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«Die Fledermaus»
in versione anni '70

 

 

Cast

 

Tutto sommato, la première zurighese dedicata al capolavoro di Johann Strauss jr. «Die Fledermaus» è andata meglio del previsto: ci si aspettava una massiccia contestazione del team di regia diretto da Jürgen Flimm; c'è stato invece soltanto qualche scroscio di «buuuh», in parte attutito dagli applausi, contrappuntati addirittura da qualche sporadico, audace «bravo». Anche a Zurigo, come a Vienna meno di un anno fa, è l'aspetto registico-scenografico che ha suscitato non poche perplessità e riserve.
Trasponendo la vicenda negli anni '70, il regista ha voluto rappresentare una delle componenti della società viennese di oggi: un certo tipo di borghesia annoiata, ipocrita, priva di tensione spirituale, che fonda la propria vita quasi esclusivamente sulla cultura del divertimento. Inserendo tra i personaggi tre bambini, figli di Rosalinde e Gabriel von Eisenstein, Flimm sottolinea anche il fatto che i due protagonisti sembrano poco interessati alla loro educazione: quando attraversano la scena in tuta da sci per uscire di casa e recarsi sulle piste, sono infatti ignorati dai genitori che, in futili faccende affaccendati, non rispondono nemmeno al loro timido gesto di saluto: un comportamento che sembra suscitare nei tre bimbi soprattutto ironica rassegnazione, espressa da un tenue sorriso di compatimento con lo sguardo maliziosamente rivolto al pubblico.
Gli ambienti in cui si svolge la vicenda rispecchiano il pessimo gusto di questa società fatua: una voluta «estetica del brutto», se così si può dire, sta quindi alla base della scenografia e dei costumi, i cui colori sono di uno sgargiante quasi nauseabondo. Poiché l'effetto sgradevole sul pubblico è un elemento essenziale della regia, mi chiedo che senso abbia il discorso di quei critici che hanno confezionato la stroncatura dello spettacolo mettendo in risalto proprio la bruttezza delle scene. Anche il fatto che le gags siano più patetiche che esilaranti, che certi atteggiamenti dei personaggi siano iperbolici e volgari, è una componente dell'interpretazione teatrale di Flimm: egli ha voluto rappresentare un mondo privo di valori mettendolo alla berlina con un sarcasmo, feroce e amaro nel contempo, che fa pensare alle opere letterarie, molte delle quali scritte proprio negli anni Settanta, del più inesorabile e caustico fustigatore dell'ipocrisia borghese austriaca: Thomas Bernhard.
Com'è noto la trama dell'operetta è basata su una burla che il Dr. Falke ha diabolicamente architettato per punire l'amico Eisenstein, reo di avergli a sua volta giocato un perfido tiro tre anni prima. Flimm ha introdotto sostanziali novità rispetto al testo di Genée e di Haffner. La burla non è una vendetta solitaria di Falke: tutti sono complici del facoltoso dottore, persino Orlofsky (principe nel libretto; principessa travestita da uomo e amante di Falke nell'allestimento zurighese); persino Alfred, il mellifluo spasimante di Rosalinde, moglie di Eisenstein; persino Adele, la cameriera.
E questo risulta palese solo alla fine dello spettacolo, quando la prigione in cui Eisenstein deve scontare una pena per diffamazione, girando su se stessa, si trasforma del tutto inaspettatamente nella camera di Rosalinde, l'ambiente in cui si svolge il primo atto. In esso sono stipati tutti i personaggi per dileggiare festanti il povero e frastornato Eisenstein che, per un maldestro tentativo di avventura extraconiugale propiziato proprio dal vendicativo Falke, si busca pure un sonoro schiaffone dalla moglie. Anche Alfred, lo spasimante che si è preso gioco di lei, viene punito allo stesso modo dalla furibonda padrona di casa. Rosalinde nella scena finale e dopo l'esperienza per lei durissima della burla appare ben più matura, determinata ed emancipata rispetto al primo atto, in cui vanità e frivolezza, pigrizia e noia erano predominanti nei suoi atteggiamenti. Conferendo maggiore risalto allo smascheramento dell'ipocrisia dei protagonisti rispetto alla burla riuscita che esplode nell'allegria generale, Flimm riesce ad adombrare lievemente il lieto fine con un tocco di malinconia e di amarezza.
Uno spettacolo dissacrante ma nel contempo stimolante. Esso contribuirà di certo a liberare questo capolavoro dalle pastoie delle regie «museali», che, a 126 anni dalla prima rappresentazione viennese, lo immiseriscono, tarpando le ali a un testo frizzante e vulcanico, che «pretende» registi fantasiosi e audaci in grado di vivificarlo, ricrearlo, adattandolo ai tempi nuovi.
È ben noto che il sodalizio artistico tra Jürgen Flimm e Nikolaus Harnoncourt è uno dei più solidi, affiatati, interessanti e creativi di questi ultimi anni: affermare, come fanno molti critici, che non c'è legame tra concezione teatrale e interpretazione musicale in questo spettacolo dimostra, a mio parere, come i logori clichés possano incrinare l'obiettività del giudizio. Dalla spumeggiante «Fledermaus» di Harnoncourt, gioiello interpretativo per chi sa ascoltare senza pregiudizi, per chi non considera punti fermi inamovibili le letture «alla viennese», emerge proprio quell'amarezza, quella desolazione, quella tensione drammatica che si cela anche dietro la platealità, la grossolanità della visione di Flimm. Harnoncourt ha il grande merito (che ha sempre avuto del resto) di far rivivere ciò che è scritto in partitura senza alcuna soggezione nei confronti della tradizione, senza il timore di uscire sconfitto da insensati confronti gerarchizzanti con i vari Krauss, Karajan, Kleiber... La sua è una lettura di «Fledermaus» tra le tante possibili, ma prima di tutto è la lettura di un grande maestro che sa con coraggio innovare senza minimamente tradire lo spirito di questa musica meravigliosa.
Il cast è omogeneo e di buon livello. Su tutti svetta Carmen Oprisanu, indimenticabile «principessa» Orlofsky. Lievemente contestata, a torto a mio parere, Noëmi Nadelmann: straordinaria presenza scenica, voce bellissima, ma forse un po' troppo esile per impersonare Rosalinde. Tenendo conto che si è trattato di un debutto nel difficile ruolo, la sua prestazione è stata encomiabile.
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