la oscenità tout court, rifiuterà vigorosamente le conseguenze della oscenità filosofica. "Francesi, ancòra uno sforzo", ed ecco i costumi della nuova società che Sade si illude di poter far accogliere: incesto, infanticidio, assassinio... Sade ci sguazza a grandi bracciate, solo alzando un poco il tono, augusto e solenne come alla situazione si addice.
(Ma come forse non si addiceva alla piccola carriera politica del cittadino Sade, o Brutus Sade come si era ribattezzato. Accasatosi con una povera vedova, Marie-Constance Quesnet, qualche volta rappresentato e più spesso respinto dai teatri della capitale - come si vedrà più oltre -, segretario e presidente della Section des Piques, incarcerato come "sospetto" il dicembre del 1793, sfuggito per un pelo a Fouquier-Tinville, rimesso in libertà dopo Termidoro, il 15 ottobre del 1794).
Veramente, se la sua ingenuità si spingesse fino al punto di credere che una rivoluzione organizzata e anzi burocratizzata potesse accogliere la proposta di una anarchia, somigliante tanto da vicino all'altra invenzione sadiana, la "Società degli amici del crimine", non sappiamo; forse, predicatore d'istinto qual era, si illudeva di poter giocare, come molti avevano fatto, sulle due prediche: una per la plebe, l'altra per i soli profondi. A quella parlava di repubblica, di giustizia, di virtù civica e di eguaglianza; a questi, della libertà illimitata del libertino, a cui il mondo serve da materia prima, il cui cervello è al servizio dei vizi. Le Azioni le Passioni e gli Eroi: tali paiono essere i veri dèi della repubblica, come erano stati per i Romani. In questo culto, Sade poteva sentirsi sinceramente repubblicano, e spregiare la monotonia conformista del vecchio regime. Quel che non arrivava a capire, è che la repubblica sanculotta si andava legalizzando, anzi quel processo era cominciato fin dalla presa della Bastiglia; e non potendo sussistere in perpetuo stato insurrezionale, non poteva neanche permettersi di essere "immorale" come lui avrebbe voluto: "il bisogno di immoralità nei costumi repubblicani" non era che la proiezione dell'antico vizio dello scrittore e del suo pregiudizio favorevole al dispotismo, indissolubile dalla natura profonda del libertino.

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Come sempre, Sade è eloquente quando perora pro domo sua; lui, è quel cittadino di cui scrive che "solo dopo aver esaurita la sua dose naturale di dispotismo è pronto a trasformarsi in buon repubblicano"; lui, è il libertino che non si riconosce il diritto di legare una donna a sé col matrimonio, però quello di godere di lei anche con la forza, e di goderne in qualsiasi forma bizzarra ed eterodossa, tutto essendo nella natura,la garce immortalÈ. La conclusione poi, con uno di quegli sbalzi di tono che sono caratteristici di Sade e paiono qualche volta corrispondere a una impennata umoristica, è piena di buon senso e addirittura di sensi profetici: fate buone leggi, dice ai suoi concittadini, e fatene poche; cacciate i nemici dalla Francia, ma non inseguiteli oltre i confini; di una guerra di conquista e di crociata, il vecchio dispotismo approfitterebbe per rialzare la testa.
E tutto finisce con il tono del discorso ufficiale; che si alterna fino alla fine con l'altro tono, quello che Sade usava per i pochi capaci di intenderlo e in cui il suo programma non si contentava di meno che della distruzione dell'esistente. Sade, dice Blanchot a proposito di Francais..., si contraddice spesso: ma si contraddice proprio perché qualche cosa in lui è alla ricerca, non di interrogazione in interrogazione, ma attraverso affermazioni chiare e perentorie. È osservazione esattissima, che va applicata a tutto Sade, di cui le contraddizioni non si limitano agli opuscoli politici, anzi dilagano per le lettere i romanzi i dialoghi, e non c'è pagina di quell'immensa opera che non si trovi a polemizzare con la pagina precedente o con la pagina seguente, ogni volta con il medesimo ardore e la medesima ferocia spirituale: e per esempio la morte dell'ateo, questo clou di Sade e di tutta la letteratura materialista del Settecento, gli detta pagine assai belle ma non più belle che la morte di una creatura eletta che sale agli angeli, santa del suo patire, come Aline nel romanzo omonimo. Culto di Sade per la retorica, certo, che si lecca i baffi quando può sostenere in una certa pagina che l'omicidio è indifferente anzi necessario alla Natura, e due pagine dopo che gli autori di atrocità (per esempio quelle del Terrore) eccitano l'orrore e l'indignazione degli uomini saggi. Contraddizione doppia, dunque: ché se Sade filosofo esalta la strage, Sade uomo si indigna delle stragi di Settembre e tenta di salvar qualche testa oltre la propria, mentre invece Sade politico si barcamena...
In verità, noi dimentichiamo troppo spesso (per colpa sua, del resto) che Sade è dopo tutto romanziere, che le affermazioni varie o contrarie appartengono di diritto ai personaggi; e poiché nel contesto dell'opera esse condensano il sugo estratto dagli avvenimenti, è spesso arbitrario distinguere quel che fa parte di un disegno, e quasi di un sistema, da quel che rappresenta una contingente situazione narrativa o magari l'umore momentaneo dello scrittore. Occorre insomma procedere ‘a naso’, seguire nei mille laberinti le tracce del Marchese al suo ‘odorÈ. Ora, Sade, prima durante e dopo la Rivoluzione, ha odore di genuinità e di opportunismo, di scaltrezza di ferocia e di ingenuità, di gusto dello scandalo e di amore della verità, di resina che stilli dalla fiaccola della Filosofia e di fiele spremuto dal rancore. Dare armonia di sistema a tante e così varie contraddizioni, è dunque impresa illegittima prima ancòra che disperata. A meno di evadere dal pensiero politico per entrare decisamente nel pensiero filosofico, come ha fatto Pierre Klossowski nella sua celebre operetta SADE, MON PROCHAIN, del 1947. La tesi del critico e romanziere francese merita di essere esposta con qualche ampiezza.
In Sade, dice, agiva la cattiva coscienza del gran signore libertino, che dalla esplosione rivoluzionaria aspettava una sorta di oscuro riscatto, "un rifacimento totale della struttura dell'uomo": quasi un rinnegamento del se stesso sociale e una esaltazione del suo io profondo. Rivoluzionario non in quanto ex prigioniero della Bastiglia ma in quanto filosofo, Sade pensa meno al male sociale che al Male in sé: avverte con angoscia che il Male assoluto è presenza che sta sempre per rivelarsi: rivelandosi, si autodistruggerebbe. Tale rivelazione e distruzione, Sade le aspetta dai fatti dell' '89, apportatori dell'ora zero dell'anarchia, una specie di bomba atomica sulle cui rovine avrebbe finalmente regnato il "silenzio delle leggi", e l'inizio del discorso dell'uomo.
L'analisi di quella speranza delusa, il Klossowski la conduce da maestro. L'atteggiamento di Sade verso il re, per esempio. Per i teorici laici della Rivoluzione, con Luigi XVI muore il Capeto traditore; per i cattolici controrivoluzionari, muore l'unto di Dio: e Sade è con questi ultimi (nel suo pensiero profondo e celato, beninteso, non nelle manifestazioni pubbliche). Solo che non depreca, ma esalta della nuova società che sta per nascere, il carattere "caìnico", conseguenza di un delitto inespiabile, come quello che si è consumato sull'unto di Dio. Caìnico, cioè religioso all'inverso, non laico.
Volendo calare un poco dal piano speculativo a quello biografico, non mancano particolari obiezioni alla tesi del critico: per esempio, che nella fedeltà (relativa) al re gioca certo anche la mentalità dell'ufficiale di cavalleria che Sade era stato 'nonché l'orgoglio dell'aristocratico che può bene arrivare a criticare il suo signore, ma non mai a confondersi con i critici plebei, cosicché la sua audacia rivoluzionaria non va oltre il programma di una aristocrazia rinnovata, autoritaria ma non corrotta [È la tesi di JEAN-MARIE GOULEMOT nel citato volume Le marquis de Sade, ed. Armand Cohn, 1968]. Ma resta straordinariamente illuminante l'osservazione del Klossowski, che il pensiero politico del Marchese si nutre di spirito "religioso" assai più che laico, conseguenza naturale di un giudizio che vede la Rivoluzione come "uccisione di Dio" per la interposta persona del re: per cui nella società postrivoluzionaria non ci sarà più posto per un patto sociale, e anzi l'assassinio originario dovrà perpetuarsi attraverso un progressivo annientamento dell'idea di Dio nella vita familiare e sociale. Ritorna così, erotismo a parte, il ruolo profetico di Sade e il segreto della sua incidenza nel nostro tempo. E forse, insieme, la sua funzione di distruttore e creatore di utopie.


Il romanzo dell'utopia: "Aline e Valcour"


L'utopia non si accorda facilmente con la frequentazione di una Sezione rivoluzionaria. Così il Sade uomo libero non farà che ritoccare e ammodernare il romanzo utopistico che si era portato dietro come uno dei più preziosi frutti delle sue prigioni, Aline e Valcour, prima di pubblicarlo nel 1795.
Aline e Valcour, otto torni nella edizione originale, quattro fitti tomi nella recente edizione Pauvert, è per lo meno tre cose: un romanzaccio di appendice, un trattato di filosofia e un sogno utopistico.
La trama del romanzaccio, qual è? Il président de Biamont, innamorato della propria figlia Aline (che poi risulterà non essere affatto sua figlia), vuol darla in moglie al libertino Dolbourg, marito di comodo. Ora, Aline è innamorata del virtuoso Valcour, sostenuto anche dalla nobile signora de Blarnont. Furioso, il marito incestuoso la fa assassinare, e cerca di fare altrettanto con Valcour; il quale però si salva miracolosamente per andare a morire di disperazione in un convento, alla notizia che la sua dolce Aline si è sottratta al disonore uccidendosi. Il malvagio morirà poi assassinato a Londra, mentre il complice Dolbourg cadrà nella devozione donando le mal usate ricchezze ai poveri.
Questa robaccia è poco, per riempire otto tomi: ma c'è poi, malamente intrecciata, la storia di Léonore (alias Elisabeth de Kermenie, alias Claire vera figlia di Blamont) e del suo viaggio intorno al mondo, i suoi amori contrastati con Sainville, equivoci riconoscimenti imbrogli Inquisizione e torture...
Ora, nel corso del loro involontario viaggio intorno al mondo, Léonore e Sainville càpitano nel regno africano di Butua, tiranneggiato da Ben Maacoro - e successivamente nell'isola felice di Tamoé, regno del buon re Zamé. Qui Sade suona la tromba, prima di spiegare le vele per il reame dell'utopia. Utopia nera la prima, rosea la seconda: nelle quali il Marchese pretendeva forse di presentarsi, con la pubblicazione del 1795, come il profeta del passaggio storico, datato 1789, fra l'antico regno del dispotismo e la fresca felicità repubblicana; non senza qualche aggiunta al testo composto in prigione, aggiunta che doveva convincere delle sue facoltà profetiche, mentre si trattava senza dubbio di profezie post factum, come quelle che Dante mette nella bocca dei suoi personaggi.
Se davvero i due reami africani volevano essere un quadro "realistico" dell'antico e del nuovo regime, separati dalla rivoluzione a venire, si spiega la delusione di Sade quando nella vera rivoluzione si trovò dentro fino ai capelli. Quello del malvagio re Ben Macoro, ancòra può apparire come una mostruosa rappresentazione (in uno specchio deformante) di ogni regime dispotico e dunque anche di quello di Luigi XVI; e chi ricorda l'odio di Sade per il ministro di polizia Sartine, più volte accusato di essere il ruffiano del re, può vederne una versione romanzesca nel portoghese Sarmiento, il ruffiano di Ben Mâacoro. Vediamola dunque questa utopia "nera", o utopia a rovescio, del reame di Butua. Il sovrano è un despota crudele, che però non disdegna di filosofare per bocca propria o di Sarmiento: gli uomini e le donne sono stati messi al mondo per il piacere di chi li comanda, e la loro esistenza è più o meno giustificata a seconda del piacere che sono in grado di fornirgli: "una donna è fatta per dar piacere e non per essere adorata". In base a questi principi, le donne del re (in numero di dodicimila) si suddividono in quattro classi: le più robuste, sono addette alla guardia del palazzo; quelle fra i venti-trent'anni, fanno i lavori pesanti; tra i sedici e i venti, servono ai sacrifici; e solo il for fiore del reame, le giovinette dai dodici ai sedici anni, sono addette al letto del re.

Come nell'harem del sovrano, anche nella capanna del più povero dei suoi sudditi il capofamiglia ha diritto di vita e di morte sulle donne di casa (qui senti Sade che si lecca le labbra raccontando come "mai la moglie parla al marito se non in ginocchio; mai viene ammessa alla sua tavola, anzi vien nutrita solo degli avanzi che il marito butta nell'angolo della casa"); l'infanticidio è un diritto del padre, come l'incesto e la sodomia; le leggi ci sono, ma organizzate in modo che il debole ne sia schiacciato e il potente tutelato da qualsiasi ribellione; la religione, è protetta dallo Stato al fine di rendere i sudditi "devoti, crudeli e superstiziosi".
È insomma il regno del malgoverno (piuttosto realtà esasperata che veramente utopia), schematizzato in un trattatello che può sembrare una sorta di Principe machiavelliano grottesco e senza sfumature. Come senza sfumature, ma nel genere rugiadoso, è l'utopia "rosa" del reame di Tamoé, sotto il santo vegliardo Zamé: padre ugualmente benevolo per le mogli i figli e i sudditi. Vegetariani e astemi, i buoni tamoesi realizzano volonterosamente una società comunista: essendo tutti eguali, non hanno passioni; non avendo passioni, si accontentano di pochissime leggi, o piuttosto regolamenti civici. La loro felicità ha inizio da quando, bambini, sono sottratti ai loro genitori per essere allevati in comune a cura dello Stato; fatti adulti, ciascuno è avviato per la strada che meglio gli si addice: né hanno invidia o rancori, perché nessuno possiede nulla e a ciascuno è dato quanto gli basta. Gli scapoli hanno diritto a una piccola casetta, gli sposati a una più vasta: e tutte ritornano allo Stato dopo la morte dei locatari. Nessuno sa che cosa sia lusso, dato che non esistono, per esempio, che stoffe e vestiti di tre colori: grigio per gli anziani, verde per gli adulti, rosa per i giovani (però "la stoffa è delicata e soffice, e rassomiglia un po' al taffetà di Firenze"). In così pacifico vivere di cittadini, di punizioni non c'è bisogno: se qualcuno manca ai propri doveri, è sufficiente farlo arrossire appellandosi al suo senso dell'onore. "Avete almeno delle prigioni?", domanda l'ingenuo visitatore. Ohibò, qui il tono monotono dell'esposizione si vivifica dell'indignazione di Sade, il quale si mette a pensare a se stesso prigioniero "innocente": la prigione, questa "abominevole istituzione"! "Non è isolando un colpevole che lo si emenda, ma restituendolo alla società ch'egli ha offeso". "Ridotto a una nefasta solitudine, a uno sterile vegetare, a un fatale abbandono, i suoi vizi germinano, il sangue ribolle, il cervello fermenta; l'impossibilità di soddisfare i propri desideri ne rafforza le colpevoli cause, e quando esce si è fatto più astuto e più pericoloso"... (Sto formando dei fantasmi, aveva scritto Sade a madame de Montreuil, che un giorno dovrò ben realizzare).
A questo punto Sade ha una intuizione tutto sadiana per conciliare il diritto alla violenza col diritto alla felicità collettiva. Poniamo, dice, che in uno Stato composto da 4000 individui, la metà goda nell'opprimere l'altra metà; e chiamiamo, a modo di esempio, bianchi i primi, neri i secondi. Vogliamo impedire ai bianchi di opprimere? Ne facciamo degli infelici, dei frustrati, e noi vogliamo che tutti siano felici, non è vero? Allora che si fa? Si lascia che opprimano a loro agio; e poi li si punisce, obbligandoli a risarcire gli oppressi con un compenso pattuito. "Ecco, di conseguenza, i 4000 sudditi felici, i bianchi perché possono opprimere i neri, i neri perché sono equamente risarciti; tutti soddisfatti e nessuno punito; gli uni prepotenti gli altri vittime, ma tutti egualmente soddisfatti". Come faceva Sade, che pagava generosamente le filles di Arcueil di Marsiglia e di La Coste, e si sentiva così innocentemente felice in un mondo di filles felici. Ma poi, all'inizio dell'èra coloniale, quella di Sade, ingenua che possa apparire, era una teoria destinata ad andare lontano, fino all'apartheid. Ecco dunque un Sade profeta non soltanto dell'erotismo ma anche del colonialismo.
A questo punto, non significa molto la domanda che qualche critico si pone, se l'utopia secondo il cuore di Sade sia quella del reame malvagio o quella del reame buono: dato che nell'una e nell'altra c'è "del Sade", e in tutt'e due c'è il suo gusto, predominante, di uomo di lettere per cui la verità di una tesi è prima di tutto nell'arte retorica che la sviluppa. L'essenziale, per Sade, è di salvare i diritti del libertino, cioè il privilegio della violenza: e il regno tutto nero di Butua anche al libertino può alla lunga apparire monotono, mentre il candore dei tamoesi gli offre il piccante del contrasto, e in definitiva la più illimitata libertà di agire con lo scotto di un adeguato risarcimento da offrire alle vittime.
Due società paradigmatiche immaginate con assoluta imparzialità, in cui l'utopia scuote ugualmente il suo berretto a sonagli e adotta il tono stupefatto della visione:
"Io mi sentii trasportato a quei tempi felici dell'età dell'oro"...

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Del resto, la letteratura utopistica era già vasta, e antica: dalla Repubblica di Platone all'Utopia di Moro alla Nuova Atlantide di Bacone alla Città del Sole di Campanella alla Repubblica di Oceana di James Harrington: Sade ne conosceva certo buona parte. Avendone tempo e spazio, si potrebbero fare dunque molti e svariati confronti; benché le tracce degli utopisti classici paiano meno evidenti in Sade che, per esempio, nella visione comunistica del contemporaneo Restif de la Bretonne. Comunista anche lui, a modo suo, Sade deve aver scelto l'Africa per quella nuova società perché, dice in Juliette (III, 298), là gli uomini sono viziosi crudeli e feroci, con temperamento dunque che, per essere più vicino alle leggi naturali, è "preferibile alla semplice grossolanità degli americani, alla astuzia europea e alla mollezza degli asiatici". Una società-cavia, insomma, destinata a controllare quanto può sopravvivere di natura in una società riformata dall'intelletto umano, più che dalle passioni, qual era stata (o sarà) la rivoluzione francese. "Una grande rivoluzione si prepara nella tua patria", profetizzava a cose fatte il buon re Zamé. In realtà, la società comunista di Aline et Valcour, che appartenga intera alla redazione originale del 1785-88, o più probabilmente sia stata aggiornata per la pubblicazione del 1795, segna un passo indietro rispetto alla società giacobina, come un annacquamento di quei rossi giorni che avevano spaventato Sade: anche il tono stilistico, odoroso d'incenso alla Bernardin de Saint-Pierre, dice che Sade è altrove col pensiero, magari all'altro suo reame africano di Ben Mâacoro, dove il male è concreto e irrobustito dallo stile, e sa di zolfo.
Che tutti gli uomini fossero uguali per natura, Sade filosofo poteva crederlo - ma non Sade artista. Ammirava e amava Rousseau; ma al mito del buon selvaggio preferiva sostituire il mito del cattivo selvaggio. Tornare alla natura voleva significare per lui rientrare nella ferocia originaria. Così, lo scellerato Cornaro predica il ritorno dell'uomo "alle agresti foreste che lo videro nascere" (Juliette, VI, 207): "Là, lasciate che faccia quel che gli piace: i suoi crimini, solitari come lui, saranno senza inconvenienti, e i vostri freni sociali diventeranno inutili".
Chi alla natura credeva invece integralmente era Restif de la Bretonne, che a ricostruire, come fa nella sua Politica, la vita luminosa di un popolo comunista (pensa anche lui agli Othomacos, e agli Ottentotti), "gli occhi gli si riempiono di lacrime di gioia". Ma, più realisticamente di Sade, ha capito che il comunismo non sarà un ritorno alle origini edeniche dell'umanità, sarà anzi il capolavoro della sociabilità contro la natura; il fatto è che Restif credeva immensamente nell'uomo, che amava immensamente. L'apparato può sembrare identico a quello di Sade, riferendosi ai medesimi modelli, ma la vita che vi ferve dentro è diversa, un alveare di operosità gioiosa, di felicità quotidiana che rispecchia fedelmente, al di là delle concezioni spesso banali, l'amor vitae di Restif contrapposto alla tetraggine di Sade. In entrambi, è il curioso gusto di una società variopinta, che pare vivere nei colori secondo un uso costante delle società utopistiche: in Restif, i bambini vestono di bianco o di viola, gli uomini di verde mare, i vecchi di verde bottiglia, i delinquenti di nero, rossiccio o grigio secondo il delitto...
Anche a Restif, del resto, la natura campagnola come a Sade quella aristocratica - aveva vietato di apprezzare quel tanto di avviamento al comunismo che la Rivoluzione poteva promettere; davanti all'idea del popolo sovrano, lo arresta una perplessità puramente borghese: prima della Rivoluzione, dice, la massa era priva di diritti, ma anche esente dalle vicissitudini dei Grandi; ora è libera, ma insieme è entrata nella Storia, privilegio che si paga caro. "Era meglio prima? È meglio adesso? Non lo so". E poi non ci sarà mai comunismo. I fripons e gli scélérats, gli spiriti faux e biscornus, cioè i tre quarti del genere umano, sono lì a impedirlo o a sfruttarlo a proprio beneficio.
In quella società prodigiosamente mossa del Settecento, ciascuno manovrava utopie e organizzava isole felici come pedine su una scacchiera, Sade mirando a creare la premessa di un immenso campo di azione per il suo sogno di erotismo. Restif di un mercato più favorevole per lo smercio dei suoi libri, di uno sfogo per la sua gigantesca capacità di lavoro [Nella nuova società, la classe degli scrittori sarà tenuta a lavorare con regolarità, le loro opere saranno edite a spese dello Stato; ma coloro che dopo qualche anno non avranno scritto che libri osceni (leggi Sade...), o chiacchiere senza costrutto, saranno invitati a cambiar mestiere]. Solo per Casanova, il mondo andava bene come era sempre andato, e ce n'era d'avanzo. Non per questo Casanova era peggiore degli altri due. Quel che difetta ai grandi Libertini del secolo, è una società inquadrata nella Storia, e comunque concepita con disinteresse.
Né Sade né Restif probabilmente avevano letto l'inedito Testamento del curato Meslier, che all'inizio del Settecento resta il più severo e relativamente realistico progetto di una rivoluzione integrale, o di una "contestazione globale"; secondo Maurice Dommanget, un autentico "antenato della società rivoluzionaria e del comunismo" [Il che spiega la scarsa fortuna di Meslier e del suo Testament in Occidente, a contrasto con la grande che ebbe in Russia e in genere nell'Europa comunista, come documenta il saggio fondamentale di M&uaicz DOMMANGET, Le curé Meslier, ed. Julliard, Parigi 1965]. Da simile lettura, è dubbio che avrebbero tratto gran giovamento. Le radici ideali erano magari comuni: anche il curato rosso Meslier si ispirava al Vangelo contro le Chiese, a Platone e perfino a Lucrezio Virgilio e Ovidio, ma si esercitava poi sulle cose concrete, la condizione contadina al principio del XVIII secolo: e partito dalla collera tendeva a organizzare una società atea e materialista non per amor di letteratura o di "una intellettuale fiaccola della filosofia" (Dommanget), ma per nudo e per così dire illetterato amor di giustizia. Al contrario dell'aristocratico Sade e dell'erotomane e poligrafo Restif, il curato-contadino di Estrepigny preconizzava l'unione dei proletari di tutto il mondo, o quantomeno intuiva che la nuova società sarebbe sorta da un accordo o da una comunicazione "segreta" di tutti i derelitti. E credeva nella diffusione della cultura come preparazione alla rivolta. Non preparava il ritorno al buon selvaggio, ma l'avvento di una società più felice perché più libera, e più libera perché più civile.
Quanto a Sade, a cui torniamo, la sua società ideale restava dopo tutto il castello di Silling sperduto nella Foresta Nera, dove quattro libertini cercano, nelle 120 journées de Sodome, sotto il regno di Luigi XIV, la solitudine dal mondo in compagnia di quarantadue oggetti di lussuria, e dove la comunanza dei beni era bensì assoluta, ma riservata ai quattro padroni. Una politica, per Sade, era prima di tutto "sistematizzare" i propri vizi. E, dice Juliette, in una società la spada sta meglio nelle mani dei singoli individui, con i loro interessi personali, che nelle mani della giustizia in cui si accumulano gli interessi di tutti i legislatori che dal tempo dei tempi dominano il mondo. È la libertà dell'ego che conta, e la libertà dell'eros, le sole in definitiva su cui il Sade marchese e il Sade cittadino potevano trovarsi d'accordo.