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STEFAN ZWEIG

GLI EBREI A VIENNA


AUSTRIA FELIX

IL MONDO DI IERI - OSCAR MONDADORI - pp. 23-29

EDIZIONI DEL PRISMA

PREFAZIONE DELL'AUTORE

L'adattarsi al popolo o al paese dove vivono non è per gli ebrei soltanto una misura esteriore di protezione, ma un profondo bisogno interiore. È la loro nostalgia di patria, di pace, di riposo, di sicurezza che li spinge a unirsi con passione alla civiltà da cui sono circondati. In nessun luogo forse - fuorché nella Spagna del Quattrocento - tale alleanza fu così felice e feconda come in Austria. Stabilitisi da più di due secoli nella capitale, gli ebrei vi trovarono un popolo sereno e conciliante, capace sotto le apparenze spensierate dello stesso profondo istinto per quei valori intellettuali ed estetici che erano tanto importanti anche per loro stessi. Trovarono anche di più a Vienna: un proprio compito personale. Nel corso dell'ultimo secolo l'arte aveva perduto in Austria i suoi antichi tradizionali protettori la casa imperiale e l'aristocrazia. Mentre nel Settecento Maria Teresa faceva insegnar musica alle figlie da Gluck, mentre Giuseppe II discuteva da conoscitore con Mozart le di lui opere e Leopoldo III si dilettava a comporre, gli imperatori successivi, Francesco II e Ferdinando, non ebbero più interesse a cose artistiche e il nostro sovrano Francesco Giuseppe, che nei suoi ottant'anni di vita non ha mai letto o anche solo preso in mano un libro all'infuori dei manuali militari, dimostrava persino una spiccata antipatia per la musica. Anche la nobiltà aveva rinunciato al proprio compito di mecenatismo; passati erano i tempi gloriosi in cui gli Esterhazy ospitavano Haydn; i Lobkowitz, i Kinsky e i Waldstein andavano a gara per avere nei loro palazzi le prime esecuzioni di Beethoven; i tempi in cui una contessa nun si prosternava ai piedi del grande dèmone, scongiurandolo di non ritirare dall'Opera il suo Fidelio. Già Wagner, Brahms e Giovanni Strauss ed Ugo Wolf non trovarono più in loro il minimo appoggio; per serbare i concerti filarmonici all'antico livello, per rendere possibile un'esistenza ai pittori e agli scultori, dovette intervenire la borghesia e fu orgogliosa ambizione appunto della borghesia ebraica collaborare in prima linea per conservare nel suo antico splendore la gloria della cultura viennese. Gli ebrei avevano sempre amato la città, vi si erano acclimatati sia nel più intimo dell'anima, ma soltanto attraverso il loro amore per l'arte si sentivano legittimati e divenuti autentici viennesi. Nella vita pubblica non esercitavano fuori dell'arte che scarsa influenza; lo splendore della Corte metteva in ombra ogni ricchezza privata, le alte cariche statali eran riserbate a gruppi ben definiti, la diplomazia agli aristocratici, l'esercito e gli uffici superiori alle antiche famiglie, né gli ebrei tentavano di insinuarsi per ambizione in questi ambienti privilegiati. Rispettavano anzi con molto tatto i privilegi tradizionali; rammento per esempio che mio padre per tutta la vita evitò di pranzare nel grande ristorante Sacher, non certo per parsimonia - la differenza in confronto agli altri grandi alberghi era minima - ma per un naturale senso di distanza: gli sarebbe apparso sconveniente è imbarazzante sedere tavola a tavola accanto a un principe Schwarzenberg o Lobkowitz. Solo in faccia all'arte tutti a Vienna sentivano gli stessi diritti, perché l'amore per l'arte era considerato un dovere comune e fu perciò incommensurabile la parte che la borghesia ebraica ha avuto nell'aiutare e nel favorire la cultura viennese. Gli ebrei costituivano il vero pubblico, riempivano i teatri, le sale di concerto, compravano i libri, i quadri, frequentavano le esposizioni e dovunque con la loro comprensione più agile, meno inceppata dalla tradizione, divenivano i fautori e i precursori di ogni novità. Quasi tutte le grandi raccolte d'arte dell'Ottocento furono formate da loro, quasi tutti i tentativi artistici da loro resi possibili. Senza l'incessante stimolo dell'interessamento ebraico Vienna, per l'indolenza della Corte, della nobiltà e dei milionari cristiani, che preferivano tenere cavalli da corsa e riserve di caccia, sarebbe rimasta anche artisticamente al disotto di Berlino, così come l'Austria era politicamente preceduta dalla Germania. Chi a Vienna voleva imporre qualcosa di nuovo, chi venendo di lontano chiedeva a Vienna attenzione e largo pubblico, doveva rivolgersi alla borghesia ebrea, quando un'unica volta, nel periodo dell'antisemitismo, si tentò di fondare un cosiddetto teatro «nazionale«, non si trovarono né gli autori, né gli attori, né gli spettatori; dopo pochi mesi il teatro «nazionale« si spense miserevolmente, e proprio da quell'esempio fu per la prima volta ben chiaro che nove decimi di quanto il mondo celebrava come cultura viennese dell'Ottocento era una cultura sostenuta, nutrita e persino in parte creata dagli ebrei di Vienna.
Appunto in quegli ultimi anni - analogamente a ciò che accadde in Ispagna prima di un tramonto non meno tragico - gli ebrei viennesi divenuti artisticamente produttivi, se pure per nulla affatto in modo specificamente ebraico, bensì dando con un miracolo di assimilazione l'espressione più intensa allo spirito austriaco e viennese. Goldmark, Gustav Mahler e Schönberg divennero nomi internazionali nella musica creativa, Oscar Strauss, Leo Fall, Kalman portarono a nuova fioritura la tradizione del valzer e dell'operetta; Hoffmannsthal, Arturo Schnitzler, Beer-Hofmann, Peter Altenberg conferirono rango europeo alla letteratura viennese, come non l'aveva avuto neppure ai tempi di Grillparzer e di Stifter, Sonnenthal e Max Reinhardt rinnovarono nel mondo intero la fama della città teatrale; Freud e le grandi figure della scienza richiamarono gli sguardi sull'antica e gloriosa università... Dovunque insomma, come eruditi o virtuosi, come pittori o registi, architetti o giornalisti, essi tennero indiscussi alte e altissime posizioni nella vita intellettuale viennese. Si erano ormai completamente assimilati col loro amore appassionato per la città, con la loro volontà di adattamento ed erano felici di servire la gloria dell'Austria, sentivano il proprio austriacismo come una missione di fronte al mondo e - conviene ripeterlo per amore di verità - una buona parte, se non la massima, di quanto l'Europa e l'America ammira oggi nella musica, nella letteratura, nell'arte applicata, nel teatro, quale espressione di un risveglio culturale austriaco, è stato creato dagli ebrei di Vienna i quali, così prodigandosi, raggiunsero il più alto frutto del loro millenario istinto intellettuale. Un'energia spirituale rimasta per secoli senza uscita si alleò qui a una tradizione già un poco stanca, la nutrì, la ravvivò, la accrebbe e la ringiovanì con nuova energia e con instancabile vivezza: solo i prossimi decenni dimostreranno quale delitto contro Vienna sia stato perpetrato cercando di nazionalizzare e provincializzare con la violenza questa metropoli, la cui civiltà e la cui ragion d'essere stavano appunto nel convergere degli elementi più eterogenei, nella sua supernazionalità spirituale. Il genio di Vienna infatti, un genio specificamente musicale, aveva sempre armonizzato in sé tutti i contrasti etnici e linguistici, facendo della propria cultura una sintesi di tutte le culture occidentali. Chi viveva a Vienna si sentiva libero da ogni angustia e pregiudizio; in nessun altro posto era più facile essere un europeo e io so di andare debitore in buona parte a questa città, che già ai tempi di Marco Aurelio difese lo spirito romano è universale, se ho precocemente imparato ad amare l'idea della fraternità come la più alta nel mio cuore.
Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna e i tedeschi del nord guardavano noi vicini del Danubio con un poco d'irritazione e di disprezzo, perché invece di essere «attivi» e di tenere un rigido ordine, godevamo la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo a feste e teatri e per di più facevamo ottima musica. Invece della famosa abilità ed attività tedesca, che ha finito per amareggiare e per turbare l'esistenza di tutti gli altri paesi, invece di questa cupida smania di sorpassare tutti gli' altri e di correre avanti, a Vienna si amavano le placide chiacchierate, i comodi incontri, lasciando che ognuno vivesse a modo suo, con indulgenza bonaria e forse un po' pigra. «Vivere e lasciar vivere» era il celebre motto viennese, una massima che ancor oggi mi sembra più umana di tutti gli imperativi categorici e che si diffuse irresistibilmente in tutti gli ambienti. Poveri e ricchi, slavi e tedeschi, ebrei e cristiani vivevano insieme, pur punzecchiandosi all'occasione, in buona pace e persino i movimenti politici e sociali eran privi di quell'animosità crudele che è penetrata nella circolazione sanguigna del mondo come un sedimento velenoso rimasto dalla prima guerra mondiale.
Nella vecchia Austria ci si combatteva ancora cavallerescamente, ci si insultava nei giornali o alla Camera, ma dopo le concioni ciceroniane gli stessi deputati sedevano in compagnia bevendo la birra o il caffè e dandosi del tu. Persino quando Lueger, capo del partito antisemita, divenne borgomastro di Vienna, nulla si mutò nei rapporti privati e io personalmente debbo dichiarare di non avere mai come ebreo incontrato il più piccolo ostacolo o segno di dispregio, né nella scuola né all'università né nella mia vita letteraria. L'odio da paese a paese, da popolo a popolo, da tavola a tavola non balzava fuori ogni giorno da ogni giornale, non staccava uomo da uomo e nazione da nazione. Il senso di massa e di gregge non aveva raggiunto nella vita pubblica la repugnante potenza che ha oggi; la libertà dell'agire privato era considerata - cosa oggi appena concepibile - legittima e sottintesa, la tolleranza non veniva come oggi disprezzata, e ritenuta debolezza, ma esaltata quale energia morale.
Non fu un secolo di passione quello in cui io nacqui e fui educato. Era un mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. Il ritmo della nuova velocità non si era ancora propagato dalle macchine, dall'automobile, dal telefono, dalla radio e dall'aeroplano sino all'uomo: il tempo e l'età avevano altre misure. Si viveva più comodamente e se io tento di rievocare nella loro precisa immagine le figure degli adulti che circondarono la mia infanzia, constato con stupore che moltissimi fra di essi erano precocemente corpulenti. Mio padre, gli zii, i maestri, i commessi dei negozi, i suonatori d'orchestra, tutti a quarant'anni erano uomini già piuttosto pingui e dignitosi. Camminavano lenti, parlavano pacati e discutendo si accarezzavano le barbe ben curate e spesso già volte al grigio. I capelli grigi del resto erano un segno di dignità ed un uomo «posato» evitava di proposito, come sconvenienti, i gesti e la baldanza della gioventù. Anche nella più remota infanzia, quando mio padre non aveva ancora quarant'anni, non posso rammentarmi di averlo mai visto correre frettoloso su e giù per una scala o comunque far qualcosa con visibile fretta. La fretta non solo era considerata inelegante, ma era in realtà superflua, giacché in quel saldo mondo borghese, con le sue innumerevoli cautele e previdenze, non accadeva mai nulla di improvviso e se catastrofi si verificavano lontano, alla periferia del mondo, nulla penetrava attraverso la parete ben imbottita della vita «sicura». La guerra contro i Boeri, quella russo-giapponese, persino quella balcanica, non scalfirono neppure l'esistenza dei miei genitori. Questi saltavano le notizie di battaglie nel giornale con la stessa indifferenza con cui non leggevano la rubrica sportiva. Che cosa in fondo importava a loro di quel che accadeva fuor dell'Austria? Quali mutamenti ne derivavano alla loro vita? Nella loro Austria durante quell'epoca di bonaccia non vi furono colpi di Stato né improvvisi sbalzi di valori; se le azioni perdevano in borsa quattro o cinque punti, si parlava già di un crac e si aggrottava la fronte sulla «catastrofe». Ci si lagnava più per consuetudine che per convinzione delle forti tasse, che in realtà, paragonate a quelle del dopoguerra, non eran che una specie di piccola mancia allo Stato. Si stabiliva nei testamenti con la massima precisione il modo di proteggere nipoti e pronipoti da ogni perdita finanziaria, come se la sicurezza fosse garantita con una invisibile cambiale dalle potenze eterne e nel frattempo si viveva a proprio agio, accarezzando le piccole preoccupazioni come bravi e docili animali domestici che in fondo non fanno paura. Debbo sempre involontariamente ridere quando il caso mi mette tra mano un vecchio giornale di quei tempi e io leggo gli articoli eccitati a proposito di una elezione al consiglio comunale, oppure se cerco di ricostruire nel ricordo i drammi del Burgtheater con i loro minuscoli problemi o se ripenso all'ardore sproporzionato delle nostre discussioni giovanili su argomenti in fondo senza importanza. Come erano lillipuziane le nostre cure, che bonaccia regnava in quel tempo. Ha avuto fortuna la generazione dei miei genitori e dei miei nonni, ha vissuto la propria vita da cima a fondo tranquilla, diritta e limpida, ma non so tuttavia se di ciò li invidio. Essi infatti hanno vissuto al di là di ogni vera amarezza, delle perfidie e delle forze del destino, son passati quasi dormendo accanto a quelle crisi e a quei problemi che torturano, ma insieme grandiosamente allargano il cuore. Hanno ignorato, adagiati nella sicurezza, nell'agiatezza e nella comodità, che la vita può essere anche eccesso e tensione, eterna sorpresa e sconvolgimento; essi nel loro commovente liberalismo e ottimismo non intuirono mai che ogni giorno che albeggia alla finestra può sconvolgere la nostra vita. Anche nelle notti più nere non concepirono mai sino a qual punto l'uomo possa divenir pericoloso, ma neppure quanta forza sia in lui per superare pericoli e prove. Noi, trascinati dalle cateratte della vita, divelti da ogni vincolo di fraternità, noi che dobbiamo ricominciare appena sospinti verso una fine, noi vittime e insieme servitori volonterosi di ignote forze mistiche, noi per cui ogni serenità è leggenda e ogni sicurezza sogno puerile, noi abbiamo sentito in ogni fibra del nostro corpo la tensione da un polo all'altro e il brivido dell'eterno rinnovamento. Ogni ora di questi nostri anni fu legata alla sorte del mondo. Con dolore e con gioia abbiamo vissuto il tempo e la storia al di là della nostra piccola esistenza personale, mentre quei vecchi erano limite a se tessi. Per questo ognuno di noi, anche il più modesto della generazione, conosce la realtà mille volte meglio che i più saggi fra i nostri progenitori. Nulla però ci fu donato; ne abbiamo dovuto pagare l'intero prezzo.

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