LUIGI BÀCCOLO


CHE COSA HA VERAMENTE DETTO
IL MARCHESE DE SADE


5. L'ALTRO SADE

Il 2 aprile del 1801, Sade riprende, per non più lasciarla, la strada maestra delle prigioni. Jean Paulhan sentenzia che quella nuova privazione di libertà Sade doveva averla desiderata come la sua più vera condizione, per disgusto della libertà quale, conosciutala, gli era apparsa; o come si desidera il luogo natio, aggiungiamo noi, dato che lì era nato alla scrittura. E c'era poi stata la miseria che lo aveva accompagnato, lui e la sua compagna madame Quesnet, e di cui la cronaca del Lely fornisce momenti penosi: nell'ottobre del 1798, il Marchese rifugiatosi in una sua terra della Beauce è costretto a "errare a destra e a sinistra" in cerca di una avara ospitalità; nel gennaio del 1799, in una soffitta di Versailles, senza legna per scaldarsi, si nutre di carote e di fave, come già altra volta si era nutrito, dice lui, di pane e acqua zuccherata.
Intanto, Justine e Juliette facevano scandalo: un libello del 1799 presenta Sade come "l'infame scrittore" il cui solo nome "esala odore cadaverico che uccide la virtù e ispira orrore". Anche L'ami des lois lo attacca a fondo. Sade si difende debolmente: nega di essere l'autore "dell'infame Justine" (uscita anonima), proclama la sua fede repubblicana e la purità della sua vita. Vorrebbe oramai essere l'altro Sade, il Sade presentabile in società che scrive drammi commedie e romanzi "rosa" - rosa rispetto al "nero" di Justine.
Poi arriva il 2 aprile 1801, l'arresto per pubblicazione oscena, il carcere di Sainte-Pélagie
[Una lunga tradizione vuole che l'incarcerazione fosse dovuta a un libello - Zoloé et ses deux acolytes - contro Bonaparte, Tallien, Barras e altri figuri del gruppo. Ora è provato che Sade non ne fu l'autore (era forse di un certo Rosset, secondo Jean Tulard) e che il libello non figurò tra i capi di imputazione]. Di lì a Bicétre (marzo 1803), da Bicêtre a Charenton (aprile 1803), "Christophe" Sade riprende il suo calvario di prigioniero. Ne segna le stazioni un epitaffio di Sade stesso, citato dal Lely, che non è bello ma commuove: il passante è invitato a inginocchiarsi presso la tomba "del più sventurato degli uomini", vittima prima del Dispotismo "dal ripugnante aspetto", poi del Terrore, infine del Consolato: 'Sade en est toujours la victime'.
Di nuovo fra quattro mura, dall'aprile del 1803 in compagnia di dementi, il Marchese si illude forse di ripetere il miracolo degli anni 1777-1789, la salvezza attraverso lo stile e la filosofia; ma i miracoli non si ripetono, e del resto la bestia è vecchia, obesa, malata d'occhi, e ha provato il gusto (e il disgusto) di quella pericolosa droga chiamata libertà. Una droga ancor più pericolosa gli è stato il pubblico; scrittore edito e letto, Sade non sa più adattarsi al lavoro segreto di un tempo, quel suo "realizzar fantasmi" per il proprio sfogo: d'ora in poi comporrà romanzi destinati al pubblico, La marquise de Gange nel 1807-1812, Adélaide de Brunswick nel 1812, Isabelle de Bavière nel 1813. Il lavoro dell'altro Sade, se vogliamo chiamarlo così per contrapporlo al nostro Sade, quello più clandestino e per ciò più operante in profondità, non comincia del resto dalle ultime prigioni, ma comprende opere precedenti a cui si è già accennato, i Crimes de l'amour e Historiettes contes e fabliaux, entrambe del 1787-1788.

***

Questo Sade, che va dunque dal 1787 al 1813, merita di essere veduto un po' da vicino: è il Sade che non si affida al mostruosamente pornografico o al terrorismo ideologico per interessare i lettori, che anzi si sforza di uscire dalla clandestinità alla luce del giorno, di esercitare insomma onoratamente il mestiere di letterato; e a tal fine non si fa scrupolo di moralizzare le sue storie. Qui, il critico si sente in diritto di dire: ora, Marchese, a noi due; qui non ha luogo l'imposizione della tua leggenda o della tua demenza erotica; e dal momento che ti presenti armato dei soli mezzi della parola e dello stile, " qui si parrà la tua nobilitate".
In realtà, con Sade le cose non si passano mai così tranquillamente. Intanto, la prospettiva morale non è poi tanto diversa, è anzi identica nella sostanza a quella dei romanzi neri: la morale delle Passioni e degli Eroi. "Solo le grandi passioni", si legge per esempio in Juliette IV 220, "possono generare grandi uomini". E siccome la tradizione retorica vuole che i grandi uomini prendano il nome di Eroi solamente quando si collocano nella Storia, è alla Storia che Sade chiede quasi sempre di inquadrare, nobilitandoli, i personaggi di fantasia. Il còmpito del romanzo storico, è detto in Isabella di Baviera, è di esporre i fatti incontestabili limitandosi a colmare le lacune con fatti verisimili: disposti però in modo da far "stupire" il lettore. Questa estetica barocca della "meraviglia" bisogna tenerla ben presente se si vuole evitare di fraintendere la "dismisura" di Sade, il suo costante sostituir il monstrum all'uomo. Ora, se il monstrum si chiama Juliette, l'autore rischia di essere lui stesso giudicato tale - se si chiama Isabella di Baviera, l'autore può sempre dire: io non ho inventato nulla, è la Storia. La Storia insomma, in cui Sade colloca i più dei suoi racconti, diventa una sorta di autogiustificazione o, se si preferisce, di alibi. Difatti, la sua epoca prediletta è il Medioevo, magari un Medioevo di maniera, con i suoi castelli solitari, le grandi foreste cupe, le cripte dei monasteri ecc. Effetto dell'aura preromantica, senza dubbio
[Qualche data del 'romanzo nero' anglosassone: Il castello di Otranto di HORACE WALPOLE è del 1764; i romanzi della RADCLIFFE del 1781-1797; Il monaco di LEWIS del 1796]; ma più ancora di una personale predilezione per quegli uomini di ferro, feroci generosi e con vasti ideali: Jeanne de Laisné, nella sua tragedia prediletta, Juliette de Castelnau nei Crimes, Adelaide, sono le donne degne di quegli uomini, e preparano o riecheggiano le grandi scellerate e le grandi vittime dei romanzi famosi.
Fedele al suo Machiavelli, del resto sadizzato come tutto ciò che il Marchese toccava, Sade ha, come già si è detto, una concezione statica e moralistica della Storia, da cui non si sente imbarazzato nell'interpretare e nel confondere le epoche: "Gli uomini, sempre uguali, non offrono alla posterità che una serie di avvenimenti sempre uguali"; "tranne pochissime cose, gli uomini sono e saranno eternamente gli stessi". Così Sade si apre la strada alla sua perenne mistificazione, che consiste nel contaminare la grande Storia con la sua storia personale di moralista e di scrittore: visibile in un ammiccamento continuo ai lettori profondi, i soli in grado di capirlo, e di cui Sade ricerca la complicità per far insieme delle belle risate (supposto che Sade sappia ridere) alle spalle dei lettori semplici. Il dialogo che viene così a stabilirsi fra il lettore consapevole e lo scrittore, è l'aspetto più suggestivo di queste opere equivoche, che van giocando senza interruzione su due registri: rappresenta per esempio qualche nuova scelleratezza di Isabella (ma siamo nel secolo XV...) indugiandoci con gusto - questo per i soli profondi -' e sùbito esclama contrito: "A noi piacerebbe rifugiarci sotto il portico del tempio della virtù" - e questo per i lettori candidi. O termina la fosca storia di incesto e di delitto che è Dorgeville" (tra virgolette metto sempre i titoli dei racconti dei Crimes) con l'invocazione: "O voi che leggete questa storia, possiate esserne spinti al rispetto dei doveri più sacri" ...O ancòra in Isabella: "Ecco a che porta l'abuso del potere, in un'anima meschina e corrotta, tanto è vero che la corruzione dei costumi è culla di ogni delitto!". Gli esempi si potrebbero moltiplicare a centinaia, e ogni volta questi moralismi da dozzina fiaccano e snervano il tono tetro di una storia, che chiedeva solo di essere raccontata.
Dopo tutto, quel che importa a Sade non è tanto di far giganteggiare lo scellerato, quanto l'Eroe. Il male gli sta nel cuore più che il bene, persuaso com'è che nella eterna lotta manichea il male sia cosa salda che si accapiglia con un'ombra; ma è poi sempre disposto ad accogliere nel suo universo quell'ombra che è il bene, quando la veda incarnarsi in una Figura Eroica. Sentire e operare smisuratamente, è la vera condizione essenziale per entrare a far parte di quell'universo. Le prime e più scadenti prove denunciano in modo particolarmente evidente il loro carattere scolastico: i personaggi si pompeggiano di generosità e abbondano in esclamazioni, di cui modello è Corneille, mentre nelle ampie orazioni suasive dominano Cicerone e Tito Livio. Così l'allocuzione di Isabella che istiga alla lotta contro gli Armagnacchi, è degna di un "imperator" ai suoi soldati; e tutti i suoi delitti, torture, uccisioni dei propri figli, paiono usciti dalle pagine delle Storie di Tacito.
Nel culto del personaggio "grande" di cuore alto, subentrerà più tardi Machiavelli, a cui fanno esplicito accenno "Laurence et Antonio" e la stessa Adelaide. E se il movimento interno dei personaggi è, sotto l'uno o l'altro influsso, povero, ciò non vien tanto da inesperienza di autore quanto dal mancar gli Eroi, per definizione, di psicologia: la storia dei loro animi si risolve nella cronaca delle loro gesta e delle loro orazioni.
Così, proprio alla lettura di quei poveri racconti del primo Sade, si conferma che il problema del vizio e della virtù, che è al centro di una lettura di Sade, si risolve solo chiarendo il significato dei vocaboli secondo il linguaggio machiavelliano; e cioè stabilendo l'eguaglianza: virtù = energia, vizio= debolezza. Accolta questa equazione, si vedrà che la virtuosa Juliette del primo dei Crimes è per l'autore sui medesimo piano morale - ahimé non artistico! della scellerata e più famosa Juliette sorella di Justine. Il gusto della virtù, si dice nei Crimes, è frutto dell'energia che riceviamo dalla natura. In Juliette è detto invece che la virtù essendo creata e i vizi creatori, il trionfo della prima porterebbe a un impero troppo esclusivo nei regni della natura, a uno scombussolamento dell'armonia universale. Contraddizione solo apparente: l'opera teorica di Sade ne è piena, ma è poi sostanzialmente unitaria nel significato largo (grosso modo, rinascimentale) del concetto di virtù. Una donna che per sottrarsi al disonore uccide il seduttore e poi si uccide, suscita l'ammirazione di Sade: perché c'è il pudore dei deboli, e quello delle anime forti. Il trionfo, relativo, del bene qui non è espediente retorico del letterato Sade per farsi leggere dal pubblico benpensante: è piuttosto indifferenza di fronte al bene e al male, i due poli solo apparentemente opposti della vita, ma in realtà entrambi "passioni".

***

Ma se il male e il bene, in quanto necessari all'armonia della natura, si equivalgono sul piano teorico, non così avviene sul piano della realizzazione narrativa: dove il Sade "nero" ha senza dubbio la meglio (benché diverso sia il giudizio di un illustre specialista del Settecento francese, Jean Fabre). Nei libri scritti per la pubblicazione, si avverte fin troppo che Sade ci sta stretto di misura, abituato com'è da una esistenza intera di solitudine e di carcere a pensare e parlare solo per sé. Fatto libero, sente la nostalgia di quella libertà assoluta, in senso spirituale, che gli era stato il carcere. Deve comunicare, ma sa che certi 'messaggi' non si possono fare impunemente; i Crimes, in generale tutte le opere confessate, frutto di un compromesso, sono messaggi segreti, scritti in linguaggio cifrato. Sade, così abbondante e anche prolisso quando scrive per sé (alla pubblicazione penserà in un secondo tempo, certo mosso anche da bisogno di denaro), lo senti singolarmente impacciato quando scrive in vista del pubblico, bestia conformista per definizione: tasta il terreno, incerto fin dove può spingersi; ammicca, sottintende, accenna. Si traveste per farsi accettare. Accumula ancòra orrori senza risparmio, ma è attento ora a camuffare il linguaggio e a forzare le conclusioni secondo la morale dei più. Incesti, delitti, crudeltà si susseguono col ritmo consueto, ma sùbito corretti dalla prudenza: sotto l'apparenza immorale, dice polemizzando col giornalista Villeterque, i miei racconti sono morali perché ispirano orrore per il male e pietà per le vittime. In Adelaide, il più scadente e senilmente infantile dei suoi romanzi, si arriva per esempio a una esaltazione, che si pretende commossa e solenne, della vita claustrale. E invocazioni a Dio e alla pace celeste abbondano nella Marchesa di Gange e in Isabella di Baviera. È la produzione degli ultimi anni, quando oramai Sade si era rassegnato all'imperativo del suo Machiavelli, di non discordare troppo dai tempi, chi non voglia essere reprobato dalla fortuna: e i tempi dell'impero napoleonico non consentivano troppe transazioni col concetto tradizionale di virtù. Erano i tempi in cui, finito il "silenzio delle leggi", la storia del mondo aveva ripreso il suo trantràn.
In realtà, pur rimanendo in sé lo stesso, Sade ha imparato a sdoppiarsi: lavora in silenzio a una sua fantastica summa del sadismo, mentre per il pubblico, che del resto dovrà aspettare più di un secolo per leggerlo, cerca di rendere accettabili i suoi veleni camuffandoli da antidoto. È questo l'aspetto più patetico dell'ultimo Sade: quel cedere le armi e confessarsi sconfitto, quell'accettar di chiudere una lunga lotta filosofica per badare un poco, oramai, al suo "particulare" di autore: autore che invoca qualche plauso dai lettori e qualche assegno dai librai.
Riguardo al linguaggio, da tempo già Sade si era rassegnato agli usi della società: da quando si era impossessato di lui, accanto alla frenesia del filosofo, l'ambizione del letterato. Letteratura è convenzione, è accordo fra scrittore e lettore, fra produttore e acquirente, su di un determinato linguaggio per determinate situazioni. L'accettazione del formulano in uso presso gli scrittori accreditati, è sempre segno di un momento di stanchezza, o di stasi, nella composizione: lo è anche per Sade. Nei momenti più felici, la traduzione in termini onesti di vocaboli più vigorosi può creare toni umoristici e ironici: ma in genere la convenzione letteraria è accolta senza discutere, secondo il processo, inverso a quello che abbiamo sottolineato per le tre Justine, dall'espressione interdetta a quella eufemistica; con la chiara coscienza che il linguaggio e i costumi sono legati da vincoli così stretti, che disperare di capovolgere questi significa anche rinunciare a rivoluzionare quello. Cioè, quando accetta per forza di imporsi dei limiti nella libertà di scrittore, Sade non tenta neppure di barare al gioco: accetta in blocco situazioni, morale e linguaggio in vista di un pubblico che disprezza ma dal cui giudizio è lusingato e condizionato.
È allora che di una vedova che sta per risposarsi scrive: "Ella consentì infine a mutar le gramaglie con le rose dell'imene". O per dire, si passò dalle feste alla guerra: "I giavellotti di Bellona presero il posto dei dardi d'amore". O ancòra: Enrico ii aspira a "mutare il lauro incerto di Marte con le ghirlande di rose e di mirti" dei matrimonio. "È sulle ali dell'amore che egli vuoi essere coronato dall'amore". "Quella figura celeste su cui Marte imprime la sua maestà con le frecce dell'amore". Si potrebbe continuare per molte decine di pagine.
E certi fiori di stile, di cui l'incallito retore che era anche, doveva inorgoglirsi e ridere insieme: "Giusto cielo! perché le furie accesero le loro fiaccole a quelle del tenero imene; perché si videro i serpenti sconciare coi loro veleno le piante di mirto che colombe posavano sulla fronte di quegli infelici!". Le frasi fatte gli fioriscono sotto la penna, non sai se con la voluttuosa negligenza del letterato pigro, o con l'allegria cosciente dello scrittore che va parodiando il linguaggio ufficiale davanti a un pubblico ottuso: Questa funesta separazione - Il fuoco divino che ci divora - O barbaro, egli vi sacrifica! - Oh cielo!". Come è difficile capire se certa suspense narrativa sia ingenuità scolastica o beffa a chi legge: "Qui dovrei chieder grazia ai lettori, pregarli di non procedere oltre... sì... sì, interrompano all'istante la lettura, se non vogliono fremere d'orrore". Questi esempi fra i mille son tratti dai Crimes e dai romanzi della senilità: ma espressioni altrettanto pigre appaiono anche, se pur assai più raramente, nei romanzi "neri": così la scelleratissima Lady Clairwil parla dei legami dell'imene" che la uniscono al brigante Brisa-Testa (Juliette, V 27).
Medesimo ossequio alla convenzione nell'arte del ritratto. Visi di donna abbondano nell'opera sadiana, ma il lettore non arriva a ricordarne uno distinto dall'altro, tanto sono tutti uniformemente generici e di scuola. Osserva Jean Molino nel suo saggio "Sade devant la beauté"
[Nel già citato volume Le marquis de Sade (ed. A. Colin)] che il gusto del ritrattista si è formato sui classici greci e romani: come anche provano i frequenti riferimenti a Flora a Venere alle Grazie a Marte ecc. Ma si tratta di un gusto tutto esteriore, staccato dal vero interesse di Sade: che va interamente alla eccitazione sessuale che il soggetto può suscitare in colui che guarda. Ora, è detto nelle 120 giornate di Sodoma (II, 36) che tale eccitazione è provocata da certi "sali" esalati dal soggetto voluttuoso, e capaci di irritare positivamente lo spettatore; e si aggiunge che quei "sali" son più abbondanti in ciò che è vecchio, sporco e puzzolente che in ciò che è convenzionalmente "bello". Di qui l'estetica dell'orrido, che trova la sua più completa applicazione nella prima parte delle 120 giornate di Sodoma. Ma è poi vero in generale che Sade non sente il volto femminile: sente il corpo, o piuttosto una certa parte del corpo, la "porzione di carne che la natura ha messo in fondo alla schiena", l' "altare" nel linguaggio eufemistico-blasfemo di Sade, a cui andavano i suoi omaggi. Si trattava, in lui, di una limitazione solo apparentemente estetica, in realtà morale: nel volto è l'espressione del piacere ricevuto, nell' "altare" del piacere offerto; ora, uno dei pilastri del sadismo è, come si è veduto, che la donna non deve provare piacere. Il bel volto è perciò solamente un fatto sociale, come un bel vestito. La convenzione è sufficiente a descriverli.
Ecco qualche esempio di bel volto, tratto indifferentemente dalle opere riconosciute e dalle clandestine: "Era fatta come se le grazie avessero preso piacere ad abbellirla"; "d'una gentile figura da dipingere, piena di grazia e di spirito"; "gli occhi più dolci e seducenti, i più bei capelli del mondo"; "alta, da dipingere; i tratti più dolci e amabili, fatta di grazia e di talento". Anche qui le citazioni potrebbero continuare per molte pagine. Né fa eccezione alla banalità del procedimento il personaggio fisicamente ripugnante: si pensi alle orribili vecchie mal vissute (lasciamo da parte il consueto riferimento a Goya) che partecipano attrici o spettatrici alle orge delle 120 giornate di Sodoma, in cui l'accumulazione mostruosa di particolari schifosi rivela una eccellenza acquistata a buon mercato. "La Natura non ha voce", sentenzia Pio VI in Juliette, IV 136. Per Sade, neanche il volto umano ha voce.
La verità è che, appena distolga gli occhi dalla sua ossessione, tutto è muto per Sade, anche se vogliamo tener conto, com'è giusto, della sudditanza in certa misura inevitabile di ogni scrittore alla convenzione letteraria della sua epoca. Ma a quella convenzione, ogni vero scrittore cerca almeno di ribellarsi; Sade ci soggiace inerte. Quel ribelle accetta senza batter ciglio le rose dell'imene, i lauri di Marte e i dardi di Bellona: in quei momenti il suo interesse è lontano, la sua fantasia indifferente. Unum necessarium, anche per Sade: per essere stimolato, in quanto scrittore, ha bisogno di immettere una carica violenta di filosofia in una violenta scena di erotismo o di crimine; o, per dirla nel suo linguaggio, ha bisogno che il fluido elettrico dei suoi nervi sia stimolato dal piacere del crimine e della voluttà, sotto il controllo del cervello.
Dovunque la natura appaia armoniosa, nel disegno di un profilo o di un paesaggio, Sade fiuta odor d'inganno; e se c'è una cosa che detesta, è di essere "dupe" della natura. "Ah sgualdrina!", dice alla natura Juliette, "tu mi inganni forse"... Quel che gli importa, non è che gli occhi di un personaggio siano azzurri o neri, è che sappiano andar bene al fondo della conoscenza, come la concepiva lui; che siano chiaroveggenti, come avviene ai viziosi (i dominatori) e come invece non avviene ai virtuosi (i succubi). Per questo, e solo per questo, i romanzi clandestini ci sembrano tanto superiori ai confessati; proprio perché possono liberamente rompere con ogni tradizione, abbandonare il gioco consueto ai narratori "d'ordine", consistente nell'equivocar perpetuo tra la grande Virtù, che è energia, e le piccole virtù, che segnano la resa dell'uomo all'ambiente sociale. E quando, i romanzi "neri", a quella convenzione sembrano soggiacere, vuoi dire che quasi sempre apportano una contestazione ironica della convenzione attraverso l'imitazione del linguaggio, o addirittura la sfruttano a fini propri. Per esempio, anche Juliette e mostri affini parlano delle proprie azioni come se fossero persone oneste: i nostri delitti, dicono, questa scelleratezza, un simile orrore... Ma ecco che il linguaggio della morale tradizionale è stravolto a servir da stimolo erotico per chi se ne è liberato, di quella morale, funge insomma da formula afrodisiaca: ricordando nell'atto del male che quell'atto è male, viola filosoficamente ii principio su cui si basa la società. È quel che Sade dice: "Esaminare filosoficamente gli eccessi", e con più vigore: "Décharger philosophiquement".

***

"Il suo stile sovrano", dice J. F. Revel nella prefazione alle 120 giornate di Sodoma della edizione Pauvert.
[Anche Franco Cordero parla del "virtuosismo sintattico" di Sade (Trattato di decomposizione, p. 165, De Donato, 1970), e Jean Fabre della "densità, della forza, della pienezza dello stile" di Sade: "una eleganza, un rilievo di espressione che fan talora pensare a Pascal" (Le marquis de Sade, p. 273, A. Colin, 1968). Invece Jean Cocteau: Sade è noioso, il suo stile è debole" (L'Affaire Sade, p. 62, J.-J. Pauvert, 1963).] Magari "sovrano" è aggettivo un po' generico o addirittura esornativo; ma ci sembra accettabile in grazia del suo significato intimo, di "andar sopra", in questo caso andar sopra alla convenzione letteraria di un'epoca, pur con i residui che abbiamo sommariamente elencato qui sopra. Dai primi abbozzi di dialoghi (Il dialogo di un prete e di un moribondo) alla estrema perfezione della Filosofia nel boudoir, libro "superbamente e finemente redatto" secondo Pieyre de Mandiargues, come dalle prime alle ultime lettere, è evidente la lunga applicazione stilistica di Sade, che dai modelli classici e contemporanei (per citarne qualcuno, Tacito, Livio, Molière, Massillon, Voltaire) derivava lo scrupolo di fissare i contorni essenziali delle cose, del costruire il periodo secondo le ragioni della perspicuità piuttosto che delle reazioni sentimentali; ma in quel che di freddo e compassato può essere in un linguaggio "ragionevole" immetteva poi un furor non solo eroticus o philosophicus ma anche rhetoricus che gonfia le vele ai grandi discorsi di Juliette, di Pio VI, del granduca di Toscana, di Caterina di Russia. Il maestoso di certi discorsi (tutto quello di Pio VI in Juliette, IV 280 sgg., sul principio della vita che è quello stesso della morte, sulla trasformazione della materia, sulla indifferenza feroce della natura) non tollera citazioni staccate, perché è melodia ininterrotta di pensieri che neppure han bisogno, per essere ritenuti, dell'aiuto dell'immagine - e ogni volta ci fa pensare, Dio ci perdoni, a certi canti dottrinari del Paradiso. Ma ci son qua e là frasi isolabili, che possono servir di esempio di quella violenza che serpeggia per tutta l'opera, e si accoppia così bene, in modo così unicamente suo, con lo sguardo freddo" del libertinofilosofo. "Io vivrò, dice un personaggio tentato di uccidersi, per nutrirmi dei serpenti della vita" (Aline e Valcour). Gli uomini, commenta un altro personaggio, vivono come se dovessero essere eterni, e poi "scompaiono nell'oscura nube dell'immortalità" (questo è un esempio, inteso come si deve stilisticamente, di quelle particularités mystérieuses annunciate dall'autore nei suoi Crimes). "Va, sguadrina, esclama uno scellerato uccidendo la sorella, va a dire al diavolo che Roland, il più ricco furfante della terra, è colui che sfida con più insolenza la mano del cielo e del demonio" (Justine).
Ammesso l'influsso, che par evidente, di Shakespeare, certe invettive conservano però il color pèrso caratteristico di Sade: "Potessi pure incendiar l'universo, ancora maledirei la natura di offrirmene uno solo" (Juliette). Oppure: "Oh avesse pur mille vite! che io gliele strapperei una dopo l'altra" (Juliette). E Olympia Borghese, dopo aver descritto i supplizi orrendi con cui ha ucciso la sua unica figlia Agnès: "Ma non posso rinnovano, questo crimine delizioso!... Non ho un'altra figlia..." (Juliette). O, fra le innumerevoli che non si possono citare se non con abbondanza di puntini: "Je b. pour la mort", "J'étais f. par le rayon de ses yeux". Ed è sempre presente la novità e difficoltà dell'opera, espresse con cosciente orgoglio; in Justine: questa scena sorpassa tutto ciò che ho potuto rappresentare in precedenza, come l'aquila imperiosa è più forte della colomba" (Taccia Lucano ormai là dove tocca Del misero Sabello e di Nassidio, E attenda a udir quel ch'or si scocca...); e nelle 120 giornate di Sodoma, dove il lettore è invitato a prepararsi l'animo prima di affrontare un libro "senza esempi presso gli antichi come presso i moderni" (L'acqua ch'io prendo già mai non si corse...).

***

Manca tuttora, a nostra conoscenza, un'analisi non concettuale ma letteraria delle opere maggiori e minori di Sade: nelle quali ultime forse più che nelle maggiori, si rintraccerebbe il meglio e il peggio di una produzione che ondeggiava perennemente fra creazione di personaggi e apostolato dottrinario. L'opera del marchese de Sade, dice Jacques Rustin
["Revue d'histoire littéraire de la France", gennaio-febbraio 1969], "permette di porre in evidenza l'insopportabile falsità che deriva dalla duplice pretesa dei romanzieri [del XVIII secolo] alla verità e alla predicazione". Da queste due istanze, della verità e della predicazione, della rappresentazione e della parenética, si deve partire per una lettura di Sade, spesso letterato falso e apostolo sincero, spesso il contrario.
Qualche accenno a una simile lettura abbiam dato nel capitolo precedente per Justine e Juliette: facciamo ora altrettanto per i romanzi dell'altro Sade, cominciando dai Crimini dell'amore.
"Juliette e Raunai" è una semplice esercitazione scolastica sull'eroismo della rinuncia, un saggio di quel teatro alla Corneille che era nella lunga ambizione di Sade. Durante le guerre di religione del secolo XVI, la fiera protestante Juliette de Castelnau, innamorata del correligionario Raunai, deve difendersi contro le proposte amorose del duca di Guisa, che le pone l'alternativa: o perdere amante e padre - o essere sua. Ma alla fine il Guisa lascia liberi i tre avversari, vincendo in lui il senso dell'onore. Si tratta di una pièce eroica dominata da Corneille e da Tito Livio (l'amore di Massinissa per Sofonisba) con uso e abuso di grandiloquenza e magnanimità di sentimenti, nella tradizione del genere maestoso e nobile. Né mancano qua e là accenti epico-popolari: "O Essere degli Esseri, perdona loro questo accecamento"... Di veramente sadiano, c'è il culto dell'Eroe: qui eroe del sublime, come più tardi dell'orrido. xxx
"La doppia prova" è a una lettura affrettata il più lontano dalla tematica sadiana. Vi si racconta della prova a cui il duca di Ceilcour sottopone due giovani vedove, prima di decidersi a sposare quella che si mostrerà più disinteressata e virtuosa. Per questo dà due ricevimenti, favolosi, in una sua villa di campagna: nella descrizione delle due feste, condotta con la tecnica di uno spettacolo teatrale in cui i personaggi (cavalieri, fate, giganti) agiscono come seguendo un copione, è non solo la predilezione di Sade per il teatro, ma soprattutto quella ossessione della "scena" che domina tutte le sue rappresentazioni pornografiche, della disposizione degli attori in gruppi preordinati,
104 CHE COSA RA 'VERAMENTE DETTO DE SADE

e insomma del piacere concepito come un gioco conven-zionale in cui tutto è fantasia ma niente è caso. Dal punto di vista letterario, tuttavia, "La doppia prova" è cosa assai debole; e nella frivoli della galanteria intesa come esperimento cerebrale di corruzione, resta troppo inferiore alle pagine consimili di Laclos, di Crébjflon fils, di Louvet de Couvray.

"Miss Henriette Stralson" racconta la morte, in una atmosfera di tragedia senechjana di tutti tre i protagonisti: Lord Granwell cerca di strappar Henriette all'amato Williams; lei si difende con l'astuzia, e quando lui le uccide l'amante, finge di cedere, lo pugnala e si uccide. Anima fiera, Sade la ammira nonostante la sua virtù; distingue insomma fra la virtù debole di Justine e la virtù forte di Henriette che diventa così sorella della grande Juliette, di Lady Clairwil, di Olympia Borghese e di tante altre.

" Rocirigue" è forse il peggior pezzo della raccolta, la storia di Rocirigue che attraverso il delitto diventa re di Spagna, opprime i sudditi, viola le loro donne, fin che il padre di una di queste gli suscita contro un esercito di Mori, e Rodrigue disperato e squattrinato va a cercare un tesoro in una torre incantata. Qui un spettro gli promette ii tesoro se andrà a ricuperano agli Inferi: laggiù, Rodrigue incontra mostri, fiumi di sangue, vulcani e tempeste, ii tutto rappresentato senz'ombra

di originalità. Un'aquila lo trasporta verso il sole, donde

gli fa contemplare l'aiuola che ci fa tanto feroci. Tornato sulla terra affronta la battaglia e viene ucciso dallo spettro di Florinda, l'ultima delle ragazze da lui disonorate. In tale accozzaglia di fantastiche banalità, il solo momento che trattiene il lettore è quando il "fiero spagnolo" circondato dai fantasmi delle sue vittime, distoglie il capo e passa". Da questa unica riga efficace di "Rodrigue" avrà preso il volo la raffigurazione baudelairiana del Don Juan aux Enters? "Mais le calme hros, courbé sur sa rapière, / Regardai le silage et ne daignait nien voir".

In "Lorenza e Antonio", le trame di un vecchio scel-

L'altro Sade 105

lerato contro due giovani amanti sono svelate e punite. La forza del male, che è il motivo ispiratore della novella, si traduce qualche volta in forza rappresentativa; ma quanto parlano questi personaggi! e così melodrammaticamente, che la violenza delle situazioni ne esce slavata e malconcia. Siamo lontani dai dialoghi nervosi di Justine e soprattutto di Juliette. In letteratura, e nel mondo di Sade, quasi sempre il delitto paga.

" Faxelange", storia degli amori di un bandito con una nobile giovane, presenta la novità di una inconsueta misura di sentimenti: i protagonisti non sono mostri del bene o del male, ma uomini. Ma in questa vicenda sostanzialmente borghese - una malmaritata per avidità sua e dei genitori - manca anche il fascino di quelle "particolarità misteriose" che fanno l'originalità del libro: quando fa della letteratura misurata, Sade passa presto dalla nostra memoria, come dire che non ha trovato il suo vero pane.

Il suo vero pane, lo ritrova in " Florville e Courval", nella accumulazione se non nella ricchezza dei temi sadiani: incesto della protagonista con il padre il fratello e il figlio, matricidio e infanticidio.

Lo ritrova nella "Contessa di Sancerre", in "Dorgeville" e più ancòra in "Eugenia de Franval", anch'essa tragedia di crimine e incesto. Sono i racconti del Fato ("quel fatalismo di cui i Greci armavano la mano dei loro dèi ")' che in Sade tiene sempre le parti dei malvagi anche quando alla fine arriva, senza convinzione, il loro castigo. Di quel concetto, che lo aveva appassionato negli antichi, Sade si serve per spremere dalle sue storie il sugo pessimistico che gli stava a cuore; come se dicesse ai lettori: vedete, diamo pure la parola ai buoni, parteggiamo pure per loro, ma la Natura e il Fato, poteri al di sopra di noi, provvederanno a condurli alla rovina. Nei romanzi neri l'incesto è ricercato coscientemente con voluttà - nei Crimini dell'amore è imposto dal destino. Così Sade, spostando solamente le responsabilità, riesce a mantenersi fedele al proprio mondo.
Nei più bei racconti del libro, di cui il bellissimo è forse "Eugenia di Franval", Sade narra rapido nonostante la foltezza delle vicende, e con pochi lungaggini dialogiche. La psicologia vi è povera, ma la psicologia è di troppo dove le azioni si svolgono guidate dalla bacchetta del Fato, e dove gli scellerati sono una forza della natura al di fuori di qualsiasi responsabilità, quasi mostri alla Frankenstein che han poco da spartire con i comuni sentimenti. La stessa nuda esposizione dell'intreccio rende un'idea del vigore del concepimento. Eugenia di Franval, bella figlia di una bellissima madre, è allevata con principi scellerati dallo scelleratissimo padre: il quale la seduce giovinetta e assapora con lei le delizie dell'incesto. Per togliere di mezzo l'ingombrante moglie e madre, le fingono un amante, il loro complice Valmont; ma quando costui si mette a fare sul serio, lo uccidono, si rifugiano in un castello presso il confine svizzero, il signor de Franval ripara a Basilea lasciando ordine a Eugenia di uccider la madre ove questa manifestasse intenzione di ritornare a Parigi. Eugenia compie il matricidio poi, inorridita, si uccide. E Franval, colto da una orrenda tempesta e spogliato dai predoni, sente la vendetta del Cielo, si converte e si uccide sulla tomba della moglie, accanto alla quale verrà sepolto.

***

Per concludere in qualche modo sui Crimini dell'amore,

Pierre Klossowski dice che questi racconti, sotto l'apparenza morale, ci sembrano in realtà equivoci perché "la morale razionale che serve loro di criterio presuppone una coscienza e una libertà, superate a ogni istante dalle forze oscure che sono in gioco". Che è assai ben detto. Ma l'equivoco è anche generato da un altro gioco, il gioco dell'autore, nella costante rappresentazione di orrori tenuta su due piani: uno per i profondi, cui non sfuggirà la dottrina che si nasconde sotto il velame della moralità convenzionale, l'altro per il volgo; due moralità che non coin-

L'altro Sade 107

cidono mai, e di cui la seconda, quella di comodo, può addirittura essere presentata come negazione e palinodia della filosofia del Sade clandestino e libero. Così, è detto nel finale di "Eugenia di Franval": "Quale creatura più preziosa di colei che ha amato rispettato e coltivato la virtù sulla terra, solo per trovare a ogni passo la sventura e il dolore". Che è il titolo e la tematica, solo rovesciatane la interpretazione, delle Sventure della virtù.

Delle opere della vecchiaia, più evidente ancòra è la stesura provvisoria: provvisoria nel senso che l'autore sembra a ogni pagina adottare il "parlar chiuso" in attesa che una umanità libera possa accogliere liberamente il "parlare aperto", l'autentico messaggio sadiano. Quel momento della libertà Sade lo aspettava, lo abbiamo visto, dal "silenzio delle leggi" nel gran grido dell'anarchia: e ne abbiamo visto la delusione. Così, mentre i Crimini rappresentano la speranza di Sade, i romanzi della vecchiaia lo mostrano rassegnato a scrivere in un mondo che dal breve silenzio è tornato all'imperio delle leggi. Su un piano di buon risultato letterario La marchesa di Gange, di mediocre fattura Isabella di Baviera, di povero mestiere melaide di Brunswick, sono i tre romanzi della sconfitta e della rinuncia; Sade si rende conto che il mondo degli uomini è uscito indenne dalla scarica ad alto potenziale delle sue opere. Abbassandosi a piacere alle "anime sensibili cupe e malinconiche" (il romanticismo sta per invadere la terra lasciata deserta dalla tramontata Ragione), Sade accetta ormai in blocco ciò che aveva combattuto: la bellezza della natura che con i suoi quotidiani miracoli parla della presenza di Dio, la santità della religione e dei costumi, la preminenza degli ecclesiastici, "i più rispettabili degli uomini". Accetta di infierir sulle passioni e sul libertinaggio, estranei, dice, e contrari alla natura, sul divorzio, sulla empietà. Non si concede più altra libertà, che di sogghignare
sotto: come è evidente nelle esagerazioni della sua nuova filosofia, perennemente incerta fra la palinodia del neoconvertito, e la parodia dell'antico eversore.

Si sdoppia: c'è un Sade che racconta con le sue pennellate di un tempo, un altro che commenta, diluisce, attenua, scarta i vocaboli pericolosi, e con le mani giunte invoca la sanzione divina contro la scelleratezza umana. Non ha parole sufficienti per esaltare Giovanna d'Arco, "la donna più straordinaria del suo secolo" (e qui probabilmente è sincero), o per esecrare Isabella di Baviera e i suoi criminosi disegni (e qui certamente non lo è). Si consola rifacendo meccanicamente sull'antico fecondo stampo un bel mucchietto di scellerati, ma sono poi così macchinosi e incredibili nelle loro azioni, che il senso tragico che li sosteneva un tempo ora si tramuta il più delle volte in senso comico: nei casi migliori (Isabella, l'abate di Gange) si tratta di malvagi ingegnosi e assurdi. Come comiche, anche sotto l'aspetto stilistico e moralistico, sono le paure di Sade di "scappar di casa". Una furiosa tempesta copre di fitte tenebre Parigi favorendo così un feroce delitto di Isabella? Ecco sùbito Sade metter le mani avanti: "Lungi dal prestarsi ai complotti orditi, si sarebbe detto che il cielo non oscurasse l'orizzonte che per meglio spaventare i colpevoli". Si affaccia, di quando in quando, il vero Sade, ma sempre più timidamente. Per esempio, nel finale di Isabella, la cui storia si conclude con queste parole: Per ragioni a noi oscure e a cui dobbiamo solo inchinarci, Dio permise che Isabella, scellerata, morisse in tarda età, mentre fece morir giovane e su di un rogo la creatura più saggia più coraggiosa e più straordinaria del suo secolo (Giovanna d'Arco)". Ecco dunque perché l'esaltazione della Pulzella, che ha commosso qualche critico: per comporre l'eterna coppia dell'eterna filosofia, Justine e Juliette, il castigo della virtù e la prosperità del vizio. E' vero che Isabella-Juliette è poi punita con l'abbandono e la miseria dei suoi ultimi anni; ma ciò avviene nelle ultime tre pagine del romanzo: Isabella ha cessato di interessare Sade.

Adelaide di Brunswick, poi, che è donna virtuosa e perseguitata fin dalle prime pagine, e non arriva perciò

a interessare l'autore neppure un momento, è l'eroina infelice (anche letterariamente) di un romanzo senile e infantile insieme: di cui il meglio che si può dire è che, per ricor-

dare Sade, dovrebbe essere capovolto - capovolto s'intende quanto a sentimenti e idee. Odorano fiori di stile "nobile" di questa fatta: "Quella donna al vostro paragone è come

la pallida luce delle stelle della notte rispetto alla brillante chiarità del sole" (pag. 119); oppure: "Con le fiamme, le grida si alzano al cielo, come per implorare la misericordia di colui che può tutto" (pag. 161). In arte, l'ipocrisia non paga. E ogni pagina del romanzo suona a morto per il genio di Sade, l'intreccio rumoroso e vuoto, l'assurdità delle situazioni non riscattata dalla sacra follia dei romanzi neri, l'imitazione a freddo di certi trucchetti letterari che pote-

vano far sperare il successo al vecchio Sade rinchiuso fra i dementi di Charenton.

Voleva essere, quel nobile tono in cui bei sentimenti belle azioni e diffuso ottimismo gareggiano a farsi avanti, la triste palinodia di Sade, il suo arrendersi alla ipocrisia del mondo; ma in realtà è piuttosto una misera parodia. Curiosa è solo la tecnica da romanzo poliziesco: per cui tutti gli atrocissimi avvenimenti solo nelle ultime pagine si rivelano non dovuti al caso, ma agli intrighi del perfido Jago, il conte di Mersbourg. Ma la nota finale (pag. 399)

lascia supporre che Sade avesse posto un occhio cupido su di una Adelaide corrotta; e poi se ne allontanasse, in ossequio ai tempi che "non tolleravano costumi odiosi", non senza un ammiccamento furbesco ai lettori, giunti alla fine delle tediose avventure della virtù premiata e del vizio punito.

Così, incatenato impastoiato e cautolosamente infelice, Sade incedit per ignes. Di solito, in queste opere "scrive bene", cioè con accademica compostezza che è quanto di
più remoto immaginar si possa dallo scriver forte violento e gelido del suo periodo felice: tuttavia questa doveva essere per lui, sempre debole alle tentazioni dell'arte retorica, una consolazione ai mali fra cui chiudeva la vita, la povertà la prigionia e l'impotenza. E del vecchio che si rivolge malinconicamente al passato, sono gli accenti più patetici e i soli veri e vivi di queste opere stanche. Sotto le vesti del narratore, Sade parla spesso di sé in queste ultime pagine: e il lettore attento scopre allora, stupefatto, che è possibile provar commozione anche in un libro del Marchese. Sarà quando, in Adelaide, parla dello "spirito letterario" che fa pagare qualche soddisfazione con infiniti dolori: e certo pensa ai suoi trent'anni di carcere (di cui Claudel diceva con la solita cattolica ingenerosità: "Che bella cosa almeno, che Sade abbia passato all'ombra metà della sua vita!"). Sarà quando, ancòra in Adelaide, scrivendo degli animi di fango che abbandonano gli sventurati, noi pensiamo che Sade pensava alla moglie e ai figli allontanatisi da lui come da un lebbroso, e per contrasto a quella gentile madame Quesnet, che lui aveva soprannominata "Sensible", e che nel manicomio di Chareton lo assisté devotamente fino alla morte. Questi accenni, in cui ci pare di trovar la strada per penetrare fugacemente nell'animo del gentilhomme morose degli ultimi anni, consolano un po' delle vacue pagine del contesto. Come quando parla delle prigioni, che creano malfattori più che non ne redimano. O quando, con accoramento non finto, parla delle rovine che un'infanzia viziosa prepara alla vita di un uomo; anzi, risalendo a ritroso nel tempo, afferma che "gli organi della nostra fantasia" si formano nel seno della madre, e che "l'uomo fornito di gusti singolari è un malato, come una donna sofferente di vapori isterici". I "gusti singolari" dei mostri di Sade, e di Sade stesso... "E chi non sceglierebbe, potendolo, di essere uno come tutti, piuttosto che uno diverso da tutti?".

"Quelle énigme que l'homme!", si esclama nelle 120 giornate di Sodoma. E Sade, che enigma.

Nella nostra biblioteca, i volumi di questo ultimo Sade

portano qua e là nei margini un segno di matita rossa, e l'annotazione: de se. Sono i passi a cui torniamo qualche volta, quando vogliamo farci tornare in mente o vorremmo far venire in mente al pubblico dei lettori che Sade non fu solo un profeta ma anche un uomo.

Quando il Marchese ride

Non a caso, discorrendo dell'altro Sade, abbiamo trascurato il volume delle Historiettes, Contes et Fabliaux, che risalgono al 1787-1788: a parte due racconti, "Il Presidente mistificato" e "Emilia de Tourville", che avrebbero trovato del resto la loro più giusta collocazione nei Crimini dell'amore, è senza dubbio questa l'opera meno sadiana di Sade, l'opera di un Sade che ride e fa ridere, ossia che finge di ridere e pretende di far ridere.

Ma, innanzitutto, è permesso il riso nell'universo a parte che è l'universo sadiano? Ufficialmente, non è permesso. In quanto elemento disturbatore e profanatore di riti erotici e dottrinali, è anzi severamente vietato: alla soglia stessa di quella gran cerimonia o rappresentazione che ha nome Les 120 journées de Sodome (una illustrazione figurata di seicento depravazioni sessuali), attori e spettatori sono ammoniti che chi riderà durante le "parties de débauche" sarà crudelmente punito. Tuttavia, nella sua Anthologie de l'humour noir, André Breton accoglie Sade con onore, vedendo in certi eccessi di personaggi manifestamente esasperati dall'autore, quasi una funzione distensiva - attraverso la mediazione del riso - per chi legge, che i sorprende allora a pensare che "l'autore non crede del tutto al suo gioco". In altre parole, le mostruosità stesse delle mille orge dei romanzi di Sade, le improbabilità dei protagonisti e del loro atteggiamento sessuogastronomico (dozzine di operazioni amatorie nelle ventiquattro ore, innafffiate da decine di bottiglie di vini pregiati e sostenute da montagne omeriche di cibo) avrebbero la funzione alleviatrice del riso; tenuto conto anche del-
- ---A HA VERAMENTE DETTO DE SADE

l'affermazione di Freud, che l'humour è liberazione, sublimazione ed elevazione.

Sembran d'accordo col Breton J. F. Revel, nella già citata prefazione alle 120 giornate, e il Lely, tutt'e due rifacendosi all'esempio di Rabelais, del quale il Marchese era ammiratore. Eppure è proprio da un simile parallelo che si esce meno persuasi. Il gigantesco, il mostruoso, l'abnorme son senza dubbio parte preponderante dell'universo sadiano; ma ne costituiscon l'elemento tragico, non mai comico. Significano la preponderanza incomparabile del male messa polemicamente a confronto con l'irrisoriamente misera parte del bene: suonano come la voce stessa della natura, vulcano e tempesta sul piano bruto, delitto e distruzione sul piano ragionevole. La natura, che nella eterna diatriba in cui consiste l'opera di Sade siede sul banco degli accusati e sulla scranna del giudice insieme, fa ogni cosa in grande; i suoi figli prediletti, cioè i criminali più scellerati, non possono altro che imitarla. Ora, non c'è riso nella natura; o, quando ci iludiamo di scorgerlo, è perché interpretiamo da uomini quello che è puro processo meccanico. Lo stesso è del significato umoristico degli eccessi di Sade: ci pare di avvertirlo solo in quanto restiamo al di fuori del suo mondo, che è quello della dismisura, e così, dall'esterno, ci serviamo di un metro comune e normale in luogo del metro suo, che è quello eroico e mostruoso.

Un caso esemplare è l'episodio di Minski, il gigantesco eremita dell'Appennino presso Pietramala in Toscana (Jul., in 292 sgg.). Bisogna superare abissi foreste e montagne e un largo stagno per arrivare al suo castello, così alto di mura che l'occhio non arriva al tetto; una barca nera traghetta i visitatori; due porte di ferro, due fossati e un enorme pietrone isolano dal mondo il gigante e le sue vittime. (Sembra impossibile che non ci sia là sotto una selva di allegorie). L'eremita è alto due metri e 38 cm., ha un organo virile di cm. 48,6 di lunghezza, si ciba di carne umana, beve sessanta bottiglie per pasto (più caffé e liquori) e a mo' di digestivo divora una dozzina di étrons,

cioè, per evitar la traduzione e servirci della forbitissima definizione del Littré: "materia fecale consistente e modellata". E poi, mucci mucci sento odor di cristianucci, Minski affida tre o quattro bambini di ambo i sessi al cuoco, che glieli ammannisca per cena.

Il tutto narrato nel tono più lontano dal riso, il fiabesco.

Quando il Marchese ride, tutt'al più gli avviene di sogghignare. Il riso è liberatore e distensivo: e Sade, appunto, non intende liberare il lettore dalla tensione insostenibile della sua filosofia. Il riso è disinteressato: Sade si degna, semmai, di fame lo strumento della sua vendetta. Difatti personaggi comici, ma di una comicità cattiva, sono, si può dire, solo i robins, della razza di quei magistrati che lo avevano condannato a Aix e perseguitato poi tutta la vita: "tignasses poudrées à blanc", se ne trovano un p0' dappertutto, nelle opere confessate e in quelle clandestine; mentre li carica di ridicolo oltre i limiti della verisimiglianza artistica, senti i denti di Sade scricchiolare nell'ira e nel rancore. Quanto alla famosa apostrofe di Juliette a Papa Braschi (citata dal Lely come esempio dell'humour sadiano): "Vecchia scimmia!", si tratta dell'inizio di una disquisizione filosofica con la quale fa felicissimo contrasto esso stesso filosofico, fra la scimmia cinica quale è presentato il Papa e la creatura libera, Juliette: vera trovata dello scaltro rhétoricien che Sade era, non dell'umorista che non fu mai.

Così, dalle sole leggi della retorica, cioè da contrasti studiati di stile e di immagini, vien fuori il raro balenar di riso nell'opera sadiana. Ne diamo alcuni esempi, annotati durante le nostre letture, e che tengon tutti in pochi fogli. Juliette descrive San Pietro in Roma. Con stile alto e quasi solenne rileva il superbo altare sorto sulla tomba dell'Apostolo... E sùbito, a capo: Oh! che bel sofà per farsi..." (Juliette; iv 96). Svelto, come un gioco di prestigio, il gioco dello stile è fatto, e si pensa di rado che proprio nello stile è la più duratura grandezza di Sade. Altra volta,
114 CHE COSA HA 'VERAMENTE' DETTO DE SADE

è il contrasto fra il linguaggio della convenzione sociale e letteraria, e la ferocia o la lubricità della situazione: dice il brigante Brisa-Testa presentando la propria famigliola prima di immolarla per il divertimento degli ospiti: questo è mio figlio Francesco, il primo frutto del nostro amore" (Jul., v 197); un sodomita passivo in azione guizza come la colomba sotto il colombo" (Jul., v 122); addirittura di vera beffa stilistica si può parlare, in certe descrizioni rugiadose alla contessa de Ségur, di ambienti familiari e tranquilli: "Mi trovavo tra la migliore delle madri e la mia cara e sfortunata sorella... Quella povera Sofia mescolava le sue lacrime alle nostre; Eugenia, Déterville e madame de Seneval leggevano, lasciando cadere sguardi inteneriti sul quadro offerto da noi" (Aline e Valcour, i 152). Come vi piace, pare sottolineare l'autore: questo è il pane melenso per i poveri denti delle anime belle. Altrove ancòra è la compunzione sorniona del pornografo che mima la letteratura di buona società: come il già citato eufemismo di Aline e Valcour, eufemismo buffonesco della "portion de chair que la nature a placée au has de nos reins", invece del consueto cui".

E' un universo severo, quello di Sade, in cui il riso avrebbe sapore di irriverenza. E' vero che le imprese di certi personaggi sono poi talmente paradossali - e raccontate con tal gusto da metterne in rilievo l'enormità a forza di semplicità nel riferirle: Ho ucciso mio padre, mia madre, mia moglie, i miei figli.., ho dato fuoco alla casa del mio benefattore", eccetera -da dar l'impressione di una continua blague che neppure si illude di un'ombra di verità o di verisimiglianza, o l'impressione di un ghignetto sotterraneo che può ricordare quello, più cordiale però, di Margutte ("Io fui malvagio infin nell'uovo").

Ma la conclusione da trarre, a parer nostro, è poi soprattutto questa: che i personaggi di Sade sono bensì criminali e pazzi, e in quanto tali fanno sul serio, ma risultano infine costruiti di sole parole, al di là di ogni credibilità che non sia puramente sintattica e retorica.